Edgar era nato nella casa di
Shum-um-ttl. “ttl” indicava che Shum-um era un personaggio di rilievo fra gli
Ukhuraj. La casa era una grande fattoria economicamente autonoma immersa nella
campagna, e con pochi contatti coi centri cittadini. I campi producevano grano,
vino e lletel, una pianta alimentare che si era ben acclimatata sulla Terra, ma
che proveniva dal pianeta degli Ukhuraj.
Edgar conosceva la storia, l'aveva
sempre sentita come parte della propria cultura, di quelle cose che tutti sanno
da sempre, come il fatto che il lletel provocava intossicazioni agli umani se
non lo si cucinava prima di consumarlo. Cinque o sei generazioni prima, gli
Ukhuraj erano giunti sulla Terra e avevano trovato un pianeta distrutto. Gli
uomini, aveva saputo dai racconti degli anziani, avevano sempre avuto la
nefasta tendenza a uccidersi fra di loro, talvolta in immani scontri di grandi
dimensioni che coinvolgevano migliaia o milioni di persone, ed erano chiamati
“guerre”.
Qualche secolo prima, gli uomini
avevano raggiunto una conoscenza della natura sufficiente a dar vita a una
società tecnologica, na non avevano avuto la saggezza necessaria a mantenere
l'equilibrio, a fare un uso ragionevole delle risorse, delle materie prime e
delle fonti energetiche. Quando queste avevano cominciato a scarseggiare, si
erano scatenate guerre feroci fra i vari stati umani.
Quando gli Ukhuraj erano
atterrati, avevano trovato un pianeta distrutto e un'umanità quasi estinta, e
avevano cominciato a rimettere insieme le cose.
Edgar incontrò Desmond e lo
salutò.
“Buon giorno”, disse.
“Bun girn”, rispose Desmond con
quello strano, rauco tono di voce.
Desmond era un “utrath”, un
interprete e cui corde vocali erano state modificate chirurgicamente per poter
pronunciare le sillabe gutturali che formavano il linguaggio degli Ukhuraj.
Si avviò di buon passo: quella
mattina c'era parecchio lavoro da fare, occorreva controllare gli impianti di
irrigazione delle serre, dare gli antiparassitari e controllare la maturazione
del lletel. La pianta continuava a seguire per la sua maturazione un ciclo
annuale di quattordici mesi, che era quello di Ukhura, il pianeta di origine
degli Ukhuraj, ed era regolarmente sfasata rispetto alle stagioni terrestri,
occorreva proteggerla con attenzione, soprattutto durante i mesi invernali.
Tuttavia Desmond lo richiamò
indietro.
“Pu portr qust al pdron?”, chiese
e gli porse un fascio di documenti.
Edgar li guardò con aria
distratta: non sapeva leggere, non era una cosa di una qualche utilità per il
suo lavoro, tanto più cose scritte nella lingua degli Ukhuraj e nel loro
alfabeto. Solo guardare quei segni a volte spezzati, altre volte dall'andamento
serpentino, gli faceva venire mal di testa. Comunque si trattava certamente di
contabilità relativa all'andamento dell'azienda.
Lo studio di Shum-um-ttl si
trovava al piano superiore. Edgar percprse la breve scala dai gradini di legno,
poi un tratto di corridoio. Davanti alla porta dello studio si fermò e bussò.
Ricevette una voce nel caratteristico
tono rauco degli Ukhuraj.
Aprì ed entrò. Come esigeva
l'etichetta, a metà percorso fra l'ingresso e la scrivania di Shum-um-ttl, si
profuse in un profondo inchino.
L'ukhuraj gli fece cenno di
poggiare il fascicolo sulla scrivania: nessuno dei due era in grado di parlare
la lingua dell'altro, e la comunicazione si riduceva forzatamente
all'essenziale.
L'alieno aveva un aspetto che non
si sarebbe potuto in nessun modo scambiare per quello di un essere umano, a
malapena lo si poteva definire un umanoide. La testa di forma allungata si
protendeva in una specie di lungo muso: una piccola bocca, gli occhi in
posizione molto arretrata dalle iridi giallastre. Le spalle sottili terminavano
con due braccia e le mani sottili che apparivano assurdamente piccole.
Il torace e la parte inferiore del
corpo apparivano sproporzionati, larghi e tozzi: le gambe che si intravedevano
sotto la scrivania, tozze come tronchi d'albero, terminanti con piedi muniti di
unghie simili a piccoli zoccoli, erano larghe il doppio della coscia di un
uomo. La testa, il corpo e le estremità, a eccezione delle palme delle mani e
delle piante dei piedi, erano uniformemente coperti da una peluria brunastra
folta e corta. Sul muso dell'ukhuraj non era possibile leggere emozioni di
sorta, o almeno gli esseri umani non ci riuscivano.
