Era sera, una tiepida sera
estiva, una lieve brezza spirava dal mare sfiorando delicatamente le cime degli
alberi. Dalla finestra di un villino a due piani che sorgeva non lontano dalle
acque del Potomac che scorrevano nere e tranquille nell’oscurità incombente, un
uomo guardava il cielo con apprensione. L’uomo non portava nessuna divisa, ma
era uno dei principali responsabili dei servizi di sicurezza del Corpo Spaziale
degli Stati Uniti d’America. Il villino sembrava una delle tante abitazioni di
benestanti che affollavano le colline intorno a Washington, ma era il quartier
generale dell’operazione Skymaster.
L’uomo fissava lo sguardo in direzione del cielo senza nuvole dove splendevano le stelle, fissava un dischetto brillante, simile ad una piccola luna piena o ad una stella troppo grande o troppo vicina che fosse scesa quasi a lambire le acque là dove il fiume incontrava i flutti salmastri dell’oceano.
Quella strana stella era stata realizzata dall’uomo, era lo Skymaster, ed era la chiave di volta della pace e della politica mondiale.
"Ancora una settimana", pensò il generale Henry Bolton. "Che tutto vada bene ancora per una settimana!"
Si ritrasse dalla finestra e richiuse le imposte.
"Stai calmo, Henry", disse il generale Sam Perini. "Ti vedo nervoso. Rilassati, sta andando tutto a meraviglia".
"La fai facile tu", rispose Bolton. "Per noi è essenziale che allo Skymaster non succeda nulla, e per i sovietici sarebbe un grosso colpo riuscire a distruggerlo".
"Un grosso colpo? Ci lascerebbero in mutande", osservò Perini in tono ilare. "Lo Skymaster è tutte le nostre difese, ma non può accadere nulla e non succederà nulla, le nostre precauzioni sono perfette".
"Vorrei esserne sicuro al mille per mille", rispose Bolton. "Ti dispiace se riesaminiamo ancora una volta tutto quanto?"
"Ok, per me va bene, se può servire a farti stare tranquillo".
Skymaster, un nome ambizioso, ma lo Skymaster era veramente il padrone del cielo. Negli ultimi decenni del XX secolo le nazioni industrializzate della Terra si erano trovate ad affrontare un periodo di crisi. Le risorse energetiche del pianeta erano limitate, e dovevano essere razionate nella difficile era della transizione fra l’epoca dei combustibili fossili e quella della fusione nucleare e dello sfruttamento su larga scala dell’energia solare; intanto il confronto fra le superpotenze continuava a risucchiare quantità sempre più considerevoli di risorse nel pozzo senza fondo dell’escalation militare. L’Unione Sovietica e i paesi dell’Est avevano accettato una sempre più drastica riduzione del tenore di vita delle loro popolazioni, pur di non perdere terreno nel braccio di ferro con l’Occidente, ma per gli Stati Uniti e l’Europa occidentale una simile soluzione, che poteva essere solo imposta con la forza, non poteva semplicemente funzionare.
Gli stati occidentali avevano deciso di dare un taglio di risorse all’emorragia rappresentata dalla crescente escalation nucleare, rinunciando alla possibilità di sferrare il primo colpo, ma garantendosi contemporaneamente da un attacco dall’Est: la risposta era stata lo Skymaster, una poderosa stazione spaziale orbitante molte miglia al disopra della superficie terrestre, in grado di intercettare e distruggere in poche decine di secondi qualunque missile lanciato da un qualsiasi punto del globo, ed a scatenare la più terrificante delle rappresaglie con i suoi missili puntati sulle principali città dell’Unione Sovietica e dell’Est europeo.
L’uomo fissava lo sguardo in direzione del cielo senza nuvole dove splendevano le stelle, fissava un dischetto brillante, simile ad una piccola luna piena o ad una stella troppo grande o troppo vicina che fosse scesa quasi a lambire le acque là dove il fiume incontrava i flutti salmastri dell’oceano.
Quella strana stella era stata realizzata dall’uomo, era lo Skymaster, ed era la chiave di volta della pace e della politica mondiale.
"Ancora una settimana", pensò il generale Henry Bolton. "Che tutto vada bene ancora per una settimana!"
Si ritrasse dalla finestra e richiuse le imposte.
"Stai calmo, Henry", disse il generale Sam Perini. "Ti vedo nervoso. Rilassati, sta andando tutto a meraviglia".
"La fai facile tu", rispose Bolton. "Per noi è essenziale che allo Skymaster non succeda nulla, e per i sovietici sarebbe un grosso colpo riuscire a distruggerlo".
"Un grosso colpo? Ci lascerebbero in mutande", osservò Perini in tono ilare. "Lo Skymaster è tutte le nostre difese, ma non può accadere nulla e non succederà nulla, le nostre precauzioni sono perfette".
"Vorrei esserne sicuro al mille per mille", rispose Bolton. "Ti dispiace se riesaminiamo ancora una volta tutto quanto?"
"Ok, per me va bene, se può servire a farti stare tranquillo".
Skymaster, un nome ambizioso, ma lo Skymaster era veramente il padrone del cielo. Negli ultimi decenni del XX secolo le nazioni industrializzate della Terra si erano trovate ad affrontare un periodo di crisi. Le risorse energetiche del pianeta erano limitate, e dovevano essere razionate nella difficile era della transizione fra l’epoca dei combustibili fossili e quella della fusione nucleare e dello sfruttamento su larga scala dell’energia solare; intanto il confronto fra le superpotenze continuava a risucchiare quantità sempre più considerevoli di risorse nel pozzo senza fondo dell’escalation militare. L’Unione Sovietica e i paesi dell’Est avevano accettato una sempre più drastica riduzione del tenore di vita delle loro popolazioni, pur di non perdere terreno nel braccio di ferro con l’Occidente, ma per gli Stati Uniti e l’Europa occidentale una simile soluzione, che poteva essere solo imposta con la forza, non poteva semplicemente funzionare.
Gli stati occidentali avevano deciso di dare un taglio di risorse all’emorragia rappresentata dalla crescente escalation nucleare, rinunciando alla possibilità di sferrare il primo colpo, ma garantendosi contemporaneamente da un attacco dall’Est: la risposta era stata lo Skymaster, una poderosa stazione spaziale orbitante molte miglia al disopra della superficie terrestre, in grado di intercettare e distruggere in poche decine di secondi qualunque missile lanciato da un qualsiasi punto del globo, ed a scatenare la più terrificante delle rappresaglie con i suoi missili puntati sulle principali città dell’Unione Sovietica e dell’Est europeo.
* * *
Lo Skymaster aveva per la propria difesa un vasto
parco di missili tattici, mine orbitali, cannoni laser, armi antimissile ed
antisatellite, e un generatore di potenti campi magnetici in grado di
disperdere I flussi delle armi a particelle.
Lo Skymaster era inviolabile ad un attacco diretto, ma aveva un tallone d’Achille: ogni due anni la stazione era posta in un’orbita bassa, geostazionaria, per una ventina di giorni, per essere sottoposta ai controlli e alle revisioni che l’usura dei materiali rendeva necessari, e proprio in quel momento, da una dozzina di giorni, orbitava, simile ad una piccola luna, sopra le acque dell’oceano Atlantico.
Sam Perini premette alcuni tasti sulla consolle del computer. Sullo schermo apparve un modello dello Skymaster che non era poi molto diverso dall’immagine che si sarebbe potuta vedere in quel momento dalla Terra con un telescopio abbastanza potente: l’immagine era di forma sferica e ruotava lentamente su se stessa per mostrare l’intera struttura. Due vistose protuberanze ai poli alloggiavano gli impianti radar, mentre lungo l’equatore era visibile una serie di depressioni a struttura ovoidale, dove si trovavano i pontili di attracco e le camere stagne che permettevano alle shuttle ed ai loro equipaggi di accedere all’interno della stazione. I tubi di lancio dei missili ed i cannoni laser che armavano il satellite erano nascosti dalle scudature termiche che lo proteggevano dal contatto con gli strati più alti dell’atmosfera.
A lato dell’immagine scorreva sul video una serie di dati: altezza, velocità orbitale, velocità di rotazione, eccetera.
