mercoledì 26 novembre 2014

LUIS di Peppe Murro



Sapeva che doveva morire. E non era, come capita a molti, perché il suo corpo sfamava il tumore che lo divorava, né per il gesto cieco e incomprensibile di un dio distratto. Nè per un cuore stanco dei suoi giorni: chi lo avrebbe ucciso lo stava in quel momento guardando, dritto davanti a lui, dietro una cicca di sigaretta quasi incollata ad un bocchino d'osso nero, gli occhiali scuri semicoperti da una visiera militare. È il mio boia, pensò, dopo essere  stato il mio infaticabile torturatore.
Lo guardava e i suoi pensieri  tumefatti quasi si rifiutavano di ricordare le torture e quella faccia sfigurata e soddisfatta nel dargli dolore, quelle labbra serrate come lame: botte, manganello, scosse elettriche... neppure ricordava le sue urla, le mille volte che aveva chiesto a quel dio impietoso di farlo morire senza altro dolore. Ora era finita, lo vedeva dal suo sguardo, lo sentiva dalle spinte di chi col calcio del fucile gli imponeva di sbrigarsi.
 Forse fece un grosso respiro, forse fu solo un desiderio: fuori, respirare, libero...fra poco sarebbe stato finalmente libero, sarebbe sfuggito per sempre ai suoi aguzzini, non avrebbe più sentito né dolore né paura. Anche se a questa aveva rinunciato da tempo, da quando chiese perché? e nessuno gli diede risposte; anzi, la sola risposta fu un calcio di fucile in faccia. Capì allora di essere solo una preda, un animale che per qualche ragione andava al macello. Ma lentamente, come usavano promettere i suoi carcerieri.
Non c'erano più voci, nessuno più si lamentava. Quel buio di muri era popolato di morti che respiravano, in attesa di essere cancellati anche come morti.
 Lo traversò di colpo il ricordo dei suoi banchi di scuola, di come bisbigliavano nel piacere del proibito, quando quella maestra, consumata dietro gli occhiali  e lo stesso vestito di ogni giorno, si voltava dall'altra parte; si ricordò di come gli battevano le tempie, mentre fuggiva tra i giardini dell'università e grida rozze e rauche  lo inseguivano; ricordò il sapore del terriccio in bocca e il peso degli stivali sul collo fino a togliergli il respiro.
 Si ricordò che stava morendo, con altri agnelli pasquali offerti in sacrificio alla belva...viva la libertà, io sono libero , si disse come per sfida o per consolazione, ma moriremo tutti, senza vendetta, senza giustizia.


L'ultima cosa che vide, prima che i farmaci lo stordissero, impedendogli persino l'ultimo grido, fu un aereo in disparte e una fila di vittime disperate che venivano spinte dentro un container. Ci seppellirano lì , pensò, perché non abbiamo più storia. Avremo nomi muti, nomi d'acqua e di vento, ma io sono Luis...


Stava per morire, i pensieri si offuscavano. Chinò la testa.
 Si disse piano, lentamente, con tutta la forza che poteva: io sono Luis, io sono Luis, io sono...
Il container affondò subito nel buio.

Sotto, l'Atlantico  ululava di burrasca alle creature marine, ai mostri umani.


3 commenti:

  1. Drammatici, intensi e come sempre poetici, gli scritti di Peppe.

    RispondiElimina
  2. Triste racconto che conmuove e che fa ricordare gli avvenimenti nel Autunno del Patriarca di García Marquez.

    RispondiElimina
  3. Drammatica narrazione, ricca di suspense. Riesce a comunicare un senso di angoscia e la tristezza che accompagna la morte.

    Giuseppe Novellino

    RispondiElimina