Non era possibile distinguere la linea
dell’orizzonte, l’acqua grigia e plumbea si saldava, senza apparente soluzione
di continuità, al cielo grigio, ammantato di foschia, solo il leggero rollio
del ponte sotto i piedi, ed il ritmico sciabordio delle onde contro la
superficie metallica dello scafo, davano la sensazione di non essere perduti in
un nulla nebbioso ed ovattato.
Il tenente De Almeida posò il binocolo e si rivolse
al capo Okigawa.
«Allora», domandò, «Le previsioni meteorologiche
per oggi?»
«Situazione stabile, signore», rispose il
sottufficiale, un piccolo giapponese magro e legnoso, «Foschie in mattinata e
qualche annuvolamento nel pomeriggio, ma non sono previste precipitazioni.
Calma di vento, mare poco mosso.»
«Meglio così», commentò De Almeida, «Di problemi ne
avremo già fin troppi.»
«Comodi, signori.»
Il tenente ed il nostromo erano automaticamente
scattati sull’attenti all’arrivo del capitano Mills.
«Bene, signori», disse il comandante, «Immagino che
sia tutto pronto per l’avvicendamento. De Almeida, la prego, non stia così
impalato, calcoli che sono già quasi un civile. Quando è previsto l’arrivo
della lancia del capitano Palmer?»
«Tra circa un’ora, signore.»
«Si», concluse il capitano, «Lo so cosa state
pensando, quel Palmer, doveva
capitare proprio sul cacciatorpediniere Georgetown. D’altra parte, è un
ufficiale comandante, e dovevano pur assegnargli un servizio. Andiamo! Il
diavolo non sarà così brutto come lo si dipinge. Ho letto le sue note caratteristiche,
e sembrerebbe un buon ufficiale, prima dell’“incidente” il suo stato di
servizio era ineccepibile.»
Con un gesto semiconscio, De Almeida si raddrizzò
il distintivo di astronauta che, del resto, era appuntato sulla divisa con
precisione quasi matematica, a voler quasi riaffermare la sua appartenenza alla
famiglia di coloro che erano stati nello spazio. Ormai ci aveva fatto l’occhio,
bastava poco per capire: la marina, quella tradizionale, che trascinava le sue
bagnarole per quello sputo d’acqua che copriva i sette decimi del pianeta
natio, era solo un’estensione residuale della marina spaziale, che richiamava
gli uomini e le energie migliori, oltre ai fondi ed alle attrezzature. Certo,
non si poteva competere con il fascino dei Grandi Spazi ed il fascino
dell’avventura su mondi semi inesplorati.
Bastava guardarsi attorno. I capitani di nave
erano, come Mills, ufficiali anziani, non più idonei fisicamente al servizio
spaziale, che finivano di maturare sulle navi l’anzianità per la pensione.
Quanti ne aveva visti avvicendarsi in pochi anni! Gli equipaggi e gli
ufficialetti di complemento, erano tutti ragazzi di leva, che presto se ne
sarebbero andati per i fatti loro con tanti auguri. I sottufficiali, i
nostromi, beh, quelli erano una razza che De Almeida non riusciva a capire:
erano quasi tutti giapponesi, greci o norvegesi, gente che nelle vene doveva
avere acqua salata invece del sangue, discendenti di generazioni di marinai e
pescatori che probabilmente risalivano al neolitico, a cui gli abissi cosmici
non dicevano nulla, ma che potevano vivere solo dove l’aria era intrisa di
vapori salmastri e pervasa dallo stridio dei gabbiani.
Il suo caso, poi, era ancora diverso: aveva passato
tutti i test psicofisici e si era laureato all’Accademia spaziale con il
massimo dei voti. Al decollo del razzo per la sua prima missione operativa, per
poco non ci aveva rimesso la pelle, un raro vizio cardiaco sfuggito a tutti i
test non gli consentiva di sopportare l’accelerazione gravitazionale. Poi sei
mesi di servizio nella stazione orbitale, come da routine, e l’avevano
riportato giù in una costosissima bolla ad animazione sospesa, come una vecchia
signora dalle ossa fragili, e con la consapevolezza che non avrebbe mai più
staccato i piedi dal suolo del pianeta natale; era uno dei pochi ufficiali non
anziani che prestavano servizio imbarcati non sulle navi o le stazioni
spaziali, ma su di una bagnarola acquatica. Col tempo, si era faticosamente
rassegnato ad una carriera meno brillante e ad una vita più monotona di quello
che aveva progettato.
De Almeida sapeva che non c’era nulla da temere da
uomini come Mills, uomini che avevano già realizzato le loro ambizioni o si
erano rassegnati a vederle sfumare, ma Andrew Palmer era una faccenda del tutto
diversa.