"Anche adesso", disse Perini, "lo Skymaster è perfettamente operativo e non è vulnerabile ad un attacco diretto. Se i nostri amici dell’Est decidessero di attaccare adesso, l’unica differenza è che, dato che lo Skymaster si trova in un’orbita bassa e geostazionaria, passerebbe qualche minuto prima di intercettare tutti i missili, forse un paio di essi riuscirebbero a passare prima che il nostro bravo soldatino riduca tutte le città più importanti da Varsavia a Vladivostok in crateri radioattivi e deserti quanto la luna. Il gioco non vale la candela, noi lo sappiamo e lo sanno anche loro. Non è verosimile che scelgano questa via, è piuttosto il sabotaggio da cui dobbiamo stare in guardia. Il punto è questo: io mi sono sforzato di pensare proprio come farebbero quei signori del blocco comunista. Come fai a sabotare qualcosa che ti passa a migliaia di metri sopra la testa, che è completamente automatizzato e che ti spara addosso una gragnola di missili e di fasci di radiazioni laser se ti avvicini? L’unico anello debole della catena sono proprio le shuttle che ogni giorno in questi giorni, una sola volta nella giornata, portano allo Skymaster gli uomini addetti ai controlli e alle riparazioni. Se io fossi al posto dei sovietici, tenterei proprio di impadronirmi di una shuttle".
"Fai finta che io non sappia nulla di nulla", disse Bolton. "Spiegami cosa succederebbe in questo caso, è il modo migliore per scoprire se nelle nostre difese ci sono punti deboli".
"Bene", rispose Perini. "Tralasciamo allora il fatto che penetrare con la forza in una delle nostre basi non è certo una cosa agevole, e che un velivolo che non provenisse da una di esse sarebbe subito identificato dallo Skymaster come nemico e quindi distrutto, immaginiamo per ipotesi che agenti nemici siano a bordo di una nostra shuttle. Ho istituito un sistema di controllo che è una specie di variante un tantino più raffinata tecnicamente del vecchio sistema ‘alto là, parola d’ordine!’. Quando la shuttle si avvicina a distanza di sicurezza, lo Skymaster emette un segnale radio a cui la shuttle deve rispondere entro trenta secondi, se non lo fa o da la risposta sbagliata, la navetta viene distrutta. La comunicazione avviene a modulazione di frequenza e a bassa potenza. Il segnale non può quindi essere intercettato né dalla Terra né da altri satelliti orbitali. Inoltre la "domanda" e la "risposta" sono variate ogni giorno secondo un codice preciso. Il codice di risposta non è inserito nel computer di bordo della shuttle, il computer può soltanto modulare la scansione del codice di risposta sulla base delle istruzioni ricevute dal capo missione, dopo aver ricevuto l’"altolà" dello Skymaster. Solo il comandante di ciascuna singola missione conosce il codice di risposta, diverso per ognuno".
"Fammi capire una cosa", disse Bolton. "Se il nemico potesse impadronirsi di una shuttle e se potesse intercettare i segnali per un periodo di tempo abbastanza lungo, diciamo dieci o quindici giorni, potrebbe decifrare il codice matematico che regola l’intera sequenza, e sarebbe così in grado di dare la risposta appropriata al momento giusto; in questo caso, cosa succederebbe?"
"In questo caso, potrebbe penetrare nello Skymaster, potrebbe decidere di distruggerlo oppure di puntare i nostri missili contro di noi. In ogni caso, la libertà degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale sarebbe finita, avremmo perso prima ancora di cominciare la partita, saremmo senza difese contro l’arsenale nucleare sovietico; ma sta tranquillo, se anche potessero impadronirsi di una shuttle e riuscissero ad intercettare i segnali, non sarebbero mai in grado di decifrare il nostro codice".
"Non vedo perché", disse Bolton, "dispongono di computer buoni quanto i nostri e di programmatori abili quanto i nostri".
Perini ebbe un sorriso furbesco, quella sua faccia da italiano incorniciata dai capelli neri e lisci, con quei suoi lineamenti angolosi, in quel momento era proprio tale e quale a certe vecchie illustrazioni della volpe del Pinocchio di Collodi.
"Diciamo che ho preferito prendere un’ulteriore piccola precauzione, una specie di trappola mentale".
"Non potresti essere più preciso?"
"Preferisco di no. A ogni modo, fatti animo, che gli orientali riescano ad impadronirsi di una shuttle od anche solo ad intercettare i segnali tra lo Skymaster e le shuttle, sono eventualità talmente remote che non vale la pena di prenderle in considerazione".
"Vorrei esserne sicuro, Sam", disse Bolton. "Questa mattina ho parlato con Washington, e là stanno con il fiato sospeso. I nostri rapporti con i sovietici sono molto più tesi di due anni fa, e in confronto ad adesso, quattro anni fa erano addirittura idilliaci. Sono ridotti male, e sono proprio nelle condizioni di tentare un colpo di testa, hanno sbagliato strada e lo sanno, In Unione Sovietica non sono mai esistite una ricerca scientifica ed una sperimentazione tecnologica che non fossero immediatamente subordinate all’applicazione militare, e questo in passato ha conferito loro un certo vantaggio nei tempi brevi, ma la stressa potenza militare dipende dallo sviluppo tecnologico globale di una società. Sono rimasti indietro in molti rami dell’elettronica e nello sfruttamento delle energie rinnovabili, noi abbiamo Skymaster e loro no, non possono fare altro che ammucchiare testate nei loro silos ed invitare i milioni di Ivan a stringere ogni volta un poco di più la cinghia, sono disperati, e i disperati sono pericolosi".
Se i due ufficiali avessero potuto vedere il piccolo oggetto che ruotava nel cielo alcune miglia esattamente al di sopra del polo nord dello Skymaster, Perini sarebbe rimasto scosso nel suo ottimismo, e Bolton avrebbe trovato le sue apprensioni cupamente confermate.
Tchkort teneva bene fede al suo nome, era davvero un piccolo demonio maligno che già da alcuni mesi si muoveva incollato tenacemente all’orbita dello Skymaster, era un piccolo gioiello di miniaturizzazione, quanto di meglio la tecnologia sovietica potesse realizzare. Tchkort era poco più grande di un pallone da football; i sovietici l’avevano messo in orbita alcuni mesi prima assieme ad un satellite meteorologico che ne costituiva la copertura. Il suo solo compito, che stava eseguendo fedelmente, era quello di attaccarsi a Skymaster come una remora ed intercettarne le comunicazioni radio. Le sue dimensioni rendevano praticamente impossibile l’intercettazione radar, ma anche se fosse stato individuato, l’avrebbero preso per un meteorite, un frammento di asteroide, un rottame di uno dei tanti satelliti artificiali che da quarant’anni venivano scagliati nel cielo, un pezzetto della spazzatura celeste.
La casa era molto meno elegante e molto meno pretenziosa del villino a due piani sulla riva del Potomac, era una fattoria isolata e dall’aria un po’ malconcia che si trovava né troppo lontano né troppo vicino alla base spaziale militare di Mount Vermont da cui partivano le navette che andavano a rifornire il gigante librato nel cielo, ma aveva almeno due cose in comune con la palazzina di Washington: la consolle di un computer ed un apparecchio per comunicazioni radio dotato di sofisticate schermature anti – intercettazione. Aveva ancora un’altra cosa in comune, i suoi abitanti svolgevano una professione molto diversa da quella che credevano i vicini.
Il colonnello Botvinnik era di umore particolarmente allegro quella mattina. Botvinnik era un uomo nato con un talento matematico, ma sapeva bene che nel suo Paese l’insegnamento e la ricerca pura offrivano ben poche possibilità di carriera. Era entrato nel KGB dove aveva messo la sua abilità a frutto nella decrittazione di codici e cifrari, ma non gli dispiaceva ogni tanto nemmeno un po’ di azione diretta, in realtà la sua lealtà sovietica era soprattutto una questione di convenienza; si era divertito moltissimo nei mesi di addestramento in cui a lui e ai suoi uomini era stato insegnato a parlare, a vestire, a muoversi, a mangiare come americani, gli piaceva vivere negli Stati Uniti e non sentiva alcuna nostalgia per i girasoli dell’Ucraina o per la neve e gli squallidi sobborghi di Mosca. Sperava che in futuro gli dessero altre missioni negli USA, ma se questa andava bene, sarebbe stato facile ottenerne.
