Quando sono arrivato nella mia stanza, ho guardato
la sveglietta dal quadrante luminoso (un piccolo oggetto che di questi tempi è
anch'esso diventato un lusso): segnava quasi mezzanotte. Ho regolato la
suoneria sulle quattro e mi sono buttato sul letto senza nemmeno spogliarmi,
per riuscire a fare qualche ora di sonno.
Il trillo è arrivato – così mi è parso – pochi istanti dopo, fragoroso come una mazzata. Possibile che fossero già trascorse quattro ore del mio prezioso sonno?
Le lancette implacabili sul quadrante mi dicevano che era proprio così.
Ieri sera sono stato allo spazioporto ad accogliere il solito carico di turisti e viaggiatori, poi naturalmente, una volta arrivato in albergo, c'è stato il solito daffare per sistemare gli ospiti ed i loro bagagli nelle rispettive camere e, dopo un boccone di cena, mi sono buttato sul letto stanchissimo.
Mi infilo le scarpe che ho lasciato ai piedi del letto.
Pochi istanti fa era ancora stasera o ieri sera, e adesso è già domattina o stamane.
So che non dovrei lamentarmi, le condizioni sono dure per tutti, e la fortuna – la grazia – è già quello di averlo, un lavoro.
Vado in cucina a prepararmi una tazza di caffè che ingoio bollente, poi la mia giornata ricomincia con il solito ritmo insieme abitudinario e frenetico.
Per prima cosa, scendo nella rimessa a controllare il pulmino. Meno male che ieri era una giornata soleggiata, ed i pannelli fotovoltaici hanno provveduto a ricaricare a dovere le batterie. Per fortuna che nell’alta stagione di giornate piovose o nuvolose ne capitano poche, perché in quei giorni gli accumulatori del mezzo, che non sono della qualità migliore, stentano a fornire l’energia necessaria, e il veicolo procede piano, a scatti, qualche volta non parte proprio. Certo, ai vecchi tempi quando c’erano la benzina, la nafta, i combustibili liquidi, le cose dovevano essere più facili.
Sono risalito. Barbara era in piedi già pronta con la divisa impeccabile, e stava meticolosamente svegliando i turisti arrivati il giorno prima, bussando alla porta di una camera dopo l'altra.
Le ho cinto la vita con un braccio.
Mi ha guardato di traverso.
“Dai, Carlo”, mi ha detto, “ti sembra il momento?”
Però non sembrava troppo dispiaciuta.
Dall’altra parte delle porte, i turisti cominciavano ad alzarsi protestando per la levataccia … ma anche questo, come al solito, faceva parte del rituale: avevano avuto ventiquattro ore di tempo per smaltire qualsiasi jet-lag ed astro-lag, le stesse ventiquattro ore che Barbara ed io abbiamo passato sgobbando come al solito, tranne qualche spicciolo di sonno.
È tutta gente che viene dalla Luna, da Marte, dalle colonie dei satelliti di Giove e dagli Asteroidi. Ormai a vivere sul pianeta madre, sporco, impoverito, inquinato, ci sono rimasti i poveracci come noi.
I turisti cominciarono a dirigersi verso il salone dove li aspettava una colazione rapida, mentre io mi avviavo verso il mezzo, il pulmino di cui volevo verificare una volta di più l’efficienza. Ero fortunato: ieri era stata una bella giornata soleggiata e le batterie di alimentazione si erano caricate a dovere; ciò nonostante, il pullman faticò un po’ ad avviarsi: non c’era niente da fare, ormai aveva i suoi anni.
Poi è arrivata Barbara seguita dal codazzo dei turisti che sciamavano festosi ed indisciplinati: la solita folla schiamazzante e maleducata dai vestiti sgargianti, e spesso gli accostamenti di colore più stridenti si notano indosso agli uomini, non alle donne. Anche quelli più tranquilli hanno quell’aria vagamente strafottente di chi pensa che con un buon conto in banca ci si può permettere tutto, e purtroppo hanno ragione.
Come al solito, quelli delle colonie marziane si riconoscono a colpo d’occhio: quando sono lontano da casa amano vestire sempre di verde e di azzurro: dalle loro parti la luce è rossastra, ed il verde e l’azzurro assumono una smorta tonalità grigio – polvere.
Come sempre, saliamo in direzione del borgo, il vecchio centro storico che, come succede spesso nelle località di origine medievale, si trova proprio sulla sommità della collina.