La lancia con il nuovo capitano attraccò un’ora più
tardi. Mills e De Almeida sapevano il fatto loro, il cacciatorpediniere Georgetown era tirato a lucido e con il
gran pavese alzato, l’equipaggio era schierato sul ponte in ordine impeccabile.
Andrew Palmer salì sul ponte con passo spedito, era
successo anche a De Almeida: potevi non essere nemmeno salito su di un tronco
nell’acqua di un ruscello, ma quando avevi fatto l’abitudine alle improvvise
variazioni di gravità e di orientamento dello spazio, il rollio ritmico di uno
scafo non ti dava più il minimo disturbo. Senza volerlo, De Almeida non poté
impedirsi di provare un’improvvisa simpatia per Palmer.
Andrew Palmer era un uomo piuttosto giovane, di
statura media, il fisico asciutto, capelli castani, occhi color nocciola, un
volto, per quel che De Almeida poteva giudicare, né brutto né bello, ma non una
faccia anonima, un volto incisivo, determinato.
Dopo il passaggio delle consegne, il capitano Mills
fece visitare a Palmer la nave, poi, dopo aver salutato tutti, salì sulla
stessa lancia che aveva portato Palmer.
Andrew Palmer si voltò verso De Almeida.
«Così è lei il mio secondo», disse, «Grazie al
cielo, avevo temuto di trovare uno di quei vecchietti a cui dover rimboccare le
coperte.»
Roberto De Almeida ricambiò con stupore il suo
sorriso. Nessuno avrebbe potuto meravigliarsi, né biasimarlo troppo, se Palmer
fosse stato un uomo amareggiato dal brutto tiro giocatogli dal destino.
L’incrociatore spaziale Conqueror era classificato come “nave da battaglia”, ma ovviamente nessuno
si aspettava che battaglie ne dovesse sostenere davvero. Ancora ai tempi in cui
esistevano gli stati nazionali, lo spazio extraterrestre era considerato
“patrimonio comune dell’umanità”, dove non era lecito condurre atti di guerra.
Forse un giorno, quando gli uomini fossero riusciti ad addentrarsi nello spazio
esterno al sistema solare, o degli alieni fossero giunti fino alla Terra, ci
sarebbero state battaglie negli spazi, ma per il momento, la razza umana era
riuscita a trovare una pace sia pure precaria con il suo nemico di sempre: se
stessa.
Il Conqueror,
come le altre navi della sua classe era comunque armato di cannoni laser e
missili a testata esplosiva, e faceva bella mostra di sé, con la sua linea
filante ed aggressiva, parcheggiato in orbita lunare. Nel quadrato ufficiali,
il comandante Vojcec aprì la busta sigillata che aveva tolto dalla cassaforte.
«Bene, Palmer», disse rivolto al primo ufficiale,
«Gli ordini sono chiari. Dobbiamo accompagnare la spedizione scientifica Hermes
su Mercurio, e fornire tutto l’appoggio logistico necessario per
l’installazione della base.»
Andrew Palmer era sceso sul ponte inferiore a
controllare il carico che, dalle shuttle veniva riversato nella capace pancia
del Conqueror, le tabelle di carico
in una mano, una matita nell’altra, a spuntare uno dopo l’altro i contenitori
trasportati dai carrelli robot. Accadde così che si trovava sul posto giusto
quando attraccò la shuttle con i passeggeri. Vojcec non era ancora stato
avvertito, e così Palmer pensò che toccasse a lui fare gli onori di casa.
Astronomi, astrofisici, scienziati: civili, in una
parola. Palmer era un militare figlio di militari, a volte trovava perfino
imbarazzanti le stravaganze e la mancanza di autocontrollo di quelle persone,
degli scienziati, soprattutto.
Il portello interno della camera stagna si aprì, e
improvvisamente Andrew Palmer si trovò con lo sguardo incollato al più
magnifico paio di occhi color verde smeraldo che avesse mai visto, occhi che
erano incastonati in un viso di un perfetto ovale botticelliano dalla pelle
bianca e morbida, circondato da una nuvola di capelli biondi. Più sotto,
s’intravedevano due spalle esili, due seni non molto voluminosi, ma modellati
in maniera deliziosa, una vita sottile che si saldava armoniosamente a dei fianchi
provocanti e un paio di gambe assolutamente perfette; il tutto racchiuso da un
abitino corto che riusciva a rendere grazioso perfino l’informe camice da
laboratorio sbottonato buttato negligentemente sopra di esso. Veramente, per
sicurezza, i passeggeri avrebbero dovuto indossare delle tute spaziali durante
il trasbordo dalla shuttle alla nave, ma era una precauzione di cui molti
facevano a meno.
«Buon giorno», riuscì a dire, «Maggiore Andrew
Palmer, primo ufficiale dell’incrociatore Conqueror.»
