Avevo
deciso di andarmene da casa. Ci avevo pensato sopra a lungo, e mi sembrava la
soluzione migliore. Ne avevo parlato coi miei, prima mi ero confidato con papà
e mamma, poi avevo parlato apertamente con i miei fratelli e le sorelle.
Eravamo una famiglia di contadini, e il fazzoletto di terra su cui ci piegavamo la
schiena tutti i giorni, non era sufficiente a sfamarci tutti, eravamo una
famiglia troppo numerosa.
Da una
parte, i miei erano dispiaciuti all'idea di vedermi andare via, ma erano anche
sollevati al pensiero di dividere il poco che avevamo con una bocca in meno.
Eravamo
seduti a tavola per la nostra parca cena qualche giorno prima di quello fissato
per la mia partenza, e mio padre e mia madre mi avevano già dato la loro
benedizione, che era pressappoco l'unica cosa che potessero darmi.
“Cosa pensi
di fare?”, mi chiese Jen, il mio fratello che era il primo nato dopo di me e
aveva quasi la mia età.
“Beh”,
dissi, “le occasioni di lavoro in città non mancano”.
“Si, è vero”,
rispose lui, “ma a fare il lavorante a giornata ti tocca spaccarti la schiena
da mattina a sera per un tozzo di pane”.
“Mi
adatterò se non trovo di meglio”, dissi, “ma la mia intenzione non è questa”.
“Potresti
andare a servizio da qualche signore”, disse lui.
“Ci ho
pensato”, risposi, “ma ormai non credo di avere più l'età per imparare a fare
il valletto. Bisogna aver imparato il galateo, i modi fini, il linguaggio che
piacciono ai signori aristocratici. Solo le belle ragazze, quelle le prendono a
servizio comunque”.
“Potresti
metterti le sottane e farti crescere i capelli lunghi”, celiò lui, “ma non so
proprio dove potresti trovare un paio di poppe di quelle che piacciono ai
signori”.
Gli risposi
con una manata sulla spalla.
“No, non
sono proprio il tipo!”
“E allora
cosa vuoi fare?”
Ho pensato
di arruolarmi”, dissi. “Vorrei fare il soldato”.
Adesso Jen
non scherzava più, e anche gli altri miei familiari erano rimasti in silenzio.
“Ne sei ben
sicuro?”, mi chiese mio padre.
Annuii.
“Certo”,
dissi. “La disciplina è dura, ma sei sicuro di mangiare tutti i giorni senza
spaccarti il filo della schiena”.
“Si”, disse
mio padre. “Ma in caso di guerra...”.
“Ecco,
vedi”, risposi, “ci ho pensato a lungo. A ben guardare, corrono più rischi i
civili: senza armi per difendersi, esposti ai saccheggi, a rischio di perdere
la casa, i campi, la famiglia”.
“Bene”,
concluse il mio vecchio, “se pensi che questo sia il destino migliore per te,
hai la nostra benedizione”.
Partii la
mattina del secondo giorno successivo, dopo aver abbracciato tutti i miei
familiari e con la promessa di dare loro notizie appena mi fosse stato
possibile.
Un pezzo
della strada fino alla città lo feci dopo aver ottenuto un passaggio su un
carro di fieno, ma il più lo percorsi con le mie gambe; per fortuna ero un buon
camminatore, e le mie quattro cose messe in un fagotto che portavo a spalla
mediante un bastone, non è che pesassero un granché.
Mi fermai
in un sobborgo dove era più facile trovare un posto dove dormire e qualcosa da
mettere sotto i denti che fossero alla portata dei miei pochi spiccioli,
naturalmente se non si era troppo schizzinosi.
