
Nel 1846 il Giornale del Regno delle due
Sicilie pubblicò la notizia della scomparsa del marchese Leopoldo
Santacroce, morto all’età di trent’anni. L’articoletto descrisse i solenni
funerali in Santa Chiara. Il rapporto del commissariato Quartiere - Porto
specificò che il Santacroce era precipitato in mare inciampando sul teschio di
un cadavere ivi trasportato dalle acque torrenziali insieme con altro ossame
proveniente dalla prospiciente grotta del Chiavicone. Il rapporto della
polizia ammise un particolare importante: il teschio apparteneva a persona
giovane perché aveva tutti i denti intatti, tranne un incisivo troncato a metà.
Dalla circonferenza della scatola cranica, poteva dedursi l’appartenenza ad una
donna. Un commissario più acuto avrebbe facilmente rapportato il teschio con
dente spezzato alla scomparsa di una giovane l’anno prima. All’epoca dei fatti,
testimonianze accurate e dicerie non mancarono. Può essere che la polizia non
indagò oltre per evitare di compromettere il ricordo del marchese morto in modo
tragico. Né la polizia tenne conto di testimoni che videro il marchese buttarsi
in mare, urlando stralunato come un pazzo. Adesso è facile ricucire i fili di
quella vicenda oscura.
* * *
Nel 1845, il marchese s’invaghì di una
giovane ventenne sfortunata e povera di nome Giulia. Era figlia di un certo
Rocco Damiano finito in carcere perché in un momento d’ira aveva ammazzato la
moglie con un colpo d’ascia. Toccò a Giulia mantenere le due sorelline ed il
fratellino, rimasti soli. Fu operaia in uno dei capannoni del marchese in Via
Medina. La ragazza era cucitrice insieme con una ventina di coetanee. Come le
altre operaie era diretta da una sarta di professione, madama Durso. Giulia
ricuciva i pezzi di stoffa ritagliati da madama. La ragazza era alta e ben
fatta. Aveva solo un dente rotto in bocca. Anni prima dei monelli le avevano
lanciato pietre e reciso a metà uno degli incisivi. Il marchese Leopoldo la
notò lavorare e s’infiammò per lei. Giulia per necessità o perché non si poté
sottrarre, fu amante del marchese. Dopo alcuni mesi era incinta. La poveretta
non poteva nascondere il fatto ai parenti e non sapeva come fare. Il marchese
stravolto la uccise e di notte buttò il cadavere nel Pertugio parte iniziale
del Chiavicone, un ampio condotto sotterraneo. Questo canalone passava
sotto Via Toledo e finiva a poca distanza dal mare in Via Chiaia, convogliando
le acque dagli avvallamenti di Monte San Martino.
Lo storico Carlo Celano riferisce che
durante la peste del 1656 a
Napoli ci furono oltre duecentomila morti su una popolazione di poco più di
400.000. Non si sapeva dove seppellire i cadaveri. I becchini promettevano di
dare sepoltura ai morti in un luogo sacro e invece li buttavano nel Chiavicone.
Nei secoli successivi, il canale fu usato come immondezzaio. D’estate in
particolare, miasmi melensi di morte emanava la forra piena di sorci.
Il 14 agosto 1846, ci fu a Napoli un
terribile temporale. Piovve e grandinò con tuoni e fulmini dal primo mattino.
Si formò un devastante torrente che s’incanalò nel Chiavicone dove trovò
ostruito il percorso al mare. La massa d’acqua fracassò le pareti del condotto
e penetrò nelle fondamenta delle case prospicienti facendole crollare. Crollò
anche il collegio di S. Tommaso e l’antica costruzione del Monte dei Poveri
Vergognosi. La gran parte degli scheletri che il Chiavicone custodiva,
si riversò in strada e Via Toledo ne fu piena. Dopo il temporale che cessò
verso il pomeriggio, alcune carrozze transitanti per quella via non poterono
evitare di passare su carcasse e scheletri umani. Il marchese Lorenzo
Santacroce andava dalle parti di Via Chiaia a vedere come stava sua madre. Il
cocchiere fermò la carrozza perché doveva rimuovere uno di quei cadaveri
espulsi dal Chiavicone. Incuriosito e schifato dall’insolito e tragico
spettacolo, scese anche il marchese che si trovò davanti ai piedi un teschio
con resti di lunghi capelli neri e pelle. Il teschio sembrava sorridergli con
quei denti incisivi in bella mostra, si era conservato anche un occhio
nell’orbita ossea che sembrava fissare l’incerto cielo. Il marchese notò subito
l’incisivo tronco della sua vittima e fu stravolto. Urlando si gettò in mare.
Nel 1890, un prete discendente del marchese
fece pubblicare a proprie spese il diario dell’avo in cui era descritto
l’infame delitto di Giulia Damiani. Il marchese Leonardo Santacroce scrisse il
diario forse per mettere a tacere la coscienza ed il prete volle far luce su
tanta infamia.
(Per gentile concessione dell’Autore)
Interessante e inquietante nello stesso tempo.
RispondiEliminaIl racconto, dalle sfumature gotiche, è impressionante... anche grazie al taglio cronachistico che gli trasmette un carattere di cruda testimoniamza. Si legge con piacere, è bem scritto ed efficace nel riprodurre un'atmosfera del nostro passato.
RispondiEliminaGiuseppe Novellino