"Il nostro Tchkort, il nostro piccolo diavolo sta lavorando a meraviglia", disse allegro al suo secondo, il maggiore Arbatov, "Vuoi sentire la voce di Skymaster?"
Armeggiò con la consolle del computer e ne uscì una serie di bip che sembravano dotati di una struttura armonica, come un motivo musicale.
"Questa", disse, "naturalmente questa è la traduzione sonora degli impulsi radio. Questo è il segnale che Skymaster ha emesso il primo giorno: un bip di quindici secondi, una pausa di cinque secondi, un bip di cinque secondi, un’altra pausa di cinque, un bip di dieci; il secondo giorno un segnale di quindici secondi, una pausa di quindici, un bip di dieci. Il terzo giorno la sequenza è stata dieci, cinque, dieci, cinque, dieci; il quarto giorno dieci, cinque, cinque, dieci, dieci; il quinto dieci, dieci, cinque, cinque, dieci. Dal sesto giorno in poi, i segnali si ripetono nello stesso ordine. Questa è la sfinge che pone le domande, dopo vediamo le risposte di Edipo. Cosa pensi che significhi?"
"Mah…numeri in codice binario, direi".
"Esatto, è abbastanza ovvio, non può essere altro. Se noi consideriamo che un bip di cinque secondi valga uno ed una pausa di cinque secondi valga zero e togliamo dieci secondi di bip all’inizio e alla fine di ogni segnale, considerando che valgono come "inizio messaggio" e "fine messaggio", la nostra sfinge ha chiesto ad Edipo "dieci" il primo giorno, "otto" il secondo, "sei" il terzo, "quattro" il quarto, "due" il quinto giorno, poi di nuovo "dieci" il sesto giorno e così via".
Il maggiore Arbatov guardò il suo superiore con aria speranzosa.
"Allora dovrebbe essere piuttosto facile", disse.
"Beh no, gli yankee sono dei tontoloni ma non fino a questo punto, le risposte degli shuttle non seguono affatto la stessa periodicità".
Premette un’altra serie di tasti sulla consolle, ed il computer emise un’altra sequenza di bip.
"Il primo giorno lo shuttle ha risposto dieci – dieci – venti, insomma per farla breve, tre, il secondo cinque, il terzo giorno ancora tre, il quarto giorno quattro, il quinto tre, il sesto giorno di nuovo tre ma a questo punto la sequenza delle domande è ricominciata daccapo, il settimo giorno la risposta è quattro, poi tre, poi ancora sei. Dal decimo al quindicesimo giorno di operazioni, qualunque sia la domanda dello Skymaster, la risposta è sempre quattro, tranne al tredicesimo che è cinque. Al sedicesimo giorno, cioè l’altro ieri, le cose cambiano ancora, e le risposte della shuttle sono cinque e ieri quattro. Cosa te ne pare?”
Arbatov era perplesso.
"Francamente non lo so", disse. "Mi sembra quasi che i comandanti delle shuttle giochino a carte o a morra con il computer dello Skymaster".
Il colonnello Botvinnik sorrise.
"Potrebbe essere un’ipotesi buona come qualsiasi altra, se non fosse per il fatto che allora l’abbinamento delle due serie di numeri sarebbe del tutto casuale. Ho passato più volte la sequenza al computer senza ottenere grandi risultati: si tratta con tutta probabilità di una funzione complessa, come ad esempio una tabella di distribuzione dei numeri primi, allora ho provato ad affrontare le cose in maniera diversa. Gli Yankee sono intelligenti, ma hanno il torto di fidarsi più degli uomini che delle macchine".
"E questo è sbagliato?", chiese Arbatov.
“Certo che lo è. Gli uomini si ingannano, si stancano, sono confusi, si distraggono, sono corruttibili e ricattabili, esitano, hanno stupidi moralismi; le macchine no.Da quello che sappiamo, il computer delle shuttle è programmato per modulare il numero voluto in modo tale che il segnale abbia quella lunghezza esatta di secondi che permette allo Skymaster di riconoscerlo e di individuare la navicella come apparecchio amico, ma non conosce il numero della risposta, quello lo sa solo il comandante della shuttle. Bene, non si può pretendere che tutti i comandanti delle navette siano dei matematici, quindi il nostro codice può essere una funzione complessa, ma deve essere stata scelta in modo da essere scomponibile in una serie di sottofunzioni semplici, addirittura banali. Guarda bene, fino a sei giorni fa, le shuttle hanno risposto quattro per quattro volte consecutive e lo Skymaster ha accettato la risposta. L’altro ieri lo Skymaster ha chiamato dieci e la shuttle ha risposto cinque, ieri otto e quattro. Tra un’ora circa c’è il prossimo rendez vous e lo Skymaster chiamerà sei. Stiamo a sentire quello che ci dirà il nostro caro piccolo Tchkort, e se la shuttle risponderà tre, vuol dire che domani le battute del dialogo saranno quattro e due, solo che questa volta a bordo della shuttle ci sarete tu e i tuoi ragazzi. Quando lo Skymaster vi avrà fatti passare, basterà regolare anche solo una testata nucleare sull’autodistruzione, poi ve la filerete tranquilli con la shuttle in direzione Bajkonur, mentre lo Skymaster diventerà il più bel fuoco d’artificio che si sia mai visto, lasceremo gli Stati Uniti con le mutande abbassate, verranno da noi a piangere perché non gli bombardiamo la loro amata capitale o quelle dei loro alleati da quattro soldi".
Arbatov era perplesso.
"Certamente, compagno colonnello, ma scusami se azzardo un’osservazione, la parte del tuo piano che concerne la cattura della shuttle mi sembra si fidi un po’ troppo della fortuna".
Botvinnik rise.
"Non fortuna, mio caro: psicologia, calcolo, tempismo. Sai perché ho deciso di agire proprio domani che è il penultimo giorno di permanenza dello Skymaster in un’orbita bassa, geostazionaria? Per avere più tempo di studiare lo scambio di segnali fra lo Skymaster e le navette, certo, evitando proprio l’ultimo giorno, altrimenti qualche intoppo imprevisto potrebbe mandarci fuori tempo massimo, ma anche per un’altra ragione. Gli Yankee sanno bene quanto lo Skymaster sia importante per loro, i primi giorni saranno stati tesi e all’erta, poi poco per volta si saranno rilassati, l’operazione diventa routine, ma dopodomani sarebbero di nuovo all’erta come grilli, non avrebbero nessuna voglia di bruciare tutto proprio all’ultimo, quando tutto è andato bene, hanno macchine potenti come lo Skymaster, ma non si rendono conto di quanto è facile giocare sulle debolezze umane dei deboli uomini che le controllano. Un cavallo di Troia per entrare nel cavallo di Troia, domattina tu ed i tuoi ragazzi vi impadronirete del pulmino che porta l’equipaggio della shuttle da Mount Vermont alla zona di lancio. C’è un controllo elettronico all’accesso all’area di lancio, ma quello che il computer controlla sono solo i tesserini plastificati, che saranno quelli buoni che avrete tolto al vero equipaggio della shuttle, chi dovrebbe controllare la rispondenza delle vostre facce con quelle delle foto stampate sui tesserini, sono i soldati di guardia. Voi avrete i lineamenti alterati con la paraffina ed a controllarvi, alle sei del mattino, saranno dei ragazzi annoiati e assonnati. Se state calmi, gliela farete elegantemente sotto il naso. Te l’ho detto, gli Yankee si fidano troppo degli uomini".
Cinquanta minuti più tardi, Botvinnik, Arbatov e i cinque ragazzi che componevano il resto della sua squadra erano in attesa dei segnali provenienti da Tchkort.
L’altolà dello Skymaster era, come previsto, un sei. Seguì il segnale della shuttle: un bip di dieci secondi seguito da quello di venti, non c’era neppure bisogno della traduzione del computer, era un tre chiarissimo, di solare evidenza.
