- Prendete il vostro te, signorina
Ludmilla.
La ragazza distolse lo sguardo dal
volumetto che stava leggendo: - Grazie, Olivia.
La domestica di pelle nera posò il vassoio
d’argento sul tavolino da giardino e si sedette su uno sgabello. Era una donna
pingue, con il viso di una dolcezza strana, il naso schiacciato e due occhi
distanziati, quasi a mandorla.
- Sono le poesie del vostro tenentino? –
domandò, indicando il libro aperto sul grembo della ragazza.
Ludmilla sospirò. – Sì, Olivia. Ho letto
per la decima volta questi versi.
Si mise a declamare con una voce che
evocava il volo di una farfalla:
“Ricerca, l’ape, fra papaveri e viole,
il fior che fra tanti ondeggiano al sole.
E la corolla sulla quale si posa
non è margherita, invece è una rosa.
Spilla il nettare da’ petali carnosi
e lo porta con sé oltre i campi odorosi.
Ma poi, nel segreto dell’umile cella,
l’ape si strugge al ricordo di quella.
Senza lei non può più restare:
la sua rosa può solo sognare.
Ma quando di nuovo un giorno la trova,
col desiderio che dentro gli cova,
un fiore appassito, sciupato, morente,
rivede nel sole, un po’ freddo e ridente.”
- È una bella poesia – disse la donna
dalla pelle nera.
La luce del pomeriggio settembrino si era
un poco attenuata. Nuvole grigie avanzavano da sud, annunciando la pioggia.
Sulla elegante terrazza, la giovane erede
dei Perkins si godeva un po’ di quiete in compagnia della domestica che era
quasi un’amica. Tutt’intorno, la campagna della Georgia appariva
particolarmente rigogliosa nel caldo umido della tarda estate. Ogni tanto la
brezza portava il canto degli schiavi dalla vicina piantagione, oltre gli olmi
secolari.
La serva disse ancora:
- Come l’ape della poesia, il vostro amato
tornerà presto.
Ludmilla incrociò lo sguardo della
domestica. I suoi occhi verdi, dalle lunghe ciglia, emanavano una luce intensa.
Era tanto bella con quella pettinatura all’ultima moda e il vestito che metteva
in risalto le spalle d’avorio e sottolineava il seno abbondante e sodo. Olivia
non poté fare a meno di rivolgerle un sorriso di compiacimento.
- Il mio Phineas deve tornare sano e
salvo! – Un’ombra le passò sul viso, chinò il capo. – So che la guerra è
crudele. Può uccidere, ma anche procurare devastazione nel corpo… e nell’anima.
- Il vostro Phineas non avrà nulla da
temere.
- Che dici, Olivia? Il suo cuore arde per
la causa del Sud, quindi temo che non osserverà le regole della prudenza. Ma so
anche che è forte, abile e valoroso. I suoi uomini si fidano ciecamente di lui,
del loro tenente: il signor Phineas Carter della contea di Macon.. – Pronunciò
le ultime parole con orgoglio, facendo assumere alle sue labbra una smorfia
quasi arrogante ma nello stesso tempo graziosa. Poi prese delicatamente la
tazza di tè.
- Ricordate, signorina Ludmilla, la sera
quando lui vi salutò?
- Come posso dimenticare?
- Ebbene, io feci una cosa che certamente
gioverà a lui e a voi.
La ragazza posò la tazzina e spalancò gli
occhioni.. – Che hai fatto?
- Nel bicchiere di champagne gli ho
versato… sì, una polverina… preparata da me.
Ludmilla portò una mano alla bocca, con un
gesto vago di timore.
- Non preoccupatevi. È un rimedio antico,
sicuro, che ho appreso da mia madre, e lei a sua volta da sua madre. – Fece una
breve pausa. – Lo riporterà presto fra le vostre braccia, sano e salvo. C’è un
grande potere in quel farmaco: lo proteggerà dai pericoli e gli acuirà il
desiderio di riabbracciarvi.
Ludmilla rivolse alla sua serva un sorriso
di riconoscenza e di sollievo.
Quando tornò il tenente Phineas Carter,
era d’ottobre e pioveva a dirotto.
Una nebbia lattiginosa avvolgeva il bianco
ed elegante edificio dei Perkins.
Olivia lanciò un urlo.
- Che c’è? – fece Ludmilla, che si stava
incipriando davanti allo specchio.
- Venite a vedere.
La ragazza andò alla finestra e guardò giù
nell’ampio spazio prospiciente il colonnato.
Si intravedeva un cavaliere, fermo
nell’umida foschia.
- Voi ci vedete meglio di me, signorina
Ludmilla.
- Sì, è lui, è lui!
Sollevando l’ampia gonna, la donna corse
alla porta della stanza. Si precipitò giù per le scale, seguita dalla domestica
nera. Attraversò l’atrio e spalancò il portoncino.
L’uomo era sceso da cavallo e ora
camminava lentamente, verso l’ingresso.
Era proprio lui, il tenente Phineas
Carter. Il grigio berretto un po’ di sghimbescio, la mantellina inzuppata di
pioggia… ma senza stivali.
La ragazza uscì incontro al suo amore. Il
cuore voleva scoppiarle nel petto.
Ma subito rallentò la sua corsa.
Nell’aspetto del suo uomo c’era qualcosa
di molto sbagliato. Camminava in modo rigido ma irregolare, quasi zoppicando.
E poi lei vide in tutta la sua chiarezza:
un volto deturpato da un’orribile sciabolata; e due occhi spenti iniettati di
sangue, una bava verdastra che gli usciva dalla mascella lacerata e pendente.
Rimase ferma, impietrita, mentre udiva,
alle sue spalle, l’urlo di Olivia.
Il
soldato fu addosso alla ragazza, affondò i denti nel candido collo e cominciò a
divorarla.
Stupendi come al solito i fantawestern di Giuseppe. Racconto avvincente e dallo satile impeccabile.
RispondiEliminaBel racconto poetico con finale sorprendente...
RispondiEliminaDeliziarci con i tuoi fantawestern é ormai diventato un appuntamento imperdibile, un must oserei dire.
RispondiEliminaComplimenti a Giuseppe per l'ennesimo riuscito racconto.