giovedì 18 aprile 2013

URANIA di Giuseppe Novellino






     Ogni otto giorni correvo in edicola a comprare il nuovo numero di Urania. Negli anni ’60 era settimanale: cinquantadue promesse di meraviglie rigorosamente mantenute.
     E tutto cominciava con la sorpresa della copertina. A quell’epoca il disegnatore era Karel Thole. Nei celebri cerchi in campo bianco, l’artista ci dava un vago assaggio della storia, ma soprattutto ci stupiva con quelle immagini surreali. L’occhio veniva gratificato prima della mente.
     Correvo a casa e mi mettevo subito a leggere. Ma spesso la giornata era caotica; allora aspettavo la sera e mi mettevo il libretto sotto le coperte e facevo scorrere le pagine al lume di una torcia elettrica. Non era raro che mi immergessi nella lettura durante i compiti, tralasciando una versione di latino che poi avrei dovuto copiare frettolosamente il mattino dopo dal quaderno di un compagno compiacente. E ci fu quella volta che il professore di filosofia mi beccò mentre sbirciavo un numero di Urania che tenevo aperto sotto il banco: era il modo per sopravvivere a una delle sue micidiali lezioni frontali.
     Quello che mi capitò la prima volta fra le mani fu il numero 399, del 29 agosto 1965. Era una raccolta di racconti di Ballard dal titolo “Passaporto per l’eternità”. Fu una folgorazione. Ero stufo di leggere romanzi di fantascienza avventurosa per adolescenti, reperiti per lo più nella biblioteca scolastica. Opere come “XP-15 in fiamme” di P. Devaux, oppure “La conquista dell’Almeriade” di H.G. Viot cominciavano a farmi sbadigliare. Il mio palato si era raffinato, dovevo nutrirmi meglio. Leggevo anche altro, i grandi classici della letteratura, ma la mia fame di fantascienza era cresciuta.
     E Urania fu fondamentale.
     Di quelle prime letture, capaci di introdurmi in un mondo ricco di immagini e di idee, ricordo altri titoli che nella mia mente riemergono come degli archetipi. Sono ancora in grado di rievocare la paura che mi suscitò “I giganti di pietra” di Donald Wandrei (Urania n° 410), oppure l’agghiacciante sorpresa provocata da “Dalle fogne di Chicago” di Theodore L. Thomas e Kate Wilhelm (Urania n° 436). Ma potrei elencare altri miei incontri con i mondi dell’impossibile o dell’improbabile: “Cronache del dopobomba” di Philip K. Dick (Urania n° 409), “Oltre l’invisibile” di Clifford D. Simak (Urania n° 414), “La casa senza tempo” di A. E. Van Vogt (Urania n° 420).
     Nel corso degli anni ’60, la cura del periodico fu affidata a Carlo Fruttero e a Franco Lucentini. Allora i due nomi non mi dicevano nulla; più tardi avrei scoperto che la direzione era stato data a due letterati di gran classe, che prima di essere autori erano lettori appassionati e curiosi… sì, anche di fantascienza.
      Le pubblicazioni vedevano l’alternanza di queste tre categorie: i romanzi, i capolavori, le antologie. Tre modi per godere della narrazione fantascientifica attraverso la brevità, la novità e la riedizione di opere che erano già entrate nel mito. E poco importava, a quell’epoca, se a volte i testi non erano integrali.
     Ho continuato a leggere Urania negli anni successivi, ma non con la stessa assiduità. Comunque per me rimase un punto di riferimento.
     Oggi, con i suoi sessant’anni e i suoi 1594 numeri, rappresenta un segno indelebile per la divulgazione fantascientifica.

 (Per gentile concessione dell’Autore)

1 commento:

  1. Credo che Urania sia stata un po' la passione di tutti. E, nonostante passino gli anni, un certo amore per essa tuttora esiste.

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