Oltrepasso quella che una volta era la porta delle antiche mura. Una volta la strada e la porta erano così strette che un pulmino come il mio sarebbe passato a malapena, tanto più se s'incrociava un veicolo che scendeva in senso inverso, ma naturalmente adesso i segni di vernice bianca tracciati per terra non creano alcun ostacolo.
Siamo sul belvedere, la sommità del borgo che guarda la vallata. Ci siamo fermati sul lato orientale. Parcheggio e faccio scendere i gitanti aiutato da Barbara. Guardo l'orologio: dovremmo essere giusti con i tempi.
Il chiarore che s'intravede ad est si fa sempre più luminoso, ed una fetta di sole rossastro inizia a spuntare da dietro la sommità della collina prospiciente, poi s'ingrandisce e sale sempre di più nel cielo scuro che passa dal nero – violaceo al blu cobalto striato di sfumature rossastre, poi ad un azzurro sempre più luminoso.
Agli “Ohhh!” ed agli “Ahhh!” del gruppo dei turisti fanno da contrappunto il ronzio delle videocamere ed i clic degli apparecchi fotografici.
Se non fosse perché non mi sono perso nemmeno un'alba o un tramonto negli ultimi dodici anni, potrei ammettere anch'io che è uno spettacolo magnifico.
Mentre il sole sale alto nel cielo sempre più luminoso, arriva la parte peggiore della giornata. Siamo risaliti sul pulmino, ed a velocità molto moderata, facciamo il giro del borgo. In questi momenti mi fa pena soprattutto Barbara che tenta vanamente, una volta di più, di mettere a frutto la sua laurea in storia dell'arte, con una descrizione meticolosa della basilica, del castello, dei vari monumenti accompagnata da informazioni storiche ed analisi della loro evoluzione stilistica.
I turisti fingono di ascoltare con aria distratta o semplicemente la ignorano: la visita ai monumenti è inclusa nel pacchetto turistico, ma sappiamo tutti che non è per questo che sono venuti.
E d'altra parte, come dar loro torto? Eccola lì la cattedrale: tre grandi rettangoli tracciati al suolo con la vernice bianca in modo da evidenziare la planimetria delle navate, più qualche pietra e qualche spezzone di muro incredibilmente corroso che spunta qua e là dal terreno. Di fianco c'è una grande buca rettangolare che la pioggia ha riempito di acqua putrida: il campanile, o ciò che rimane delle sue fondamenta.
Il castello e gli altri monumenti sono più o meno nelle stesse condizioni: delle statue, dei quadri, degli affreschi, dei bassorilievi rimangono solo le foto nei cataloghi: l'inquinamento si è mangiato tutto quello che non è rimasto vittima di atti vandalici.
Finalmente siamo rientrati per il pranzo e per le prime ore pomeridiane, che sono le uniche veramente libere della giornata che Barbara ed io abbiamo quando non è in arrivo una nuova comitiva di turisti.
Eravamo seduti nella saletta riservata al personale, Barbara ed io, a consumare un pranzo molto meno sfizioso di quello apparecchiato per i turisti nel salone adiacente. Tra una portata e l'altra, abbiamo parlato a lungo, ma non siamo riusciti ad arrivare a una decisione.
È una bella donna, Barbara, mi attrae molto. Quanto a me, penso di non avere un aspetto sgradevole e non soffro neppure di alitosi. Andiamo d'accordo, ormai è un bel pezzo che lavoriamo quotidianamente gomito a gomito: mi trovo bene con lei, le voglio bene, e credo che per lei valga la stessa cosa. Dovremmo pensare al matrimonio, od almeno a una convivenza ma – ci siamo chiesti – riusciremmo a trovare gli spazi per una maggiore intimità, una maggiore privacy di quel poco che abbiamo ora?
Questo lavoro impone ritmi forsennati, eppure non ci possiamo lamentare, siamo tra i pochi privilegiati che un lavoro ce l'hanno, invece di far parte della folla di disoccupati miserabili che vive di espedienti.
Mettere in tavola la questione del matrimonio significa anche, implicitamente, venire a parlare di figli. Vale la pena di mettere al mondo delle creature, in un mondo che si fa di giorno in giorno più povero e più misero, e dove la vita è sempre più precaria?
Il trillo è arrivato – così mi è parso – pochi istanti dopo, fragoroso come una mazzata. Possibile che fossero già trascorse quattro ore del mio prezioso sonno?
