
Ogni otto giorni correvo in edicola a
comprare il nuovo numero di Urania. Negli anni ’60 era settimanale:
cinquantadue promesse di meraviglie rigorosamente mantenute.
E tutto cominciava con la sorpresa della
copertina. A quell’epoca il disegnatore era Karel Thole. Nei celebri cerchi in
campo bianco, l’artista ci dava un vago assaggio della storia, ma soprattutto
ci stupiva con quelle immagini surreali. L’occhio veniva gratificato prima
della mente.
Correvo a casa e mi mettevo subito a
leggere. Ma spesso la giornata era caotica; allora aspettavo la sera e mi
mettevo il libretto sotto le coperte e facevo scorrere le pagine al lume di una
torcia elettrica. Non era raro che mi immergessi nella lettura durante i compiti,
tralasciando una versione di latino che poi avrei dovuto copiare
frettolosamente il mattino dopo dal quaderno di un compagno compiacente. E ci
fu quella volta che il professore di filosofia mi beccò mentre sbirciavo un
numero di Urania che tenevo aperto sotto il banco: era il modo per sopravvivere
a una delle sue micidiali lezioni frontali.
Quello che mi capitò la prima volta fra le
mani fu il numero 399, del 29 agosto 1965. Era una raccolta di racconti di
Ballard dal titolo “Passaporto per l’eternità”. Fu una folgorazione. Ero stufo
di leggere romanzi di fantascienza avventurosa per adolescenti, reperiti per lo
più nella biblioteca scolastica. Opere come “XP-15 in fiamme” di P. Devaux,
oppure “La conquista dell’Almeriade” di H.G. Viot cominciavano a farmi
sbadigliare. Il mio palato si era raffinato, dovevo nutrirmi meglio. Leggevo
anche altro, i grandi classici della letteratura, ma la mia fame di
fantascienza era cresciuta.
E Urania fu fondamentale.
Di quelle prime letture, capaci di introdurmi
in un mondo ricco di immagini e di idee, ricordo altri titoli che nella mia
mente riemergono come degli archetipi. Sono ancora in grado di rievocare la
paura che mi suscitò “I giganti di pietra” di Donald Wandrei (Urania n° 410),
oppure l’agghiacciante sorpresa provocata da “Dalle fogne di Chicago” di
Theodore L. Thomas e Kate Wilhelm (Urania n° 436). Ma potrei elencare altri
miei incontri con i mondi dell’impossibile o dell’improbabile: “Cronache del
dopobomba” di Philip K. Dick (Urania n° 409), “Oltre l’invisibile” di Clifford
D. Simak (Urania n° 414), “La casa senza tempo” di A. E. Van Vogt (Urania n°
420).
Nel corso degli anni ’60, la cura del
periodico fu affidata a Carlo Fruttero e a Franco Lucentini. Allora i due nomi
non mi dicevano nulla; più tardi avrei scoperto che la direzione era stato data
a due letterati di gran classe, che prima di essere autori erano lettori
appassionati e curiosi… sì, anche di fantascienza.
Le pubblicazioni vedevano l’alternanza di
queste tre categorie: i romanzi, i capolavori, le antologie. Tre modi per
godere della narrazione fantascientifica attraverso la brevità, la novità e la
riedizione di opere che erano già entrate nel mito. E poco importava, a
quell’epoca, se a volte i testi non erano integrali.
Ho continuato a leggere Urania
negli anni successivi, ma non con la stessa assiduità. Comunque per me rimase
un punto di riferimento.
Oggi, con i suoi sessant’anni e i suoi
1594 numeri, rappresenta un segno indelebile per la divulgazione fantascientifica.
(Per gentile concessione
dell’Autore)
Credo che Urania sia stata un po' la passione di tutti. E, nonostante passino gli anni, un certo amore per essa tuttora esiste.
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