Non
riuscivo a credere alla mia fortuna: era là, dopo due giorni che giravo a
vuoto, l'avevo finalmente trovato. Era un uomo di mezza età, magro, non molto
alto, vestito con un abito sobrio di discreta fattura, con una semicalvizie che
gli allargava la fronte in direzione della nuca. Poteva essere un mercante in
viaggio per affari, ma non ne aveva l’aria; un contadino non era di sicuro, né
di certo era un nobile, a meno che non fosse spaventosamente decaduto. Poteva
essere un ladro di quelli che frequentano le taverne pronti ad alleggerire i
viaggiatori distratti, ma in questo caso avrebbe fatto il possibile per non
essere notato, invece cercava di attirare l’attenzione, e non era un
biscazziere, un baro, non aveva né dadi né carte. Era un tipo che faceva dei
gran sorrisi, attaccava discorso e offriva da bere a chi gli capitava,
ostentando una bonarietà che era però smentita da certi sguardi furbeschi di
sottecchi. Aveva a tracolla una borsa da scrivano, di quelle che contengono
fogli, penne, pennini, boccette d’inchiostro e gli dei sanno cos’altro.
Capii di
essermi imbattuto proprio nell’uomo che cercavo, un arruolatore. L’impero è
sempre avido di uomini, soprattutto per le guarnigioni delle marche
settentrionali, per proteggersi dalle incursioni delle popolazioni barbariche
del lontano nord. Gli arruolatori erano abili a persuadere i giovani a entrare
nell’esercito, ed erano assai poco scrupolosi; spesso accadeva che qualche
contadinotto arrivasse in città per vendere i suoi prodotti, accettasse da
bere, bevesse qualche bicchiere in più e si trovasse vincolato a vita da un
contratto dove aveva messo uno scarabocchio senza capire cosa stava facendo e
senza sapere né leggere né scrivere.
Certo, mi
sarei potuto rivolgere a qualsiasi comando imperiale, ma mi tentava l’idea di
imbrogliare uno di questi ingannatori di professione, scroccare da bere e
magari una cena per persuadermi a qualcosa che comunque ero intenzionato a
fare.
Dopo averlo
studiato per un po’, incrociai il suo campo visivo in un modo che sembrasse
casuale.
“Ehilà,
baldo giovane!”, esclamò lui girandosi verso di me con aria di finta
cordialità.
Io accennai
un saluto cercando di non mostrarmi troppo interessato.
Beh, quel
tipo ci sapeva fare a chiacchiere! Mi ritrovai impegnato in una lunga
conversazione mentre lui spingeva verso di me un boccale dietro l’altro di
vario contenuto: vino, birra, sidro, idromele, tutto l’occorrente, soprattutto
se ben mescolato, per prendere una sbornia solenne.
Stetti bene
attento a bagnarmi appena le labbra, a mostrarmi molto meno sobrio di quanto
non fossi, e a snocciolargli esattamente quel che lui voleva sentirsi dire.
Gli
raccontai di appartenere a una famiglia di contadini e che ero insoddisfatto
del tipo di vita che conducevo, naturalmente stando ben attento a non
rivelargli la mia intenzione di arruolarmi ben prima di incontrarlo.
Mi sentivo
euforico: non c’è nulla di più esilarante che imbrogliare un furbo di tre cotte.
Mi chiese
se avevo legami sentimentali o c’erano malattie nella mia famiglia.
Risposi
negativamente.
A questo
punto l’arruolatore mi fece una domanda che mi sorprese.
“E dimmi”,
mi chiese, “per caso soffri di vertigini?”
Vertigini,
io? Durante la stagione della mietitura ero sempre il più pronto e il più
svelto ad arrampicarmi in cima ai pali che dovevano diventare “l’anima” dei
pagliai. Risposi di no, ache se non capivo il senso della domanda.
La cosa
parve compiacerlo molto.
“Credo tu
sia perfetto”, disse, “per il reggimento dei dragoni”.
“Dragoni?”,
pensai. Meglio, decisamente meglio far parte delle truppe montate che dei
fantaccini costretti a lunghe marce con pesanti zaini. Non riuscivo a credere
alla sfacciataggine della mia fortuna.
Estrasse dalla
borsa da scrivano un plico di fogli coperti di timbri multicolori e vergati con
una grafia minuta di difficile lettura.
“Ecco”,
disse, “firma qui e qui”.
Firmai
senza esitare.
Il giorno
dopo fu una giornata di spostamenti. Mi ritrovai insieme ad altri arruolati
indirizzato a un centro di raccolta, poi da questo a uno più grande e da questo
infine alla caserma dei dragoni. Nell’ultimo spostamento eravamo una dozzina di
giovani che camminavano in fila indiana (nessuno pretendeva che sapessimo già
andare al passo militare). Ci aveva presi in consegna un anziano sergente
scortato da due guardie in divisa e armate.