Dopo aver poggiato i documenti sul
tavolo, Edgar arretrò senza voltare le spalle all'ukhuraj fino a quando non
ebbe oltrepassato la soglia, così come esigeva l'etichetta, quindi richiuse la
porta dietro di sé.
Che età poteva avere Shu-um-ttl?
Edgar ricordava di averlo visto sempre uguale da quando era nato. Gli Ukhuraj,
si diceva, avevano una vita lunghissima, ma erano pochi e si riproducevano
raramente. Gli uomini in compenso, da quando gli alieni erano arrivati sulla
Terra, avevano prosperato e si erano moltiplicati.
Era una classica giornata di fine
estate, luminosa e ancora calda, ma non in modo eccessivo. La lunga fila delle
trebbiatrici si dirigeva, partendo dalle vicinanze della fattoria verso
l'estremità del campo, fino alla rete elettrificata. Edgar era alla guida di
una trebbiatrice. Quello era un lavoro che gli piaceva: tutta la parte che a
mano, come usavano i contadini di epoche remote, sarebbe stata terribilmente
faticosa, la svolgeva la macchina che agguantava a centinaia per volta gli
steli del grano, separava i chicchi dai calami, stivava il frumento nel capace
carrello, ed espelleva la paglia sotto forma di balle compresse e già
perfettamente squadrate.
Lui non doveva fare altro che
mantenere l'allineamento con gli altri veicoli e stare attento quando si
avvicinava alla recinzione là in fondo. La recinzione elettrificata serviva a
tenere lontani bestie selvatiche e uomini randagi, ma ovviamente era pericolosa
anche per la gente della fattoria, se non si stava attenti.
La cabina della mototrebbiatrice
era scoperta, e il vento che arrivava in faccia a Edgar gli procurava una
piacevole sensazione di frescura, anche se era meglio tenere il cappello
calcato in testa per evitare copi di sole. Si mise a fischiettare. La vita era
bella.
Lise era bionda, non molto alta,
dagli occhi azzurri, la pelle chiara e una spruzzata di efelidi fra gli occhi e
l'attaccatura del naso. I seni e le natiche formavano delle rotondità che Edgar
trovava molto piacevoli. Incontrandola nel corridoio, le strofinò il
posteriore, anche se non era che lo spazio per passare fosse poi così stretto.
“Sporcaccione!”, protestò lei con
finta indignazione.
Gli rivolse un'occhiata di
sottecchi.
“Non ora”, disse, “Stasera vieni
nella mia stanza, non chiuderò la porta a chiave”.
Edgar aveva una relazione con Lise
da diversi mesi; non c'era alcun bisogno di ufficializzarla, e non era affatto
detto che durasse per sempre. Se Lise fosse rimasta incinta e avesse avuto un
bambino, neppure questo era un problema: la casa di Shum-um-ttl se ne sarebbe
presa cura. Lo stesso Edgar d'altra parte non aveva idea di chi fosse suo
padre, e per quasi tutte le persone che vivevano alla fattoria, era lo stesso.
Quella sera dopo aver fatto
l'amore, Edgar e Lise giacevano abbracciati. A un tratto lei si strinse più
forte a lui e gli chiese:
“Mi vuoi bene?”
La domanda lasciò Edgar spiazzato.
Certo, provava una forte attrazione per Lise, e condividevano il piacere da
mesi, ma amare o voler bene cosa significavano in realtà?
Non aveva una risposta.
“Tu sei molto importante per me”,
rispose cercando di metterci il minor imbarazzo e la maggiore sincerità
possibile.
“Ti devo mostrare una cosa”, disse
lei, “Vieni con me e cerca di non fare rumore”.
Si alzarono, uscirono dalla camera,
e cercando di essere silenziosi come fantasmi, raggiunsero il portone
principale. Lise tirò il chiavistello che scivolò silenzioso, doveva essere
stato ben oliato.
Una volta all'esterno del corpo
principale della fattoria, la donna portò per mano Edgar verso un fienile.
“Ora guarda!”, disse lei scostando
la paglia che ingombrava il pavimento dell'edificio.
Edgar guardò e non capì: erano
teloni di plastica di quelli che si usavano per coprire i raccolti quando
minacciava grandine, che erano stati tagliati e cuciti in modo da formare delle
rozze tute.
“Questi a che servono?”, chiese
lui.