«Buon giorno», rispose lei, «Tanja, Tanja Nahicheva
dell’Istituto Astrofisico di Mosca.»
Dietro la dottoressa Nahicheva erano saliti gli
altri due membri della spedizione, l’astronomo Jean Duverger, che ne era il
direttore, un uomo anziano dai capelli bianchi e l’aria vagamente patriarcale,
e Jay Rakamchandra, cosmologo, un robusto indiano dalla pelle olivastra ed
un’imponente barba scura, ma Andrew Palmer si accorse appena di loro.
«Posso sedermi qui?»
«Siamo noi gli ospiti qui, lei è in casa sua,
maggiore.»
Andrew Palmer si sentiva sperduto nella
contemplazione di quei meravigliosi occhi color smeraldo, si rendeva conto che
stava facendo davanti ai subalterni ed all’equipaggio la figura del pivello,
dell’adolescente innamorato, ma non gliene importava nulla.»
«Voglio dire, non la disturberebbe, se mangiassi
qui vicino a lei?»
«Certo che no, maggiore», rispose Tanja sbattendo
soavemente le lunghe ciglia su quegli splendidi occhi smeraldini, «Per quale
motivo dovrebbe dispiacermi?»
Andrew Palmer decise di prenderlo per un
incoraggiamento.
La mensa del Conqueror
era gremita, ma per Andrew Palmer era esattamente la stessa cosa che se
fossero stati nel deserto, o in una bolla di spazio-tempo che comprendesse
soltanto loro due.
Le parole in basic
english, la lingua dei rapporti internazionali, uscivano dalla bocca di
Tanja curiosamente deformate dal suo accento slavo, in una maniera che Palmer
trovava incantevole.
«Che genere di esperimenti», chiese Palmer cercando
di mantenere un tono neutro, «avete in programma di compiere sulla superficie
di Mercurio?»
«Se lei è del tutto digiuno in materia», rispose
Tanja, «mi sarà difficile spiegarglielo. Forse saprà che Mercurio è l’unico
pianeta del sistema solare con una massa abbastanza piccola e con un’orbita
abbastanza vicina al sole perché si manifestino effetti relativistici. La
precessione del perielio di Mercurio è stata per secoli l’unico aspetto noto
della meccanica del sistema solare che non fosse spiegabile nei termini della
fisica newtoniana.»
«Affascinante», commentò Palmer, che non era ben
sicuro di aver capito.
«Mi sta prendendo in giro, maggiore?», chiese
Tanja, «E’ la fisica relativistica che trova affascinante, o sono per caso io?»
Ma non c’era cattiveria nella sua replica.
«No, la prego», disse Palmer, «Vada avanti.»
«In pratica», disse lei, «Dovremo ripetere un po’
tutti gli esperimenti della fisica classica...masse inerziali e masse
gravitazionali, quelli che si fanno al liceo, per intenderci, e misurare con la
massima esattezza possibile tutti gli scostamenti dalle previsioni in base alla
meccanica newtoniana. In concreto, sarà una faccenda piuttosto noiosa e, visto
che ci siamo, faremo una prospezione geologica approfondita.»
«Dubito che quel grosso sasso calcinato dal sole
meriti tante attenzioni», commentò Palmer.
Il paesaggio era surreale, un perenne crepuscolo
illuminato da una luce color mattone. La zona crepuscolare non era più ampia di
un paio di chilometri. A destra il giorno, a sinistra la notte; di qua un
inferno di luce abbacinante e di fuoco, di là il buio e il gelo dei Grandi
Abissi.
Impacciati nelle tute spaziali, gli uomini davano
l’impressione di grandi artropodi, enormi, innaturali coleotteri.
L’assemblaggio della stazione prefabbricata procedeva spedito: materialmente,
erano i robot a fare quasi tutto il lavoro, ma la presenza e la supervisione
umane erano, come sempre, indispensabili.
La base Hermes era una snella cupola di metallo e
vetroacciaio.
Jean Duverger si avvicinò al comandante Vojcec.
«Reggerà?», chiese, «E’ sicura?»
Ci si abituava presto a conversare attraverso le
radio incorporate nelle tute, bastava che fossero tutte sintonizzate sulla
medesima frequenza, ed era come chiacchierare in un parco pubblico.
«Senza il minimo problema», rispose Vojcec, «A
parte lo schermo anti meteoriti, è lo stesso modello che si usa nelle stazioni
oceaniche. Qui la differenza fra la pressione esterna e quella interna è sempre
di una atmosfera, mentre là deve resistere a pressioni centinaia di volte
superiori».
Il lavoro fu presto completato. Silenziosi e
docili, i robot rientrarono nei loro alloggiamenti nella stiva del Conqueror, e gli uomini si apprestarono
a seguirli.