"E’ fatta, ragazzi", disse Botvinnik, "Domani siamo in azione".
"Roger!", gridò uno dei ragazzi della squadra, "Roger!"
Arbatov gli diede un’occhiataccia: "Tu sei rimasto troppo a lungo negli Stati Uniti!"
Botvinnik aveva tolto da uno stipetto una bottiglia di liquore e sette bicchierini e li stava passando in giro, era raggiante.
"Ragazzi", disse, "domani il sogno americano si trasformerà in un brutto risveglio. Coraggio, un bel brindisi! E’ bourbon wisky, ho l’impressione che fra non molto non ce ne sarà tanta di questa roba in giro, anche qui si troverà solo wodka.
"Ehi, non viene con noi, capo?", domandò uno degli uomini.
"Purtroppo no, ragazzo mio, ho un po’ di roba da distruggere qui, poi ci penserà la nostra ambasciata a farmi rimpatriare per via diplomatica".
Lo Skymaster era inviolabile ad un attacco diretto, ma aveva un tallone d’Achille: ogni due anni la stazione era posta in un’orbita bassa, geostazionaria, per una ventina di giorni, per essere sottoposta ai controlli e alle revisioni che l’usura dei materiali rendeva necessari, e proprio in quel momento, da una dozzina di giorni, orbitava, simile ad una piccola luna, sopra le acque dell’oceano Atlantico.
Sam Perini premette alcuni tasti sulla consolle del computer. Sullo schermo apparve un modello dello Skymaster che non era poi molto diverso dall’immagine che si sarebbe potuta vedere in quel momento dalla Terra con un telescopio abbastanza potente: l’immagine era di forma sferica e ruotava lentamente su se stessa per mostrare l’intera struttura. Due vistose protuberanze ai poli alloggiavano gli impianti radar, mentre lungo l’equatore era visibile una serie di depressioni a struttura ovoidale, dove si trovavano i pontili di attracco e le camere stagne che permettevano alle shuttle ed ai loro equipaggi di accedere all’interno della stazione. I tubi di lancio dei missili ed i cannoni laser che armavano il satellite erano nascosti dalle scudature termiche che lo proteggevano dal contatto con gli strati più alti dell’atmosfera.
A lato dell’immagine scorreva sul video una serie di dati: altezza, velocità orbitale, velocità di rotazione, eccetera.
"Anche adesso", disse Perini, "lo Skymaster è perfettamente operativo e non è vulnerabile ad un attacco diretto. Se i nostri amici dell’Est decidessero di attaccare adesso, l’unica differenza è che, dato che lo Skymaster si trova in un’orbita bassa e geostazionaria, passerebbe qualche minuto prima di intercettare tutti i missili, forse un paio di essi riuscirebbero a passare prima che il nostro bravo soldatino riduca tutte le città più importanti da Varsavia a Vladivostok in crateri radioattivi e deserti quanto la luna. Il gioco non vale la candela, noi lo sappiamo e lo sanno anche loro. Non è verosimile che scelgano questa via, è piuttosto il sabotaggio da cui dobbiamo stare in guardia. Il punto è questo: io mi sono sforzato di pensare proprio come farebbero quei signori del blocco comunista. Come fai a sabotare qualcosa che ti passa a migliaia di metri sopra la testa, che è completamente automatizzato e che ti spara addosso una gragnola di missili e di fasci di radiazioni laser se ti avvicini? L’unico anello debole della catena sono proprio le shuttle che ogni giorno in questi giorni, una sola volta nella giornata, portano allo Skymaster gli uomini addetti ai controlli e alle riparazioni. Se io fossi al posto dei sovietici, tenterei proprio di impadronirmi di una shuttle".
"Fai finta che io non sappia nulla di nulla", disse Bolton. "Spiegami cosa succederebbe in questo caso, è il modo migliore per scoprire se nelle nostre difese ci sono punti deboli".
"Bene", rispose Perini. "Tralasciamo allora il fatto che penetrare con la forza in una delle nostre basi non è certo una cosa agevole, e che un velivolo che non provenisse da una di esse sarebbe subito identificato dallo Skymaster come nemico e quindi distrutto, immaginiamo per ipotesi che agenti nemici siano a bordo di una nostra shuttle. Ho istituito un sistema di controllo che è una specie di variante un tantino più raffinata tecnicamente del vecchio sistema ‘alto là, parola d’ordine!’. Quando la shuttle si avvicina a distanza di sicurezza, lo Skymaster emette un segnale radio a cui la shuttle deve rispondere entro trenta secondi, se non lo fa o da la risposta sbagliata, la navetta viene distrutta. La comunicazione avviene a modulazione di frequenza e a bassa potenza. Il segnale non può quindi essere intercettato né dalla Terra né da altri satelliti orbitali. Inoltre la "domanda" e la "risposta" sono variate ogni giorno secondo un codice preciso. Il codice di risposta non è inserito nel computer di bordo della shuttle, il computer può soltanto modulare la scansione del codice di risposta sulla base delle istruzioni ricevute dal capo missione, dopo aver ricevuto l’"altolà" dello Skymaster. Solo il comandante di ciascuna singola missione conosce il codice di risposta, diverso per ognuno".
"Fammi capire una cosa", disse Bolton. "Se il nemico potesse impadronirsi di una shuttle e se potesse intercettare i segnali per un periodo di tempo abbastanza lungo, diciamo dieci o quindici giorni, potrebbe decifrare il codice matematico che regola l’intera sequenza, e sarebbe così in grado di dare la risposta appropriata al momento giusto; in questo caso, cosa succederebbe?"
"In questo caso, potrebbe penetrare nello Skymaster, potrebbe decidere di distruggerlo oppure di puntare i nostri missili contro di noi. In ogni caso, la libertà degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale sarebbe finita, avremmo perso prima ancora di cominciare la partita, saremmo senza difese contro l’arsenale nucleare sovietico; ma sta tranquillo, se anche potessero impadronirsi di una shuttle e riuscissero ad intercettare i segnali, non sarebbero mai in grado di decifrare il nostro codice".
"Non vedo perché", disse Bolton, "dispongono di computer buoni quanto i nostri e di programmatori abili quanto i nostri".
Perini ebbe un sorriso furbesco, quella sua faccia da italiano incorniciata dai capelli neri e lisci, con quei suoi lineamenti angolosi, in quel momento era proprio tale e quale a certe vecchie illustrazioni della volpe del Pinocchio di Collodi.
"Diciamo che ho preferito prendere un’ulteriore piccola precauzione, una specie di trappola mentale".
"Non potresti essere più preciso?"
"Preferisco di no. A ogni modo, fatti animo, che gli orientali riescano ad impadronirsi di una shuttle od anche solo ad intercettare i segnali tra lo Skymaster e le shuttle, sono eventualità talmente remote che non vale la pena di prenderle in considerazione".
"Vorrei esserne sicuro, Sam", disse Bolton. "Questa mattina ho parlato con Washington, e là stanno con il fiato sospeso. I nostri rapporti con i sovietici sono molto più tesi di due anni fa, e in confronto ad adesso, quattro anni fa erano addirittura idilliaci. Sono ridotti male, e sono proprio nelle condizioni di tentare un colpo di testa, hanno sbagliato strada e lo sanno, In Unione Sovietica non sono mai esistite una ricerca scientifica ed una sperimentazione tecnologica che non fossero immediatamente subordinate all’applicazione militare, e questo in passato ha conferito loro un certo vantaggio nei tempi brevi, ma la stressa potenza militare dipende dallo sviluppo tecnologico globale di una società. Sono rimasti indietro in molti rami dell’elettronica e nello sfruttamento delle energie rinnovabili, noi abbiamo Skymaster e loro no, non possono fare altro che ammucchiare testate nei loro silos ed invitare i milioni di Ivan a stringere ogni volta un poco di più la cinghia, sono disperati, e i disperati sono pericolosi".
Se i due ufficiali avessero potuto vedere il piccolo oggetto che ruotava nel cielo alcune miglia esattamente al di sopra del polo nord dello Skymaster, Perini sarebbe rimasto scosso nel suo ottimismo, e Bolton avrebbe trovato le sue apprensioni cupamente confermate.
