Il colpo partì.
E quello fu l'inizio. Qualcosa che era in attesa da
sempre si era rivelato, dandomi la possibilità di organizzarmi.
Solo un infimo istante, ma che aveva conosciuto una
somma dilatazione e si era
dispiegato in valli e prati di secondi. Tutto era andato sgranandosi, in
inauditi dettagli.
In quella parentesi di silenzio e sospensione
radicali, avevo avuto modo di raccogliermi, per essere pronta a lasciare la
presa. A fare, in un certo senso, le
valige, rassettare precipitosamente la mia stanza, riporre gli oggetti,
eliminare la polvere, ma senza nasconderla sotto il tappeto. La tentazione era,
del resto, forte. Furono fatte grandi pulizie dappertutto, fu cambiata l'aria,
fu predisposta ogni molecola, ogni atomo. Era stata una prassi del vuoto, che
fotografava me stessa in immagini che mi avrebbero replicata per l'eternità. Un
avvallamento di tempo in cui avevo lavorato per superare la soglia. Ma questa,
certamente, restava di là a venire. In quella parentesi che nessuno, nella vita
ordinaria, avrebbe potuto percepire, io ricamai il mio congedo. Mi riferisco a
ciò che riguardava il mio corpo, i miei organi. Ebbi la facoltà di
distaccarmene affettivamente. Finché anche quella frazione di secondo finì, dopo una teoria di svuotamenti.
A quel punto fui cosciente di cadere. Non avevo alcuna
forza nelle gambe, che non sentivo affatto. Non provavo dolore, ma appena
abbozzai questa consapevolezza, esso arrivò lancinante. E restai prigioniera di
un altro tempo breve, ma stavolta talmente intenso da non poter essere
posseduto. Il pieno del male assoluto.
Si può solo immaginare il portento di una pallottola
nel petto, il suo incastrarsi nei tessuti vivi, la lacerazione della carne
nell'affondo. Se la sofferenza aveva caratterizzato il parto, quando mia figlia faceva le veci di
quella pallottola in un percorso inverso, non era però stata altrettanto
violenta. Allora espellevo il dolore, mentre stavolta lo accoglievo. Ero una totalità in un punto. Una singolarità
dalla quale, quasi avessi dovuto rivoltarmi come un guanto, ero
stata risucchiata. Avevo avuto la
precisa sensazione di essere attratta nel mio petto, fino a caderci dentro, per
rovesciarmi in un altrove che non mi era dato ancora discernere. Era stato come
se facessi una disperata capriola dentro di me, per uscire dall'altra parte.
Nel momento stesso in cui avevo la vaga fantasia di attraversare un
cannocchiale, mi pareva di restringermi, raggrumarmi.
Inghiottita da me stessa, appallottolandomi in una
porzione infinitesima pronta per essere espulsa, cambiava ancora la mia percezione del tempo, che di nuovo conosceva
la lentezza, la possibilità di indugiare sui particolari. Era un tempo di cui
era possibile fare la scansione. Non per questo scorreva più lentamente, ero
semplicemente io a cambiare. I secondi erano sempre secondi, ma per me erano
piazze da attraversare in tutta tranquillità. Potevo contemplare, vivisezionare
la grana del tempo. Era sempre un prima. Il dopo era del tutto celato, forse
inesistente. Non mi ponevo più il problema della sopravvivenza dell'anima. Una
volta di più mi fu chiaro che, se la sopravvivenza non ci fosse stata, non
l'avrei saputo, quindi il problema non
si poneva neppure. Incistata nella vasta estensione di maglia temporale, potevo
solo raccapezzarmi nell'assenso, senza potere né volere né guardare oltre. In
fondo c'era la singolarità che mi stava tuttora divorando. Ma potevo rendermene
conto, riflettere, soppesare.
Avvertivo un ricordo liquido delle mie membra, la
traccia di qualcosa di sporco, maleodorante che mi vincolava nella sua
finzione, tutto ciò che mi aveva
costretta, di materiale o anche immateriale, durante l'esistenza. E proprio la
mia parte non animale arrivava alla
coscienza, verità spuria, venata di
complicità immonde. Nello stesso, tempo, però, ero distaccata, perché
quella schifezza non mi riguardava più. Me ne stavo sgravando intanto che la
contemplavo nella sua entropia.
Era la dispersione lenta delle mie asperità. Una sorta
di forza centrifuga agiva in quello che divenivo, così che mi sentivo gonfiare
e dilatare, nel momento stesso in cui mi alleggerivo.
