Un gallo cantava. Uscendo da un sonno denso di incubi,
Cesare si svegliò. Da mesi aveva messo l'assedio ad Alesia dove ottantamila
Galli si erano rinchiusi. Li aveva presi a loro volta in trappola chiudendo
l'oppidum in una rete di trincee e di fortificazioni quale non si era mai
vista. Aveva sventato tutti i loro tentativi di rompere il cerchio. Condannati
alla fame, spossati, i Galli si dovevano arrendere. Oppure le legioni avrebbero
dato l'assalto finale. Il nemico aveva perduto la partita quando arrivò
l'armata di soccorso. Moltitudini venute da tutti gli angoli del territorio.
Ottomila cavalieri, duecentoquarantamila fantaccini, feroci guerrieri che
avevano sommerso gli uomini di Cesare.
Un ricordo bruciava più di tutti gli altri, quello del
momento in cui lui stesso, Cesare, dopo aver lottato di persona fino a quando
la sua spada era rimasta in mano al nemico, era stato fatto prigioniero da
questo tizio, Vercingetorige. Non avendo potuto trovare una morte da soldato,
aveva dovuto gettare ai piedi dell'arverno il suo mantello rosso e il suo
bastone di comando. E i Galli inalberavano ora in uno dei loro templi come
trofeo le sue insegne di comandante.
Il gallo aveva smesso di cantare.
In qualche giorno o in qualche ora, Cesare avrebbe
subito la sorte dei vinti. Quelli erano ansiosi di finirla con il comandante in
capo dei Romani. L'avrebbero senza dubbio trascinato per le vie di Gergovia,
lercio borgo dove sarebbe stato messo a morte da dei barbari che non erano
capaci di organizzare un trionfo in bella e dovuta maniera. A meno che non
applicassero l'usanza romana di legarlo a un palo, di batterlo con le verghe e
poi decapitarlo.
Il prigioniero alzò gli occhi verso lo stretto
rettangolo che alla sommità del nero buco ruscellante d'acqua dove l'avevano
gettato, si distingueva male dal muro, gli sembrava tuttavia di percepire oltre
le rozze assi, il lucore della luna.
Il gallo era in anticipo, il giorno non sembrava sul
punto di levarsi, senza dubbio non era che la quarta vigilia. Con uno sforzo
sovrumano che esigevano le sue membra indolenzite dalla prigionia, Cesare si
sollevò fino all'apertura. Si, la luna brillava nel cielo dove passava qualche
nube. Essa rischiarava il tratto delle mura di Gergovia antistante la prigione
con la sua struttura di pietra che lasciava vedere l'armatura di travi, e anche
il viottolo che serpeggiava tra le case di legno e di argilla coperte di
stoppie.
Sul muro di fronte, delle mani maldestre avevano
tracciato dei segni enigmatici, ma anche delle scritte. Non riusciva a
decifrare alcune di esse, anche se erano scritte in caratteri greci, che i
druidi utilizzavano per trascrivere la loro lingua. Certe, dovute a un popolo
che non conosceva l'uso corrente della scrittura, restavano incomprensibili.
Altre erano redatte in un latino approssimativo e piene di errori di ortografia
e grammatica. Ma ce n'erano altre ancora affatto corrette. La prima diceva: VAE
VICTIS. Quel richiamo di un passato doloroso, il sacco di Roma da parte dei
Galli, gli confermava che era preso di mira. La seconda l'incuriosiva molto,
diceva: ALEA IACTA EST: la sorte è decisa, la sorte di chi? La sua, beninteso.
Cesare si lasciò ricadere sui talloni. La ronda si
avvicinava. Cesare che durante i suoi anni di presenza da questo lato delle
Alpi aveva imparato abbastanza gallico per comprenderlo, capì la parola
d'ordine: FUORI I ROMANI!
Di nuovo il silenzio, turbato talvolta dai latrati di
un botolo.
All'improvviso, Cesare che si stava assopendo per la
stanchezza, sentì un tramestio nel corridoio che portava alla sua cella, poi
dei passi. Si drizzò con tutto il corpo teso, le orecchie aguzze. Venivano a
prendere il prigioniero per il supplizio.
“Ave Caesar!”
Il generale aveva davanti un uomo giovane, dall'alta
statura che era ancora ingrandita da un elmo di bronzo ornato di corna, di un
alto cimiero e di un pennacchio. L'identificò subito sotto il mantello bruno
che ricopriva la cotta di maglia. Il capo delle tribù galliche che,
dimenticando per un istante i loro incessanti conflitti, si erano alleate per
fare a pezzi i romani, Vercingetorige!
Per non perdere un pollice della sua taglia, Cesare
allunga il collo, poi incrocia le braccia, e con lo sguardo sfida il suo
visitatore.
“Cesare”, disse il capo gallico che parlava un latino
rozzo ma perfettamente corretto, “La fortuna ha cambiato campo, lei che ti è
sempre stata favorevole. Lei ti amava perché riconosceva i tuoi meriti. Lo so
meglio di chiunque altro. Tu sei un grande capo militare. Senza le tue lezioni,
non saremmo probabilmente riusciti a vincervi”.