Tchkort teneva bene fede al suo nome, era davvero un piccolo demonio maligno che già da alcuni mesi si muoveva incollato tenacemente all’orbita dello Skymaster, era un piccolo gioiello di miniaturizzazione, quanto di meglio la tecnologia sovietica potesse realizzare. Tchkort era poco più grande di un pallone da football; i sovietici l’avevano messo in orbita alcuni mesi prima assieme ad un satellite meteorologico che ne costituiva la copertura. Il suo solo compito, che stava eseguendo fedelmente, era quello di attaccarsi a Skymaster come una remora ed intercettarne le comunicazioni radio. Le sue dimensioni rendevano praticamente impossibile l’intercettazione radar, ma anche se fosse stato individuato, l’avrebbero preso per un meteorite, un frammento di asteroide, un rottame di uno dei tanti satelliti artificiali che da quarant’anni venivano scagliati nel cielo, un pezzetto della spazzatura celeste.
La casa era molto meno elegante e molto meno pretenziosa del villino a due piani sulla riva del Potomac, era una fattoria isolata e dall’aria un po’ malconcia che si trovava né troppo lontano né troppo vicino alla base spaziale militare di Mount Vermont da cui partivano le navette che andavano a rifornire il gigante librato nel cielo, ma aveva almeno due cose in comune con la palazzina di Washington: la consolle di un computer ed un apparecchio per comunicazioni radio dotato di sofisticate schermature anti – intercettazione. Aveva ancora un’altra cosa in comune, i suoi abitanti svolgevano una professione molto diversa da quella che credevano i vicini.
Il colonnello Botvinnik era di umore particolarmente allegro quella mattina. Botvinnik era un uomo nato con un talento matematico, ma sapeva bene che nel suo Paese l’insegnamento e la ricerca pura offrivano ben poche possibilità di carriera. Era entrato nel KGB dove aveva messo la sua abilità a frutto nella decrittazione di codici e cifrari, ma non gli dispiaceva ogni tanto nemmeno un po’ di azione diretta, in realtà la sua lealtà sovietica era soprattutto una questione di convenienza; si era divertito moltissimo nei mesi di addestramento in cui a lui e ai suoi uomini era stato insegnato a parlare, a vestire, a muoversi, a mangiare come americani, gli piaceva vivere negli Stati Uniti e non sentiva alcuna nostalgia per i girasoli dell’Ucraina o per la neve e gli squallidi sobborghi di Mosca. Sperava che in futuro gli dessero altre missioni negli USA, ma se questa andava bene, sarebbe stato facile ottenerne.
"Il nostro Tchkort, il nostro piccolo diavolo sta lavorando a meraviglia", disse allegro al suo secondo, il maggiore Arbatov, "Vuoi sentire la voce di Skymaster?"
Armeggiò con la consolle del computer e ne uscì una serie di bip che sembravano dotati di una struttura armonica, come un motivo musicale.
"Questa", disse, "naturalmente questa è la traduzione sonora degli impulsi radio. Questo è il segnale che Skymaster ha emesso il primo giorno: un bip di quindici secondi, una pausa di cinque secondi, un bip di cinque secondi, un’altra pausa di cinque, un bip di dieci; il secondo giorno un segnale di quindici secondi, una pausa di quindici, un bip di dieci. Il terzo giorno la sequenza è stata dieci, cinque, dieci, cinque, dieci; il quarto giorno dieci, cinque, cinque, dieci, dieci; il quinto dieci, dieci, cinque, cinque, dieci. Dal sesto giorno in poi, i segnali si ripetono nello stesso ordine. Questa è la sfinge che pone le domande, dopo vediamo le risposte di Edipo. Cosa pensi che significhi?"
"Mah…numeri in codice binario, direi".
"Esatto, è abbastanza ovvio, non può essere altro. Se noi consideriamo che un bip di cinque secondi valga uno ed una pausa di cinque secondi valga zero e togliamo dieci secondi di bip all’inizio e alla fine di ogni segnale, considerando che valgono come "inizio messaggio" e "fine messaggio", la nostra sfinge ha chiesto ad Edipo "dieci" il primo giorno, "otto" il secondo, "sei" il terzo, "quattro" il quarto, "due" il quinto giorno, poi di nuovo "dieci" il sesto giorno e così via".
Il maggiore Arbatov guardò il suo superiore con aria speranzosa.
"Allora dovrebbe essere piuttosto facile", disse.
"Beh no, gli yankee sono dei tontoloni ma non fino a questo punto, le risposte degli shuttle non seguono affatto la stessa periodicità".
Premette un’altra serie di tasti sulla consolle, ed il computer emise un’altra sequenza di bip.
"Il primo giorno lo shuttle ha risposto dieci – dieci – venti, insomma per farla breve, tre, il secondo cinque, il terzo giorno ancora tre, il quarto giorno quattro, il quinto tre, il sesto giorno di nuovo tre ma a questo punto la sequenza delle domande è ricominciata daccapo, il settimo giorno la risposta è quattro, poi tre, poi ancora sei. Dal decimo al quindicesimo giorno di operazioni, qualunque sia la domanda dello Skymaster, la risposta è sempre quattro, tranne al tredicesimo che è cinque. Al sedicesimo giorno, cioè l’altro ieri, le cose cambiano ancora, e le risposte della shuttle sono cinque e ieri quattro. Cosa te ne pare?”
Arbatov era perplesso.
"Francamente non lo so", disse. "Mi sembra quasi che i comandanti delle shuttle giochino a carte o a morra con il computer dello Skymaster".
Il colonnello Botvinnik sorrise.
"Potrebbe essere un’ipotesi buona come qualsiasi altra, se non fosse per il fatto che allora l’abbinamento delle due serie di numeri sarebbe del tutto casuale. Ho passato più volte la sequenza al computer senza ottenere grandi risultati: si tratta con tutta probabilità di una funzione complessa, come ad esempio una tabella di distribuzione dei numeri primi, allora ho provato ad affrontare le cose in maniera diversa. Gli Yankee sono intelligenti, ma hanno il torto di fidarsi più degli uomini che delle macchine".
"E questo è sbagliato?", chiese Arbatov.
“Certo che lo è. Gli uomini si ingannano, si stancano, sono confusi, si distraggono, sono corruttibili e ricattabili, esitano, hanno stupidi moralismi; le macchine no.Da quello che sappiamo, il computer delle shuttle è programmato per modulare il numero voluto in modo tale che il segnale abbia quella lunghezza esatta di secondi che permette allo Skymaster di riconoscerlo e di individuare la navicella come apparecchio amico, ma non conosce il numero della risposta, quello lo sa solo il comandante della shuttle. Bene, non si può pretendere che tutti i comandanti delle navette siano dei matematici, quindi il nostro codice può essere una funzione complessa, ma deve essere stata scelta in modo da essere scomponibile in una serie di sottofunzioni semplici, addirittura banali. Guarda bene, fino a sei giorni fa, le shuttle hanno risposto quattro per quattro volte consecutive e lo Skymaster ha accettato la risposta. L’altro ieri lo Skymaster ha chiamato dieci e la shuttle ha risposto cinque, ieri otto e quattro. Tra un’ora circa c’è il prossimo rendez vous e lo Skymaster chiamerà sei. Stiamo a sentire quello che ci dirà il nostro caro piccolo Tchkort, e se la shuttle risponderà tre, vuol dire che domani le battute del dialogo saranno quattro e due, solo che questa volta a bordo della shuttle ci sarete tu e i tuoi ragazzi. Quando lo Skymaster vi avrà fatti passare, basterà regolare anche solo una testata nucleare sull’autodistruzione, poi ve la filerete tranquilli con la shuttle in direzione Bajkonur, mentre lo Skymaster diventerà il più bel fuoco d’artificio che si sia mai visto, lasceremo gli Stati Uniti con le mutande abbassate, verranno da noi a piangere perché non gli bombardiamo la loro amata capitale o quelle dei loro alleati da quattro soldi".
Arbatov era perplesso.