“Come a che servono?”, replicò
Lise, “Servono a superare la recinzione elettrificata, a scavalcarla senza
rimanerci secchi”.
“E perché?”, chiese lui.
“Come perché?”, rispose Lise, “A
che serve la recinzione elettrificata?”
“Beh, a tenere lontane bestie
selvatiche e uomini randagi”.
“Non ti sei mai chiesto, non hai
mai capito che serve soprattutto a tenere dentro noi? Gli Ukhuraj sono i nostri
padroni, e noi siamo i loro servitori, i loro schiavi, li teniamo in vita col
nostro lavoro, e loro comandano tutto e tutti. Là fuori c'è la libertà, la
possibilità di vivere padroni di noi stessi. Domani notte io e un gruppo di
compagni fuggiamo. Vuoi unirti a noi?”
Edgar non rispose subito, poi
lentamente scosse il capo e disse: “No!”
Libertà? Un bel concetto astratto:
li aveva visti qualche volta gli uomini selvatici, lui, quando si avvicinavano
cercando un varco nella recinzione elettrificata per entrare e rubacchiare
qualcosa nei campi della fattoria: creature magre, lacere, sporche, fameliche.
Alla fattoria Edgar aveva da mangiare, un riparo sopra la testa, stare al caldo
durante i mesi invernali, divertimenti come la stessa Lise.
Gli Ukhuraj erano i loro padroni,
e con questo? Per un lunghissimo tempo gli uomini non avevano avuto padroni, e
si erano distrutti a vicenda in una serie interminabile di guerre fratricide, e
avevano quasi completamente distrutto il loro pianeta e la sua biosfera. Forse
semplicemente gli uomini non erano capaci di vivere liberi. Il dominio degli
Ukhuraj era in fondo quanto di meglio potesse essere loro capitato, forniva un
accomodamento conveniente.
“No”, ribadì, “Non vengo, andate
voi!”
Lise fuggì la notte successiva
insieme ad altri quattro o cinque umani. Nessuno si diede la pena di dare loro
la caccia: di personale umano alla fattoria ce n'era più che a sufficienza. La
scomparsa di Lise mise Edgar parecchio di malumore, ma presto non ebbe tempo di
stare a pensarci su.
Era in previsione un summit degli
Ukhuraj di quella parte del Paese, e la fattoria doveva essere pronta per dare
loro la migliore accoglienza possibile.
Ci fu un gran daffare per
sistemare gente negli ambienti sia pure vasti e accoglienti della grande casa
padronale. Gli Ukhuraj in tutto non erano più di una mezza dozzina, ma ciascuno
di loro aveva un folto seguito di umani.
A un certo punto, Desmond venne a
chiamare Edgar. Per lui, Shum-um-ttl aveva pensato a un incarico speciale.
La sera fu il momento di una cena
sontuosa. Shum-um-ttl aveva fatto apparecchiare nel vasto salone una grande
tavolata di deschi disposti a semicerchio: gli Ukhuraj occupavano ovviamente i
posti d'onore, e tutto attorno c'erano i più importanti fra i loro servitori
umani.
Al centro del salone, coperta da
un telo, c'era la sorpresa che Shum-um-ttl aveva fatto predisporre per
allietare la serata.
Materialmente, la sorpresa si
rivelò una grande gabbia divisa in due scomparti separati da un tramezzo. Nel
primo scomparto c'era un essere coperto da un folto pelame nerastro e
rozzamente simile a un antropoide, ma con quattro braccia ciascuna delle quali
terminava con una mano munita di robusti unghioni dall'aria inquietante, così
come inquietanti e minacciosi erano i denti acuminati che spuntavano dalla
bocca della creatura: un essere selvaggio la cui razza gli Ukhuraj avevano
scoperto su di un pianeta remoto durante i loro vagabondaggi fra le stelle.
Nell'altra parte della gabbia
c'era un umano in stato di shock e impietrito dal terrore.
Quando il tramezzo fu tolto, l'antropoide
alieno si scagliò sull'umano, gli strappò un braccio poi l'altro e cominciò a
farlo a pezzi e a portare alla bocca brandelli di carne sanguinanti, mentre il
malcapitato, ancora vivo, si dibatteva in un'agonia atroce. La sua morte fu
orribile e lenta.
Gli Ukhuraj apprezzarono
moltissimo lo spettacolo.
L'umano era Edgar.
Molto belli e avvincenti, soprattutto intensi i racconti di Fabio
RispondiEliminaEccellente racconto. Avendolo letto dopo aver visto la quarta stagione di Falling Skies poi, fa un certo effetto.
RispondiEliminaDanilo Concas