“Voi avete imparato a imitarci”, replica il romano.
Vercingetorige non rileva la provocazione e prosegue:
“Cesare, mi dispiace che noi ci ritroviamo qui in
circostanze che né tu né io avremmo previsto quando eravamo amici”.
“Cesare ha subito uno scacco”, risponde il
prigioniero, “Ma Roma non ha perso la partita. Vincerà, nessuno a lungo termine
può resistere alla sua potenza. Tu hai sentito parlare di Cartagine. Questa
città dominava il mare e i territori sul mare. Roma l'ha distrutta, non ne è
restata pietra su pietra. Quanto pesa la Gallia con le sue tribù litigiose
rispetto a Cartagine? Tu credi che tutta la Gallia ti segua o ti seguirà. Hai
un bel praticare la terra bruciata, distruggere i raccolti, incendiare i granai
per affamarci. Che speranza ha Vercingetorige quando Annibale ha fallito?
Cartagine non esiste più, Roma sarà la padrona del mondo. La sua marcia verso
l'imperium mundi è irresistibile”.
“Cesare, tu e io ci conosciamo troppo bene per
mentirci. Tu non sei soltanto un grande capo militare, tu hai un destino
politico. Roma e il mondo conoscono la tua eloquenza. Tu hai seguito
l'insegnamento dei retori, tu hai il senso della formula, ma in quest'arte
anche i Galli si difendono”.
“Te lo riconosco, sono dotati per la retorica, e tu
hai frequentato la scuola dei druidi”.
“Si, Cesare, ma qui sono io, il Gallo, che parla il
linguaggio della realtà, quello della tua disfatta”.
“Insomma, Gallo, cosa vuoi da me?”
“Che tu riconosca i fatti. Tu sei stato già sconfitto
davanti a Gergovia, sei stato sconfitto davanti ad Alesia. Sono già passati più
di sette anni dal tuo arrivo in Gallia. Sono più di sette anni che ti sforzi di
combatterci. Nel frattempo, la situazione è profondamente cambiata. Unita, la
nazione gallica fa indietreggiare Roma, non sarà sottomessa dall'ascia dei
littori, ritroverà il suo onore e la sua libertà”.
“La nazione gallica? Che significa? Io non vedo che
una fragile coalizione di tribù disparate, antagoniste, riunite al solo scopo
di opporsi a Roma. Non basta riunirsi presso i Carnuti e pronunciare dei
giuramenti solenni attorno a dei trofei di cinghiale. Il successo della vostra
insurrezione sarà senza domani. Quando il pericolo vi sembrerà scomparso, voi
ritornerete alle vostre discordie.
Le città si staccheranno dal tuo potere, diffidano di
te come diffidano di tutti i nobili che aspirano all'autorità suprema”.
Cesare ebbe l'impressione di aver segnato un punto, il
suo avversario si era di colpo irrigidito.
“Non devi nascondertelo, sospettose e ribelli ti
abbandoneranno, e quando la sorte non ti sarà più favorevole, ti consegneranno
al vincitore, ai Germani che per i vostri sbagli si fanno spazio in Gallia e
che se voi persistete nell'errore, un giorno vi domineranno. Solo Roma vi può
difendere da questo pericolo. Vi assicurerà i benefici della sua pace, e voi
parteciperete alla sua gloria”.
“Perdonami Cesare, ma non siamo nel foro. Tu non metti
in gioco la tua carriera di tribuno ma la tua vita”.
“Essa è al servizio di Roma”.
“Che oratoria! Ascoltami! Cesare, dopo Alesia la mia
autorità non è più contestata. Io ho tutti i poteri, compreso quello di
liberarti...Aspetta prima di protestare. Oggi come ieri sei promesso a un
destino eccezionale. Tu sai meglio di chiunque altro raddrizzare una
situazione. Tu sei abile. Questa eccezionale eloquenza che ho sottolineato ti
permetterà all'istante di volgere l'opinione in tuo favore. Tu riporterai altre
vittorie che faranno dimenticare Alesia. Tu disponi a Roma di numerose amicizie
e di una clientela. Ti appoggerai sul popolo che non chiede che di ascoltarti”.
Cesare non ebbe un fremito.
Vercingetorige proseguì:
“Per liberarti, non metto che una condizione, tu
rientrerai a Roma e dirai al Senato: “Io vengo perché ho visto e ne sono
convinto. La nazione gallica ormai esiste. Qual'è il nostro interesse? Cosa
abbiamo da guadagnare a volerla asservire? E' più saggio e più profittevole
riconoscerla e concludere con essa trattati di amicizia secondo termini che
rispetteranno il suo onore e la sua indipendenza. Così ci risparmieremo una
guerra...”. Ti ascolteranno, non lo dubito. Queste sono le mie condizioni,
Cesare, non chiedo di più”.