"Certamente, compagno colonnello, ma scusami se azzardo un’osservazione, la parte del tuo piano che concerne la cattura della shuttle mi sembra si fidi un po’ troppo della fortuna".
Botvinnik rise.
"Non fortuna, mio caro: psicologia, calcolo, tempismo. Sai perché ho deciso di agire proprio domani che è il penultimo giorno di permanenza dello Skymaster in un’orbita bassa, geostazionaria? Per avere più tempo di studiare lo scambio di segnali fra lo Skymaster e le navette, certo, evitando proprio l’ultimo giorno, altrimenti qualche intoppo imprevisto potrebbe mandarci fuori tempo massimo, ma anche per un’altra ragione. Gli Yankee sanno bene quanto lo Skymaster sia importante per loro, i primi giorni saranno stati tesi e all’erta, poi poco per volta si saranno rilassati, l’operazione diventa routine, ma dopodomani sarebbero di nuovo all’erta come grilli, non avrebbero nessuna voglia di bruciare tutto proprio all’ultimo, quando tutto è andato bene, hanno macchine potenti come lo Skymaster, ma non si rendono conto di quanto è facile giocare sulle debolezze umane dei deboli uomini che le controllano. Un cavallo di Troia per entrare nel cavallo di Troia, domattina tu ed i tuoi ragazzi vi impadronirete del pulmino che porta l’equipaggio della shuttle da Mount Vermont alla zona di lancio. C’è un controllo elettronico all’accesso all’area di lancio, ma quello che il computer controlla sono solo i tesserini plastificati, che saranno quelli buoni che avrete tolto al vero equipaggio della shuttle, chi dovrebbe controllare la rispondenza delle vostre facce con quelle delle foto stampate sui tesserini, sono i soldati di guardia. Voi avrete i lineamenti alterati con la paraffina ed a controllarvi, alle sei del mattino, saranno dei ragazzi annoiati e assonnati. Se state calmi, gliela farete elegantemente sotto il naso. Te l’ho detto, gli Yankee si fidano troppo degli uomini".
Cinquanta minuti più tardi, Botvinnik, Arbatov e i cinque ragazzi che componevano il resto della sua squadra erano in attesa dei segnali provenienti da Tchkort.
L’altolà dello Skymaster era, come previsto, un sei. Seguì il segnale della shuttle: un bip di dieci secondi seguito da quello di venti, non c’era neppure bisogno della traduzione del computer, era un tre chiarissimo, di solare evidenza.
"E’ fatta, ragazzi", disse Botvinnik, "Domani siamo in azione".
"Roger!", gridò uno dei ragazzi della squadra, "Roger!"
Arbatov gli diede un’occhiataccia: "Tu sei rimasto troppo a lungo negli Stati Uniti!"
Botvinnik aveva tolto da uno stipetto una bottiglia di liquore e sette bicchierini e li stava passando in giro, era raggiante.
"Ragazzi", disse, "domani il sogno americano si trasformerà in un brutto risveglio. Coraggio, un bel brindisi! E’ bourbon wisky, ho l’impressione che fra non molto non ce ne sarà tanta di questa roba in giro, anche qui si troverà solo wodka.
"Ehi, non viene con noi, capo?", domandò uno degli uomini.
"Purtroppo no, ragazzo mio, ho un po’ di roba da distruggere qui, poi ci penserà la nostra ambasciata a farmi rimpatriare per via diplomatica".
* * *
Erano le cinque e trenta
del mattino, il pulmino con le insegne del Corpo Spaziale stava percorrendo il
breve tratto di strada, una decina di miglia, da Mount Vermont alla base di
lancio. L’autista aveva preso due caffè per tirarsi su, aveva tatto tardi la sera
prima con una certa biondina. Beh! Per due settimane era stato ligio ed era
andato a letto presto come un monaco, ma ci sono dei limiti a quello che si può
chiedere a un poveraccio, e poi i suoi superiori erano gente che vedeva agenti
del KGB anche sotto il letto. Anche se fosse successo qualcosa al pulmino, come
potevano sperare di farla franca entrando nella base? Non credeva ad una
possibilità del genere, e, per sua disgrazia, non ci credevano molto nemmeno i
suoi superiori.
Quella era una strada pubblica, e chiuderla al traffico civile in quel tratto, avrebbe significato bloccare la circolazione della zona per le tre settimane dell’operazione Skymaster solo per far andare avanti e indietro il pulmino due volte al giorno. Fu per questo che l’autista non ebbe sospetti quando, proprio al momento di passare sotto il cavalcavia, vide un uomo con il volto ed i vestiti insanguinati buttato di sghembo sulla strada davanti a lui, la vittima di qualche incidente stradale, con ogni probabilità.
Frenò, apri la portiera del veicolo e scese. Si avvicinò al ferito, ma quando era arrivato ad un passo dall’uomo, quello si alzò in piedi di scatto e gli vibrò un poderoso colpo di karate alla carotide. Contemporaneamente, da un cespuglio al lato della strada, fu lanciato qualcosa attraverso la portiera aperta del veicolo, qualcosa che era una bomba a gas narcotico.
Il finto ferito si precipitò a chiudere la portiera.
I cinque astronauti della shuttle erano in trappola come pesci in una boccia di vetro. I finestrini del veicolo erano saldati e infrangibili, una precauzione che ora tornava a favore degli aggressori; più che agitarsi per alcuni minuti prima di crollare sul fondo del pulmino o sui sedili, altro non poterono fare.
Arbatov ed i suoi uomini si misero al lavoro rapidi ed efficienti; imbavagliarono e legarono per bene gli astronauti privi di sensi dopo aver tolto loro le divise. Dimitri, che era stato truccatore dell’Opera di Leningrado, rifece loro le facce. L’unica seccatura per Arbatov era di non essere il più somigliante al comandante della shuttle, doveva rassegnarsi per il momento ad una posizione di subalterno.
Dopo che i corpi degli uomini narcotizzati furono nascosti nei cespugli ai lati della strada, il pulmino si rimise in moto. Arbatov guardò l’orologio: erano le cinque e quaranta, orario perfetto. La strada era deserta, nessuno li aveva visti.
Con pochi minuti di ritardo sull’orario abituale, il pulmino era davanti ai cancelli della base. Arbatov sentiva le ginocchia che gli tremavano mentre fissava i volti inespressivi dei militi della M. P. che lo guardavano mentre inseriva il tesserino plastificato nell’apposito lettore del terminale del computer, e si aspettava a ogni istante di ricevere una raffica di mitra in mezzo agli occhi. Se almeno gli yankee non avessero avuto quella schifosa abitudine di ruminare continuamente chewing gum! Ma non accadeva nulla. Botvinnik aveva dunque ragione, quel sistema teoricamente impenetrabile poteva essere violato con tanta facilità?
Il computer della base diede il segnale di via libera. Arbatov si incollò dietro a Dimitrevich che impersonava il comandante della shuttle, subito seguito dagli altri. Fortunatamente, il personale della base provvedeva alle sue incombenze e non aveva molta voglia di attaccare discorso.
Gli uomini furono accompagnati a indossare le tute pressurizzate, poi un piccolo veicolo elettrico li portò fin sotto bordo della navetta. Arbatov notò con una certa soddisfazione che la cabina di guida e la consolle dei comandi con il terminale dell’elaboratore di bordo, erano esattamente identiche a quelle del simulatore su cui lui ed i suoi uomini si erano addestrati in Unione Sovietica. Chissà come, il KGB riusciva sempre a procurarsi le informazioni estte fin nei dettagli più minuti.
Un’ora circa di preparativi, un’altra di count down, poi alle 8.02, il lancio.Mentre la mano gigantesca dell’acceleratore lo schiacciava contro l’alcova imbottita, Michail Arbatov aveva quasi voglia di mettersi a urlare: fino a pochi secondi prima non aveva creduto che fosse veramente possibile rubare una shuttle, eppure lui ed i suoi ragazzi l’avevano appena fatto!
"Chissà cosa starà facendo Botvinnik in questo momento!", disse uno dei ragazzi allegro.
L’euforia si era sostituita alla tensione, mancavano pochi minuti al rendez vous con lo Skymaster che era già inquadrato dal radar della navetta.