Fu così che vidi il vialetto che portava alla casa di
S. Sentivo anche perché lo stavo vedendo, nella calma e nel silenzio di un
avamposto. Ero su una piazzuola di sosta nel cosmo e vedevo la casa di lui,
dell'unico che mi aveva avuto. Casa, home, sito, locazione, bara. Tutto questo
era quel vialetto e la porta liberty d'ingresso.
Respirando l'aria del primo autunno, sentii che quella
che inalavo altro non ero che io, l'offerta al mondo in cui consistevo. Il mio
contributo al suo rinnovo. Poca cosa. Null'altro che una scheggia, eppure, se
fosse venuta meno, sarebbe stato un riflesso perduto. Non ero preziosa, ma ero
sola. Poi, da quella porta inalata, da
quel sentiero assorbito, essenza gustosa e programmatica della mia esistenza,
usciva l'uomo. Il desiderio è un processo di radicale individualizzazione. Era
lì, su quel corpo che si concentravano le mie particelle, ronzandovi attorno.
Il mio desiderio costituiva un tappeto
di falene. Ma, nel momento stesso in cui conseguivo il vialetto, prima di
accedere alla verità di me stessa, fui scagliata via come un corpo estraneo.
Inarrestabile, il mio passato confluì come un ritorno
di marea. In un'inondazione maldestra, tutto il mio materiale, cattiveria,
gioia, superbia, invidia, fu toccato ma non del tutto, travolto ma in parte.
Ciò che restava dopo il ritiro di quell'onda, era solo parzialmente intaccato,
ma di sicuro cambiato più o meno in profondità. Vidi i sentimenti, le emozioni,
le secche del mio animo, le piene e le risorse comporsi in un'architettura
sfilacciata, enorme e fragile. Una scultura espansa che veniva meno ad ogni
istante. C'erano angoli, anfratti, buchi nelle forme e, nonostante tutto, era facile entravi e poi fuggirne.
Capii quanto la mia storia mi avesse lentamente ma
inflessibilmente plasmata. Di anno in anno, fino all'ultimo giorno, fino al
colpo mortale, mi ero instancabilmente edificata. Non avrei potuto dire se ero migliorata, se mi ero evoluta o se, al contrario, ero andata
incontro ad una stratificazione di adattamenti. Compromessi a me così
consustanziali, ormai, piccoli o grandi che fossero, da non avvertirli neppure
più come tali. Adeguamenti progressivi
della vita alla vita. Lì, indubbiamente, ci si raffina. Si incidono
progressivamente i solchi delle azioni e reazioni più opportune, dopo li si
replica senza troppa fatica, anche se forse erano i più innaturali per
noi.
Ci facciamo fascinosamente, indefettibilmente
persuasi. Allora si muore persuasi? Non lo saprei dire. Forse questa morte inaspettata non mi trovava persuasa nella
misura in cui non avevo avuto modo di sottostare a me, ai miei limiti, al mio
degrado. Quel colpo che mi uccideva mi salvava da un'esperienza completa. Amputata
della quarta dimensione, ero un fiore
reciso prima dello sboccio. Il rigoglio dei petali, il loro colore sono potenziali. Ero rimasta potenziale. E
accasciandomi a terra, analizzando il tempo che mi rimaneva, frazione di
secondo dopo frazione di secondo, mi vedevo recisa e non potevo fare nulla se
non vagamente rimpiangere le idee che mi ero fatta su come sarei stata.
Rimpiangevo le idee, non la mia realtà, perché quella era stata interrotta e
non si poteva piangere su ciò che non
era stato.
Raggiunsi così
la terra. Avvertii allora lo
squarciarsi di una membrana tesa. Uno scoppio,
definitiva coincidenza con la mia fine. Era la mia ora e la forza di cui
avevo appena sentito la durezza definiva il confine. E improvvisamente,
ritrovandomi oltre, si rivelava l' inganno.
Giungeva il momento in cui mi accorgevo della bugia che raccontavo a me
stessa, avvertendo la botta, l'impatto osceno. La bugia delle cause e degli
effetti, per mascherare la mancanza di visione. Non c'era nessuna barriera. In
realtà avrei dovuto intuire subito che si trattava di questo. Che, per quanto
impervia, esiste un'unica strada per la conoscenza. Si doveva capire. Un attimo e la barriera non
è più tale. Basta un lieve sollevamento della testa, uno sguardo fuori dal
limite di allora. Basta un sussulto e siamo salvi. O forse no, perché altri
sono rimasti indietro. Dentro il tempo, fuori dall'esperienza ultima della
consapevolezza, intenti a misure e
ricapitolazioni, ancora fermi a quel colpo di pistola.
Ben scritto: molto introspettivo. Interessante.
RispondiEliminaMi sono decisamente piaciuti la trama e lo stile narrativo.
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