Le lancette implacabili sul quadrante mi dicevano che era proprio così.
Ieri sera sono stato allo spazioporto ad accogliere il solito carico di turisti e viaggiatori, poi naturalmente, una volta arrivato in albergo, c'è stato il solito daffare per sistemare gli ospiti ed i loro bagagli nelle rispettive camere e, dopo un boccone di cena, mi sono buttato sul letto stanchissimo.
Mi infilo le scarpe che ho lasciato ai piedi del letto.
Pochi istanti fa era ancora stasera o ieri sera, e adesso è già domattina o stamane.
So che non dovrei lamentarmi, le condizioni sono dure per tutti, e la fortuna – la grazia – è già quello di averlo, un lavoro.
Vado in cucina a prepararmi una tazza di caffè che ingoio bollente, poi la mia giornata ricomincia con il solito ritmo insieme abitudinario e frenetico.
Per prima cosa, scendo nella rimessa a controllare il pulmino. Meno male che ieri era una giornata soleggiata, ed i pannelli fotovoltaici hanno provveduto a ricaricare a dovere le batterie. Per fortuna che nell’alta stagione di giornate piovose o nuvolose ne capitano poche, perché in quei giorni gli accumulatori del mezzo, che non sono della qualità migliore, stentano a fornire l’energia necessaria, e il veicolo procede piano, a scatti, qualche volta non parte proprio. Certo, ai vecchi tempi quando c’erano la benzina, la nafta, i combustibili liquidi, le cose dovevano essere più facili.
Sono risalito. Barbara era in piedi già pronta con la divisa impeccabile, e stava meticolosamente svegliando i turisti arrivati il giorno prima, bussando alla porta di una camera dopo l'altra.
Le ho cinto la vita con un braccio.
Mi ha guardato di traverso.
“Dai, Carlo”, mi ha detto, “ti sembra il momento?”
Però non sembrava troppo dispiaciuta.
Dall’altra parte delle porte, i turisti cominciavano ad alzarsi protestando per la levataccia … ma anche questo, come al solito, faceva parte del rituale: avevano avuto ventiquattro ore di tempo per smaltire qualsiasi jet-lag ed astro-lag, le stesse ventiquattro ore che Barbara ed io abbiamo passato sgobbando come al solito, tranne qualche spicciolo di sonno.
È tutta gente che viene dalla Luna, da Marte, dalle colonie dei satelliti di Giove e dagli Asteroidi. Ormai a vivere sul pianeta madre, sporco, impoverito, inquinato, ci sono rimasti i poveracci come noi.
I turisti cominciarono a dirigersi verso il salone dove li aspettava una colazione rapida, mentre io mi avviavo verso il mezzo, il pulmino di cui volevo verificare una volta di più l’efficienza. Ero fortunato: ieri era stata una bella giornata soleggiata e le batterie di alimentazione si erano caricate a dovere; ciò nonostante, il pullman faticò un po’ ad avviarsi: non c’era niente da fare, ormai aveva i suoi anni.
Poi è arrivata Barbara seguita dal codazzo dei turisti che sciamavano festosi ed indisciplinati: la solita folla schiamazzante e maleducata dai vestiti sgargianti, e spesso gli accostamenti di colore più stridenti si notano indosso agli uomini, non alle donne. Anche quelli più tranquilli hanno quell’aria vagamente strafottente di chi pensa che con un buon conto in banca ci si può permettere tutto, e purtroppo hanno ragione.
Come al solito, quelli delle colonie marziane si riconoscono a colpo d’occhio: quando sono lontano da casa amano vestire sempre di verde e di azzurro: dalle loro parti la luce è rossastra, ed il verde e l’azzurro assumono una smorta tonalità grigio – polvere.
Come sempre, saliamo in direzione del borgo, il vecchio centro storico che, come succede spesso nelle località di origine medievale, si trova proprio sulla sommità della collina.
Oltrepasso quella che una volta era la porta delle antiche mura. Una volta la strada e la porta erano così strette che un pulmino come il mio sarebbe passato a malapena, tanto più se s'incrociava un veicolo che scendeva in senso inverso, ma naturalmente adesso i segni di vernice bianca tracciati per terra non creano alcun ostacolo.
Siamo sul belvedere, la sommità del borgo che guarda la vallata. Ci siamo fermati sul lato orientale. Parcheggio e faccio scendere i gitanti aiutato da Barbara. Guardo l'orologio: dovremmo essere giusti con i tempi.