"Porca miseria, è davvero grosso!", disse qualcuno osservando l’immagine che ingrandiva sullo schermo del radar.
La navetta era ormai giunta quasi alla fine del suo silenzioso volo senza attrito. Lo Skymaster attendeva, simile a una piccola luna.
Nella cabina di comando risuonò la voce del ciclope, era un quattro come previsto.
Le dita di Arbatov corsero sui tasti della consolle del computer di bordo, ordinandogli di modulare due in risposta.
Non vi furono altri segnali, ma sulla superficie dello Skymaster un portello scivolò di lato, portando un missile tattico in posizione di sparo.
Una frazione di secondo più tardi vi fu un lampo abbagliante, un’esplosione silenziosa, poi la shuttle, Arbatov e i suoi compagni cominciarono a dilatarsi per l’universo sotto forma di una nube di atomi vaganti.
Quella era una strada pubblica, e chiuderla al traffico civile in quel tratto, avrebbe significato bloccare la circolazione della zona per le tre settimane dell’operazione Skymaster solo per far andare avanti e indietro il pulmino due volte al giorno. Fu per questo che l’autista non ebbe sospetti quando, proprio al momento di passare sotto il cavalcavia, vide un uomo con il volto ed i vestiti insanguinati buttato di sghembo sulla strada davanti a lui, la vittima di qualche incidente stradale, con ogni probabilità.
Frenò, apri la portiera del veicolo e scese. Si avvicinò al ferito, ma quando era arrivato ad un passo dall’uomo, quello si alzò in piedi di scatto e gli vibrò un poderoso colpo di karate alla carotide. Contemporaneamente, da un cespuglio al lato della strada, fu lanciato qualcosa attraverso la portiera aperta del veicolo, qualcosa che era una bomba a gas narcotico.
Il finto ferito si precipitò a chiudere la portiera.
I cinque astronauti della shuttle erano in trappola come pesci in una boccia di vetro. I finestrini del veicolo erano saldati e infrangibili, una precauzione che ora tornava a favore degli aggressori; più che agitarsi per alcuni minuti prima di crollare sul fondo del pulmino o sui sedili, altro non poterono fare.
Arbatov ed i suoi uomini si misero al lavoro rapidi ed efficienti; imbavagliarono e legarono per bene gli astronauti privi di sensi dopo aver tolto loro le divise. Dimitri, che era stato truccatore dell’Opera di Leningrado, rifece loro le facce. L’unica seccatura per Arbatov era di non essere il più somigliante al comandante della shuttle, doveva rassegnarsi per il momento ad una posizione di subalterno.
Dopo che i corpi degli uomini narcotizzati furono nascosti nei cespugli ai lati della strada, il pulmino si rimise in moto. Arbatov guardò l’orologio: erano le cinque e quaranta, orario perfetto. La strada era deserta, nessuno li aveva visti.
Con pochi minuti di ritardo sull’orario abituale, il pulmino era davanti ai cancelli della base. Arbatov sentiva le ginocchia che gli tremavano mentre fissava i volti inespressivi dei militi della M. P. che lo guardavano mentre inseriva il tesserino plastificato nell’apposito lettore del terminale del computer, e si aspettava a ogni istante di ricevere una raffica di mitra in mezzo agli occhi. Se almeno gli yankee non avessero avuto quella schifosa abitudine di ruminare continuamente chewing gum! Ma non accadeva nulla. Botvinnik aveva dunque ragione, quel sistema teoricamente impenetrabile poteva essere violato con tanta facilità?
Il computer della base diede il segnale di via libera. Arbatov si incollò dietro a Dimitrevich che impersonava il comandante della shuttle, subito seguito dagli altri. Fortunatamente, il personale della base provvedeva alle sue incombenze e non aveva molta voglia di attaccare discorso.
Gli uomini furono accompagnati a indossare le tute pressurizzate, poi un piccolo veicolo elettrico li portò fin sotto bordo della navetta. Arbatov notò con una certa soddisfazione che la cabina di guida e la consolle dei comandi con il terminale dell’elaboratore di bordo, erano esattamente identiche a quelle del simulatore su cui lui ed i suoi uomini si erano addestrati in Unione Sovietica. Chissà come, il KGB riusciva sempre a procurarsi le informazioni estte fin nei dettagli più minuti.
Un’ora circa di preparativi, un’altra di count down, poi alle 8.02, il lancio.Mentre la mano gigantesca dell’acceleratore lo schiacciava contro l’alcova imbottita, Michail Arbatov aveva quasi voglia di mettersi a urlare: fino a pochi secondi prima non aveva creduto che fosse veramente possibile rubare una shuttle, eppure lui ed i suoi ragazzi l’avevano appena fatto!
"Chissà cosa starà facendo Botvinnik in questo momento!", disse uno dei ragazzi allegro.
L’euforia si era sostituita alla tensione, mancavano pochi minuti al rendez vous con lo Skymaster che era già inquadrato dal radar della navetta.
"Porca miseria, è davvero grosso!", disse qualcuno osservando l’immagine che ingrandiva sullo schermo del radar.
La navetta era ormai giunta quasi alla fine del suo silenzioso volo senza attrito. Lo Skymaster attendeva, simile a una piccola luna.
Nella cabina di comando risuonò la voce del ciclope, era un quattro come previsto.
Le dita di Arbatov corsero sui tasti della consolle del computer di bordo, ordinandogli di modulare due in risposta.
Non vi furono altri segnali, ma sulla superficie dello Skymaster un portello scivolò di lato, portando un missile tattico in posizione di sparo.
Una frazione di secondo più tardi vi fu un lampo abbagliante, un’esplosione silenziosa, poi la shuttle, Arbatov e i suoi compagni cominciarono a dilatarsi per l’universo sotto forma di una nube di atomi vaganti.
* * *
Il colonnello del KGB
Konstantin Botvinnik stava vivendo momenti di estrema inquietudine, da
ventiquattro ore stava attendendo notizie sull’esito della missione del
maggiore Arbatov. Era chiaro che gli Stati Uniti non avevano interesse a
diffondere la notizia: anche se l’attacco fosse fallito, avrebbe dimostrato che
lo Skymaster era vulnerabile; nemmeno l’Unione Sovietica aveva interesse a
rendere nota la cosa se Arbatov e il suo commando avessero fallito, ma se le
cose fossero andate per il verso giusto, a Mosca non avrebbero dovuto porre
tempo in mezzo per informare la stampa estera su chi erano i nuovi padroni del
mondo, e se Botvinnik conosceva bene la stampa occidentale, la notizia sarebbe
stata presto strombazzata ai quattro angoli del globo. Di conseguenza, quel
silenzio sulla stampa ed i notiziari radio e televisivi, che gli sembrava
diventasse sempre più pesante, quasi tangibile di ora in ora, poteva
significare solo che qualcosa era andato storto.
In caso di insuccesso, gli era stato detto di non aspettarsi nessun aiuto da parte dell’ambasciata sovietica di Washington. Non poteva fare altro che aspettare e distruggere documenti...
Una rapida successione di colpi e la porta venne sfondata di prepotenza, cinque o sei giovanotti entrarono di corsa nella stanza e si precipitarono su Botvinnik immobilizzandolo. Non gli gridarono nessuna intimazione, non portavano uniformi né distintivi, ma Botvinnik sapeva benissimo chi erano quei giovani vestiti di scuro e dai capelli tagliati corti, agenti della FBI. Ruppe la capsula di cianuro che portava in un dente finto.
Il generale Henry Bolton era di ottimo umore, addirittura raggiante.
"I ragazzi della FBI stanno facendo un lavoro splendido", disse allegro, "hanno preso l’uomo che guidava il pulmino rubato e sono risaliti alla base dell’operazione, dove hanno catturato quel Botvinnik che si è suicidato, ora stanno mettendo le mani su di una buona metà della rete spionistica sovietica qui da noi. Sembra che il defunto Botvinnik fosse nientemeno che un colonnello del KGB, per i sovietici quest’operazione per distruggere o impadronirsi dello Skymaster non era certo poco importante".
Sam Perini annuì tranquillo.
