
Gli esami del
sangue rappresentano, per me, un’autentica scocciatura. Io non sono di quelli
che s’impressionano; non faccio parte del gruppo degli ipocondriaci, e tanto
meno dei fobici che si tengono lontani da ospedali e da ambulatori per paura di
scoprire qualche malattia incurabile. Quando l’analisi mi viene prescritta,
vivo solo una specie di molesto disagio: non mi va di attraversare, a digiuno,
mezza città e tornare a casa dopo tre o magari cinque ore.
Ma l’ultima volta non ho sopportato un
fastidio. Ho fatto un’esperienza davvero inquietante. E poiché nessuno mi vuole
credere, ho deciso di liberarmi da quell’impressione angosciosa, mettendo sulla
carta il resoconto di ciò che mi è capitato.
Non ricordo
come fossi venuto a conoscenza dell’ambulatorio gestito dalla Cooperativa “La
Spiga”. Sotto la dicitura appariva il motto: “In sanguine salus”. La
descrizione del servizio, poi, era dettagliata, prometteva efficienza e
professionalità. Si trattava, insomma, di un’iniziativa privata tendente ad
alleggerire il lavoro dell’Azienda Sanitaria Locale… Ma soprattutto dichiarava
di voler venire incontro ai pazienti. E poi era a due passi da casa mia.
Mi diedero
appuntamento per le otto.
- Fissiamo un
orario preciso per ogni singolo paziente – mi aveva detto una gradevole voce di
donna, per telefono. – Non dovrà fare alcuna coda. Nel giro di quindici minuti
avrà finito. Pensiamo noi a consegnare al Laboratorio dell’ASL i campioni di
sangue e di urina. Naturalmente il servizio è a pagamento. Costa dieci euro.
Era un buon
prezzo per evitare attese snervanti.
Quel mattino,
misi in tasca l’impegnativa e mi recai presso il suddetto ambulatorio.
L’ascensore mi
scaricò davanti all’ingresso, al sesto piano. Mi colpì subito, appeso sulla
porta, l’austero motto in latino.
L’interno era
sobrio, accogliente, ma piuttosto freddo. I caloriferi appena tiepidi.
Nell’atrio
c’era una specie di reception con sportello. Una donna magra (dalla voce
sembrava l’addetta che mi aveva parlato per telefono) mi accolse con un gentile
sorriso.
- Buongiorno! È
lei il signor Volcic?
- Sì.
- Mi fa vedere
l’impegnativa?
Gliela misi
davanti.
Scrisse
qualcosa e poi mi fece accomodare nella saletta, un locale poco luminoso,
arredato con otto sedie e un divanetto. Sulle pareti, la frase riproponeva il
suo messaggio: “In sanguine salus”. Era riprodotta su quattro targhette d’un
grigio irregolare come quello di un cielo nuvoloso. In ognuna spiccavano, in
caratteri gotici, le tre parole d’uno rosso intenso.
- Venga, signor
Volcic – mi invitò la donna, dopo brevi istanti.
Entrai nella
stanza dei prelievi, dove mi aspettavano due giovani uomini in camice bianco.
Mi colpì la loro magrezza, come quella della donna che mi aveva accolto.
Uno dei due mi
si avvicinò. Era bianco in un volto affilato, come il suo indumento di lavoro.
Con estrema gentilezza mi disse:
- Si segga… e
scopra, per cortesia, il braccio sinistro.
Fece la sua
operazione con grande cura, direi quasi religiosa.
Poi soggiunse:
- Adesso
preleviamo anche dal destro.
Mi sembrava
insolito.Volli obiettare, ma le parole mi rimasero in gola.
L’altro
operatore, infatti, mi stava già slacciando il polsino della camicia. Chinato
su di me, introdusse l’ago. Io, prima di svenire, notai la ormai nota scritta
sopra il taschino del camice.
Poi mi ritrovai
in sala d’aspetto, sdraiato sul divano.
- Si sente
meglio? – mi chiese la donna.
Una grande
stanchezza si era impossessata di me. Volevo chiedere spiegazioni, ma mi
mancavano le forze. Ero in preda a una strana apatia.
- Vuole che le
chiami un taxi?
- No, grazie –
feci, alzandomi con grande sforzo. Non volevo il loro aiuto. Desideravo
semplicemente andarmene da quell’ambulatorio. Lottando contro un violento
capogiro, mi apprestai ad uscire.
La donna mi
allungò un foglio con l’intestazione della Cooperativa “La Spiga” – Dopodomani,
da mezzogiorno alle quattro, potrà ritirare il referto presso l’ufficio
dell’azienda sanitaria.
Presi il
foglio, lo piegai e mi avviai barcollando verso l’atrio.
- Non si
preoccupi - fece la donna alle mie spalle. – A qualcuno capita di svenire,
durante il prelievo.
A me sembrava
strano e mi chiesi quanto sangue mi avessero estratto.
Prima di
uscire, voltai lo sguardo verso lo sportello, dove la donna si era nuovamente
collocata. La vidi farmi un cenno di saluto, strizzarmi l’occhio e alzare (come
per un brindisi beffardo) un bicchiere contenente un denso liquido rosso. E
bevve.
Uscii.
Lascio a voi
tirare le somme.
Vi basti
sapere, oltre ai fatti, che quando andai a ritirare i miei esami, ebbi una
sorpresa sconvolgente. I campioni non erano mai pervenuti. Né gli operatori
dell’azienda sanitaria avevano sentito parlare della Cooperativa “La Spiga”.
Allora mi recai
di nuovo in quella casa. All’ingresso non c’era nessuna targhetta che indicasse
l’ambulatorio dei prelievi… Salii con l’ascensore, e quando fui sul pianerottolo
del sesto piano, davanti alla stessa porta, vidi che vicino al campanello
spiccava un nome: Prof. Ildebrando Sanguineti.
Suonai. Venne
ad aprirmi una donna di servizio, rubiconda e tracagnotta, alle cui spalle
c’era un atrio del tutto diverso da quello che mi aveva accolto due giorni
prima. E seppi da lei che il professore, ordinario di latino e greco presso il
Liceo Classico “Cesare Cantù”, non era in casa.
Non chiesi
altro e me ne andai.
Ci sarà
qualcuno, tra coloro che leggeranno questo mio resoconto, disposto ad aiutarmi
a capire che cosa mi sia successo?
(Per gentile concessione dell’Autore)
Davvero un bel racconto, quanto a suspence e colpi di scena. Avvincente e molto ben scritto.
RispondiEliminaMolto avvincente, simpatico, fa pensare a paure recondite e realizzate.
RispondiEliminaPaola Bianchi
Poco significativo, abbastanza pesante e noioso da leggere.
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