Il chiarore che s'intravede ad est si fa sempre più luminoso, ed una fetta di sole rossastro inizia a spuntare da dietro la sommità della collina prospiciente, poi s'ingrandisce e sale sempre di più nel cielo scuro che passa dal nero – violaceo al blu cobalto striato di sfumature rossastre, poi ad un azzurro sempre più luminoso.
Agli “Ohhh!” ed agli “Ahhh!” del gruppo dei turisti fanno da contrappunto il ronzio delle videocamere ed i clic degli apparecchi fotografici.
Se non fosse perché non mi sono perso nemmeno un'alba o un tramonto negli ultimi dodici anni, potrei ammettere anch'io che è uno spettacolo magnifico.
Mentre il sole sale alto nel cielo sempre più luminoso, arriva la parte peggiore della giornata. Siamo risaliti sul pulmino, ed a velocità molto moderata, facciamo il giro del borgo. In questi momenti mi fa pena soprattutto Barbara che tenta vanamente, una volta di più, di mettere a frutto la sua laurea in storia dell'arte, con una descrizione meticolosa della basilica, del castello, dei vari monumenti accompagnata da informazioni storiche ed analisi della loro evoluzione stilistica.
I turisti fingono di ascoltare con aria distratta o semplicemente la ignorano: la visita ai monumenti è inclusa nel pacchetto turistico, ma sappiamo tutti che non è per questo che sono venuti.
E d'altra parte, come dar loro torto? Eccola lì la cattedrale: tre grandi rettangoli tracciati al suolo con la vernice bianca in modo da evidenziare la planimetria delle navate, più qualche pietra e qualche spezzone di muro incredibilmente corroso che spunta qua e là dal terreno. Di fianco c'è una grande buca rettangolare che la pioggia ha riempito di acqua putrida: il campanile, o ciò che rimane delle sue fondamenta.
Il castello e gli altri monumenti sono più o meno nelle stesse condizioni: delle statue, dei quadri, degli affreschi, dei bassorilievi rimangono solo le foto nei cataloghi: l'inquinamento si è mangiato tutto quello che non è rimasto vittima di atti vandalici.
Finalmente siamo rientrati per il pranzo e per le prime ore pomeridiane, che sono le uniche veramente libere della giornata che Barbara ed io abbiamo quando non è in arrivo una nuova comitiva di turisti.
Eravamo seduti nella saletta riservata al personale, Barbara ed io, a consumare un pranzo molto meno sfizioso di quello apparecchiato per i turisti nel salone adiacente. Tra una portata e l'altra, abbiamo parlato a lungo, ma non siamo riusciti ad arrivare a una decisione.
È una bella donna, Barbara, mi attrae molto. Quanto a me, penso di non avere un aspetto sgradevole e non soffro neppure di alitosi. Andiamo d'accordo, ormai è un bel pezzo che lavoriamo quotidianamente gomito a gomito: mi trovo bene con lei, le voglio bene, e credo che per lei valga la stessa cosa. Dovremmo pensare al matrimonio, od almeno a una convivenza ma – ci siamo chiesti – riusciremmo a trovare gli spazi per una maggiore intimità, una maggiore privacy di quel poco che abbiamo ora?
Questo lavoro impone ritmi forsennati, eppure non ci possiamo lamentare, siamo tra i pochi privilegiati che un lavoro ce l'hanno, invece di far parte della folla di disoccupati miserabili che vive di espedienti.
Mettere in tavola la questione del matrimonio significa anche, implicitamente, venire a parlare di figli. Vale la pena di mettere al mondo delle creature, in un mondo che si fa di giorno in giorno più povero e più misero, e dove la vita è sempre più precaria?
* * *
Dopo aver trascorso un paio d'ore di riposo
prezioso, si ripete la stessa routine della mattina, torno di nuovo a
controllare il pulmino che è rimasto all'aperto sotto la tettoia con i pannelli
fotovoltaici, con il cavo di alimentazione collegato in modo da ricaricare le
batterie. Ai vecchi tempi, mi viene da pensare per l'ennesima volta, quando
c'era la benzina le cose dovevano essere più semplici.
Poco più tardi mi raggiunge Barbara con i turisti, solo che stavolta è l'altro gruppo, quello che stamane è rimasto nelle camere a riposare.
Rifacciamo la stessa strada di stamattina, su al borgo, e non importa niente a nessuno se sono passato sopra il monumento equestre di un condottiero, o meglio il luogo dove dovrebbe essere, che materialmente non è segnato altro che da un ovale irregolare tracciato con la vernice bianca per terra.