"E invece non sono riusciti ad ottenere altro che un ritardo di ventiquattro ore, e adesso lo Skymaster è di nuovo al sicuro in orbita alta".
"Mi meraviglio di come hai avuto ragione. Forse li abbiamo sottovalutati i sovietici, sono riusciti a rubare una shuttle e sono riusciti ad intercettare i segnali dello Skymaster, ma non a interpretare il tuo codice, anche se credevano di averlo fatto".
Sam Perini sorrise.
"So già dove vuoi andare a parare, vuoi che ti sveli il mio piccolo asso nella manica. Loro non potevano decifrare il mio codice per la buona ragione che non è un vero codice matematico. Lo Skymaster chiamava i numeri dieci, otto, sei, quattro, due e le shuttle dovevano rispondere un numero corrispondente al numero di lettere del numero chiamato nelle quattro principali lingue dell’Alleanza occidentale, inglese i primi cinque giorni, poi francese, tedesco e italiano.
Ora, che two in inglese sia di tre lettere e deux in francese sia di quattro, è un puro e semplice caso. Il linguaggio verbale, con tutta la sua casualità e ambiguità, è un linguaggio umano, il linguaggio matematico è più adatto alle macchine. I sovietici non sarebbero riusciti a penetrare una cosa apparentemente così banale perché commettono lo sbaglio di fidarsi più delle macchine che degli uomini".
"Adesso abbiamo due anni per pensare a qualcos’altro", disse Bolton, "Sempre che i sovietici non decidano nel frattempo di scendere a più miti consigli, il che è probabile, visto come si sono messe le cose. Ma tu non me la racconti ancora del tutto giusta. Potevi prevedere che se i tovarich avessero deciso di agire, l’avrebbero fatto gli ultimi giorni per avere più tempo di studiarsi il codice. Ora, guarda caso, l’ultima parte del codice era in italiano, e tu sei italiano e per quanto ne so, conosci la lingua dei tuoi nonni altrettanto bene che l’inglese".
"Esatto, vecchio mio. In italiano dieci, otto e sei sono rispettivamente di cinque, quattro e tre lettere, cioè esattamente la metà del loro valore numerico. Chi cercava una relazione matematica, poteva credere di averla trovata, ma quando lo Skymaster ha chiesto quattro, i compagni avrebbero dovuto rispondere sette e non due. Un altro italiano l’avrebbe capito facilmente, tu potevi forse arrivarci, ma i sovietici, che non hanno nessuna familiarità con la lingua italiana, non potevano farcela in nessun modo".
"Hanno telefonato da Washington", disse Perini. "Tira fuori la divisa migliore e lustrati le medaglie. La segreteria privata del presidente. Alla Casa Bianca danno un party questa sera per festeggiare il successo dell’operazione Skymaster".
"Non so se verrò", rispose Bolton:
"Perché?", chiese Perini, "Hai forse qualcosa in contrario al caviale, le belle donne e lo champagne?"
"Il punto è proprio questo", rispose Bolton ridendo, "Lo champagne. Non voglio champagne, ma spumante italiano. Dopo quanto è successo, mi sembra il minimo che l’Italia, che ha inventato quella lingua meravigliosa, si meriti".
"Va bene", rispose Perini. "Vedremo di farglielo sapere, ma ricordati che l’hai detto tu, non io".
In caso di insuccesso, gli era stato detto di non aspettarsi nessun aiuto da parte dell’ambasciata sovietica di Washington. Non poteva fare altro che aspettare e distruggere documenti...
Una rapida successione di colpi e la porta venne sfondata di prepotenza, cinque o sei giovanotti entrarono di corsa nella stanza e si precipitarono su Botvinnik immobilizzandolo. Non gli gridarono nessuna intimazione, non portavano uniformi né distintivi, ma Botvinnik sapeva benissimo chi erano quei giovani vestiti di scuro e dai capelli tagliati corti, agenti della FBI. Ruppe la capsula di cianuro che portava in un dente finto.
Il generale Henry Bolton era di ottimo umore, addirittura raggiante.
"I ragazzi della FBI stanno facendo un lavoro splendido", disse allegro, "hanno preso l’uomo che guidava il pulmino rubato e sono risaliti alla base dell’operazione, dove hanno catturato quel Botvinnik che si è suicidato, ora stanno mettendo le mani su di una buona metà della rete spionistica sovietica qui da noi. Sembra che il defunto Botvinnik fosse nientemeno che un colonnello del KGB, per i sovietici quest’operazione per distruggere o impadronirsi dello Skymaster non era certo poco importante".
Sam Perini annuì tranquillo.
"E invece non sono riusciti ad ottenere altro che un ritardo di ventiquattro ore, e adesso lo Skymaster è di nuovo al sicuro in orbita alta".
"Mi meraviglio di come hai avuto ragione. Forse li abbiamo sottovalutati i sovietici, sono riusciti a rubare una shuttle e sono riusciti ad intercettare i segnali dello Skymaster, ma non a interpretare il tuo codice, anche se credevano di averlo fatto".
Sam Perini sorrise.
"So già dove vuoi andare a parare, vuoi che ti sveli il mio piccolo asso nella manica. Loro non potevano decifrare il mio codice per la buona ragione che non è un vero codice matematico. Lo Skymaster chiamava i numeri dieci, otto, sei, quattro, due e le shuttle dovevano rispondere un numero corrispondente al numero di lettere del numero chiamato nelle quattro principali lingue dell’Alleanza occidentale, inglese i primi cinque giorni, poi francese, tedesco e italiano.
Ora, che two in inglese sia di tre lettere e deux in francese sia di quattro, è un puro e semplice caso. Il linguaggio verbale, con tutta la sua casualità e ambiguità, è un linguaggio umano, il linguaggio matematico è più adatto alle macchine. I sovietici non sarebbero riusciti a penetrare una cosa apparentemente così banale perché commettono lo sbaglio di fidarsi più delle macchine che degli uomini".
"Adesso abbiamo due anni per pensare a qualcos’altro", disse Bolton, "Sempre che i sovietici non decidano nel frattempo di scendere a più miti consigli, il che è probabile, visto come si sono messe le cose. Ma tu non me la racconti ancora del tutto giusta. Potevi prevedere che se i tovarich avessero deciso di agire, l’avrebbero fatto gli ultimi giorni per avere più tempo di studiarsi il codice. Ora, guarda caso, l’ultima parte del codice era in italiano, e tu sei italiano e per quanto ne so, conosci la lingua dei tuoi nonni altrettanto bene che l’inglese".
"Esatto, vecchio mio. In italiano dieci, otto e sei sono rispettivamente di cinque, quattro e tre lettere, cioè esattamente la metà del loro valore numerico. Chi cercava una relazione matematica, poteva credere di averla trovata, ma quando lo Skymaster ha chiesto quattro, i compagni avrebbero dovuto rispondere sette e non due. Un altro italiano l’avrebbe capito facilmente, tu potevi forse arrivarci, ma i sovietici, che non hanno nessuna familiarità con la lingua italiana, non potevano farcela in nessun modo".
"Hanno telefonato da Washington", disse Perini. "Tira fuori la divisa migliore e lustrati le medaglie. La segreteria privata del presidente. Alla Casa Bianca danno un party questa sera per festeggiare il successo dell’operazione Skymaster".
"Non so se verrò", rispose Bolton:
"Perché?", chiese Perini, "Hai forse qualcosa in contrario al caviale, le belle donne e lo champagne?"
"Il punto è proprio questo", rispose Bolton ridendo, "Lo champagne. Non voglio champagne, ma spumante italiano. Dopo quanto è successo, mi sembra il minimo che l’Italia, che ha inventato quella lingua meravigliosa, si meriti".
"Va bene", rispose Perini. "Vedremo di farglielo sapere, ma ricordati che l’hai detto tu, non io".
Come sempre bella e interessante fantascienza quella di Fabio.
RispondiElimina:o
RispondiEliminaUn racconto molto interessante. Complimenti.
RispondiEliminaDanilo Concas
Un racconto ben articolato.
RispondiEliminaG.S.
Un suggestivo modo di scrivere fantascienza.
RispondiEliminaBravo Fabio.