Sapeva che doveva
morire. E non era, come capita a molti, perché il suo corpo sfamava il tumore
che lo divorava, né per il gesto cieco e incomprensibile di un dio distratto.
Nè per un cuore stanco dei suoi giorni: chi lo avrebbe ucciso lo stava in quel
momento guardando, dritto davanti a lui, dietro una cicca di sigaretta quasi
incollata ad un bocchino d'osso nero, gli occhiali scuri semicoperti da una
visiera militare. È il mio boia, pensò, dopo essere stato il mio infaticabile torturatore.
Lo guardava e i suoi
pensieri tumefatti quasi si rifiutavano
di ricordare le torture e quella faccia sfigurata e soddisfatta nel dargli
dolore, quelle labbra serrate come lame: botte, manganello, scosse elettriche...
neppure ricordava le sue urla, le mille volte che aveva chiesto a quel dio
impietoso di farlo morire senza altro dolore. Ora era finita, lo vedeva dal suo
sguardo, lo sentiva dalle spinte di chi col calcio del fucile gli imponeva di
sbrigarsi.
Forse fece un grosso respiro, forse fu solo un
desiderio: fuori, respirare, libero...fra poco sarebbe stato finalmente libero,
sarebbe sfuggito per sempre ai suoi aguzzini, non avrebbe più sentito né dolore
né paura. Anche se a questa aveva rinunciato da tempo, da quando chiese perché? e nessuno gli diede risposte;
anzi, la sola risposta fu un calcio di fucile in faccia. Capì allora di essere
solo una preda, un animale che per qualche ragione andava al macello. Ma
lentamente, come usavano promettere i suoi carcerieri.
Non c'erano più voci,
nessuno più si lamentava. Quel buio di muri era popolato di morti che
respiravano, in attesa di essere cancellati anche come morti.
Lo traversò di colpo il ricordo dei suoi
banchi di scuola, di come bisbigliavano nel piacere del proibito, quando quella
maestra, consumata dietro gli occhiali e
lo stesso vestito di ogni giorno, si voltava dall'altra parte; si ricordò di
come gli battevano le tempie, mentre fuggiva tra i giardini dell'università e
grida rozze e rauche lo inseguivano;
ricordò il sapore del terriccio in bocca e il peso degli stivali sul collo fino
a togliergli il respiro.
Si ricordò che stava morendo, con altri
agnelli pasquali offerti in sacrificio alla belva...viva la libertà, io sono
libero , si disse come per sfida o per consolazione, ma moriremo tutti, senza
vendetta, senza giustizia.
L'ultima cosa che vide,
prima che i farmaci lo stordissero, impedendogli persino l'ultimo grido, fu un
aereo in disparte e una fila di vittime disperate che venivano spinte dentro un
container. Ci seppellirano lì , pensò, perché non abbiamo più storia. Avremo
nomi muti, nomi d'acqua e di vento, ma io sono Luis...
Stava per morire, i
pensieri si offuscavano. Chinò la testa.
Si disse piano, lentamente, con tutta la forza
che poteva: io sono Luis, io sono Luis,
io sono...
Il container affondò
subito nel buio.
Sotto, l'Atlantico ululava di burrasca alle creature marine, ai
mostri umani.
Drammatici, intensi e come sempre poetici, gli scritti di Peppe.
RispondiEliminaTriste racconto che conmuove e che fa ricordare gli avvenimenti nel Autunno del Patriarca di García Marquez.
RispondiEliminaDrammatica narrazione, ricca di suspense. Riesce a comunicare un senso di angoscia e la tristezza che accompagna la morte.
RispondiEliminaGiuseppe Novellino