“Non fateci
troppo caso”, ci disse con fare gioviale. “Sapete, ci sono certuni che si
mostrano riluttanti, subito dopo arruolati vorrebbero rimangiarsi la parola
data, ma naturalmente non è il vostro caso. I dragoni sono un corpo di élite, e
chi è riluttante fin dall’inizio di certo non ci arriva. Vedrete, sarete fieri
di farne parte”.
Arrivammo
alla caserma verso l’imbrunire. Era un edificio molto grande, o piuttosto una
serie di edifici. Ci ritrovammo a percorrere dei lunghi corridoi verso
l’economato dove saremmo stati iscritti nel libro paga e avremmo ricevuto
l’equipaggiamento.
Passammo
davanti all’armeria. Su di una rastrelliera, disposte in file orizzontali
sovrapposte – non si sarebbero potute mettere verticalmente, erano più alte del
soffitto – vidi delle lunghe armi che il sergente che ci faceva da guida chiamò
semplicemente “picche”. Io le guardai perplesso: avevano delle lame di forma lunata
e più che altro mi parvero somigliare a delle falci fienaie dal manico molto
lungo.
Le osservai
stupito e mi chiesi come si potevano maneggiare con efficacia armi del genere
se non ci si trovava in una posizione sopraelevata di qualche metro rispetto al
nemico.
Ci diedero
l'equipaggiamento. L'uniforme comprendeva una sopravveste colorata molto
decorativa con l'insegna del drago di colore rosso molto bene in vista sul
petto, e un elmo col cimiero a forma di drago, ma quelli – ci disse il sergente
– li avremmo messi soltanto per le parate. L'uniforme da fatica che avremmo
usato tutti i giorni era molto meno sgargiante: un giubbotto di cuoio brunito,
calzoni muniti di gambali che proteggevano l'interno delle cosce, stivali alti
fin sotto il ginocchio, e un casco di cuoio che avremmo indossato normalmente
invece dell'elmo da parata.
C'erano
degli anelli metallici sia sulla cintola del giubbotto sia sui gambali. Chiesi
al sergente a cosa servissero.
“Oh
quelli?”, rispose, “Sono per fissarti all'imbragatura”.
Non osai
chiedere altro.
A sera, a
cena gustammo il primo rancio militare della nostra vita. Beh, era meglio e più
abbondante della maggior parte dei pasti che avevo fatto fin allora in vita
mia.
Alla
ritirata andai a distendermi sulla branda che mi era stata assegnata: era più
comoda dei pagliericci cui ero abituato. Vitto, alloggio, vestiario a carico
dello stato, più uno stipendio. Ero proprio soddisfatto.
La sveglia
arrivò l'indomani mattina al termine di una notte in cui avevo dormito
profondamente e serenamente. Anche questo non era poi un gran sacrificio;
spesso per i lavori dei campi mi toccava alzarmi all'alba.
Dopo una
rapida colazione e l'adunata, il sergente che era l'istruttore delle reclute
radunò noi novellini e ci disse:
“Ragazzi,
andiamo nelle scuderie. Vi faccio conoscere gli animali che vi sono stati
assegnati. L'importante è creare da subito un buon rapporto fra l'uomo e la sua
cavalcatura”.
La prima
cosa che mi colpì quando entrammo nel grande edificio adibito a scuderia, fu
l'odore, non somigliava per nulla a quello delle stalle che mi erano familiari,
pareva piuttosto quello che può ristagnare in un rettilario.
Il locale
era suddiviso in varie celle, e ciascuno di noi fu indirizzato a una di esse, a
prendere confidenza con la propria bestia.
Quella che
da allora in avanti sarebbe stata la mia cavalcatura si girò verso di me,
allargò le ali cuoiose e puntò nella mia direzione la testa in cima al lungo
collo serpentino.
Come al solito, racconto avvincente e ben scritto. Ringrazio Fabio della assidua e valida collaborazione.
RispondiEliminaChe pauroso esercito di Dragoni !!!
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