“Gallo, tu mi insulti se credi per un istante che Caio
Giulio Cesare passerà sotto le tue forche caudine”.
“Io ti propongo un'alleanza, Cesare, alla pari”.
Cesare non fa una piega.
“Pensaci bene, poco fa hai parlato dei Germani. E'
vero che abbiamo lo stesso nemico. Anche per voi costituiscono una minaccia. Un
giorno che non è forse così lontano, sommergeranno le vostre frontiere e
metteranno di nuovo Roma a sacco. Voi avete conservato un brutto ricordo del
passaggio dei nostri fratelli e del riscatto di mille libbre d'oro che gli
avete dovuto versare. Tu conosci la ferocia dei Germani, la loro occupazione
sarà infinitamente più crudele. Contro questo pericolo la nostra alleanza vi
proteggerà. L'avvenire è nelle tue mani, Cesare, io ti lascio un giorno per
riflettere. Domani verrò a prendere il tuo responso”.
“Sarà lo stesso di oggi”.
“A domani, Cesare!”
Il romano salutò con un cenno del capo il guerriero che
si avvolgeva nel mantello prima di lasciare la cella.
Un'altra notte trascorse senza che Cesare trovasse il
sonno. Di mattina presto il gallo cantò di nuovo, per due volte. Presto
Vercingetorige sarebbe tornato. Invano. Come poteva credere che Cesare si
sarebbe umiliato per salvarsi la pelle? Domandare grazia? Follemente
orgoglioso, questo Gallo. Il successo di Alesia gli aveva montato la testa. Si
attribuiva a Vercingetorige l'ambizione di invadere la Narbonese, romanizzata
da sessant'anni, di allearsi con quei Germani che pretendeva di denunciare per
invadere l'Italia, bisognava fare di tutto per evitare questo disastro.
Cesare conosceva bene Vercingetorige, figlio di
Celtillos, un capo arverno giustiziato dai suoi venti anni prima perché
aspirava alla regalità. Ieri il giovane nobile aveva accusato il colpo quando
Cesare aveva fatto allusione a quella morte. Il giovane manifestava una grande
maturità, un coraggio, un'intelligenza politica, un'arte militare eccezionale.
Se gli fosse stato lasciato campo libero, avrebbe finito per accordarsi con
certi senatori romani il cui opportunismo non aveva bisogno di dimostrazioni.
Fortunatamente l'intransigenza di Cesare e il suo sacrificio avrebbero impedito
ogni compromesso. Roma sarebbe stata protetta, Cesare avrebbe avuto un posto
eminente nel pantheon dei martiri, e la Gallia sarebbe stata sottomessa.
Da qualche parte, delle oche si misero a starnazzare,
curioso a quell'ora della notte. Cesare si ricordò del Campidoglio che quei
volatili avevano salvato un tempo, al momento dell'attacco gallico.
Un rumore echeggiò nella strada che si rischiarò
all'improvviso di un luccicare di torce.
Di nuovo dei passi nel corridoio, Vercingetorige non
aveva atteso il giorno.
Uno squillo di trombe lacera la notte.
La porta della cella si apre su un personaggio in
tenuta da campagna che solleva il braccio e saluta alla romana.
“Ave Cesare. Lucio Caio Pandano della terza legione.
Generale, sei libero. Tito Labieno e i suoi uomini stanno per raggiungerci.
Abbiamo attaccato il punto debole di Gergovia”.
“Il retro della collina”.
“Si, generale, abbiamo penetrato le difese ed eccoci.
Vercingetorige ha trovato la morte in combattimento. Avendo perduto il loro
capo, i barbari si sono demoralizzati, si sono dispersi. Alesia doveva cancellare
Gergovia. Ora Gergovia cancella Alesia.
Cesare apprezza la formula.
“Se tutto va come previsto”, riprende
l'ufficiale, “Fra qualche giorno
attraverserai il Rubicone da vincitore”.
Cesare si disse all'improvviso che avrebbe potuto
scrivere quel De Bello Gallico che aveva a cuore. Certo, aveva tolto
l'assedio ad Alesia di fronte alla schiacciante superiorità numerica del
nemico, ma questa abile manovra aveva permesso la vittoria di Gergovia. Da
vincitore generoso, avrebbe reso omaggio al valore di Vercingetorige morto con
la spada in mano. Nell'attesa del Rubicone di lì a tre giorni. Perché no?
Che cosa c'era scritto su quel muro?
Ah si!
ALEA IACTA EST.
Cesare se ne sarebbe ricordato.
(Traduzione dal francese di Fabio Calabrese)
Da grande ammiratore della narrativa di Pierre Jean non posso che sottolineare la grande bellezza di questo scritto, reso magificamente in italiano dall'ottima traduzione di Fabio.
RispondiEliminaBellissimo racconto di Pierre Jean, con il suo sfondo storico e
RispondiEliminagrandi personaggi. Un maestro della narrativa.