Stavolta parcheggio dal lato occidentale del poggio. Controllo l'orologio: siamo in perfetto orario; ormai ho sviluppato una sensibilità istintiva per la tempistica.
Barbara fa scendere i turisti che si accalcano vicino al parapetto del poggio, con l'occhio rivolto verso le colline occidentali. Lo spettacolo sta per avere inizio.
Il sole grande e rossastro, basso nel cielo, scende lentamente a lambire la sommità delle colline che s'imporporano di riflessi rossastri, così come si tingono di rosso – dorato le rade nubi.
Mentre il sole si abbassa sempre di più assumendo l'aspetto di una falce sempre più schiacciata che incornicia le colline a occidente, il cielo assume tutte le sfumature del violaceo dal porpora all'indaco in un tripudio di colori che toglie il fiato, poi, quando l'ultimo barbaglio rossastro si cela dietro i colli laggiù, incomincia ad imbrunire.
Per tutto il tempo, lo spettacolo è accompagnato da grandi “Ahhh!” ed “Ohhh!” di meraviglia, dal ronzio delle videocamere e dai flash degli apparecchi fotografici. I turisti avranno qualcosa di cui parlare e da far vedere agli amici, una volta tornati nell'ambiente asettico delle colonie extraterrestri.
Mentre comincia ad imbrunire e la luminosità cala rapidamente, torniamo al pulmino. Vorrei riuscire a fare un tratto di strada prima che venga del tutto buio, e risparmiare un po' i fari ed il consumo delle batterie.
L'aria è piena di idrocarburi e polveri sottili, è questo a dare alle nostre albe ed ai nostri tramonti un aspetto così spettacolare e ricco di sfumature suggestive: il residuo di tutti i combustibili fossili che i nostri antenati hanno consumato fino all'ultima goccia.
Questa stessa atmosfera ci avvelena lentamente, ma è tutto quel che ci rimane, tutto ciò che abbiamo.
Poco più tardi mi raggiunge Barbara con i turisti, solo che stavolta è l'altro gruppo, quello che stamane è rimasto nelle camere a riposare.
Rifacciamo la stessa strada di stamattina, su al borgo, e non importa niente a nessuno se sono passato sopra il monumento equestre di un condottiero, o meglio il luogo dove dovrebbe essere, che materialmente non è segnato altro che da un ovale irregolare tracciato con la vernice bianca per terra.
Stavolta parcheggio dal lato occidentale del poggio. Controllo l'orologio: siamo in perfetto orario; ormai ho sviluppato una sensibilità istintiva per la tempistica.
Barbara fa scendere i turisti che si accalcano vicino al parapetto del poggio, con l'occhio rivolto verso le colline occidentali. Lo spettacolo sta per avere inizio.
Il sole grande e rossastro, basso nel cielo, scende lentamente a lambire la sommità delle colline che s'imporporano di riflessi rossastri, così come si tingono di rosso – dorato le rade nubi.
Mentre il sole si abbassa sempre di più assumendo l'aspetto di una falce sempre più schiacciata che incornicia le colline a occidente, il cielo assume tutte le sfumature del violaceo dal porpora all'indaco in un tripudio di colori che toglie il fiato, poi, quando l'ultimo barbaglio rossastro si cela dietro i colli laggiù, incomincia ad imbrunire.
Per tutto il tempo, lo spettacolo è accompagnato da grandi “Ahhh!” ed “Ohhh!” di meraviglia, dal ronzio delle videocamere e dai flash degli apparecchi fotografici. I turisti avranno qualcosa di cui parlare e da far vedere agli amici, una volta tornati nell'ambiente asettico delle colonie extraterrestri.
Mentre comincia ad imbrunire e la luminosità cala rapidamente, torniamo al pulmino. Vorrei riuscire a fare un tratto di strada prima che venga del tutto buio, e risparmiare un po' i fari ed il consumo delle batterie.
L'aria è piena di idrocarburi e polveri sottili, è questo a dare alle nostre albe ed ai nostri tramonti un aspetto così spettacolare e ricco di sfumature suggestive: il residuo di tutti i combustibili fossili che i nostri antenati hanno consumato fino all'ultima goccia.
Questa stessa atmosfera ci avvelena lentamente, ma è tutto quel che ci rimane, tutto ciò che abbiamo.
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