«Beh, arrivederci», disse Vojcec, «Tra tre mesi,
torneremo a prendervi.»
Palmer e Tanja si salutarono con particolare
calore; era un peccato, pensò Palmer, che le tute spaziali non permettessero di
sentire il corpo della giovane contro il suo.
Muoversi nella plancia dell’incrociatore, senza
l’ingombro delle tute spaziali, era un sollievo.
«Ma, comandante», stava dicendo Palmer, «Non pensa
che due uomini e una donna, soli per tre mesi nello spazio, possano dar luogo a
qualche problema?»
«No, non credo», rispose Vojcec, «Duverger ha più
di settant’anni, e Rakamchandra, sembra che non apprezzi molto le occidentali,
per quanto ne so, è felicemente sposato con entrambe le sue mogli. Ad ogni
modo, si tratta di un problema loro, non nostro.»
Sulla scrivania di Vojcec si accese la luce
dell’interfono.
«Si, cosa c’è?»
«Qui è la sala radio, signore. Abbiamo captato un
S.O.S.»
«Proveniente da dove?»
«Da Mercurio, signore, dalla base Hermes.»
«Cosa? Li abbiamo lasciati nemmeno due giorni fa, e
sono già nei guai? Veda di informarsi su cosa è successo esattamente.»
«L’abbiamo già fatto, signore», proseguì la voce
del radiofonista, «Come lei sa, la spedizione aveva con sé un certo
quantitativo di esplosivo per gli esperimenti sismografici e le prospezioni
minerarie. Sembra che, per un contatto elettrico accidentale, le cariche siano
esplose tutte insieme.»
«Ci sono feriti?»
«Soltanto contusi, signore, ma sembra che la forza
dell’esplosione sia stata sufficiente a staccare la base Hermes dalla
superficie di Mercurio. Come lei sa, il pianeta ha una massa molto modesta e,
per conseguenza, una velocità di fuga molto bassa. La stazione è sfuggita
all’orbita di Mercurio ed è stata attirata in orbita solare. Il professor
Duverger riferisce che non corrono pericolo immediato, ma nei prossimi giorni
la stazione precipiterà sul sole, o comunque l’orbita attuale la porterà troppo
vicina per consentire la sopravvivenza dei suoi occupanti.»
Grazie», disse il comandante Vojcec, «Ritrasmettete
lo S.O.S. della Hermes. Mi apra un canale con il comando della flotta.»
Schiacciò un altro pulsante dell’interfono.
«Sala radar, qui è il comandante. Individuare un
oggetto staccatosi dalla superficie di Mercurio e tracciarne la rotta. Si
presume trattarsi della stazione Hermes.»
Schiacciò un altro pulsante.
«A tutto l’equipaggio. Qui è il comandante. Da
questo momento, la nave è in condizione di preallarme.»
L’atmosfera a bordo era carica di tensione,
sembrava che un temporale fosse sul punto di scoppiare. Il comandante Vojcec
aveva deciso di parlare all’equipaggio. I marinai e gli ufficiali erano
disciplinatamente schierati sul ponte, ma si udivano mormorii fra i ranghi, e
sulle facce di tutti era possibile leggere il malumore.
Dopo aver imposto il silenzio con un gesto brusco,
Vojcec iniziò a parlare.
«Tutti voi siete al corrente», esordì,
«Dell’incidente occorso alla stazione scientifica Hermes. Devo informarvi con
rincrescimento che, sebbene l’incrociatore Conqueror
sia l’unica nave che si trovi in questo momento in questo settore del
sistema solare, non siamo in condizione di prestare soccorso. Non disponiamo di
sufficiente carburante per raggiungere la Hermes e tornare, potremmo solo
condividere il loro destino. Come certamente sapete, abbiamo consumato la
maggior parte del carburante dei nostri razzi nella fase di allontanamento dal
sole, per vincere l’attrazione solare...»
«Chiedo la parola, signore.»
Palmer aveva interrotto il comandante, e lo fissò
con aria di sfida.
«Ritengo sia possibile salvare i componenti della
spedizione Hermes. Ho elaborato una rotta che ci consentirebbe di raggiungere
la stazione, che non si trova più sul pianeta, agganciarla e porci in orbita
solare stabile, approfittando dell’effetto fionda dell’attrazione solare. Qui,
noi e loro potremmo attendere soccorsi con un ampio margine di tempo, mentre
senza un nostro intervento immediato, la Hermes è perduta. La prego anche di
considerare, comandante, quale pessima impressione farebbe sull’opinione
pubblica una delle più scelte unità della marina spaziale che abbandona dei
civili al loro destino, senza nemmeno tentare di soccorrerli.»
Dall’equipaggio schierato salirono dei mormorii di
approvazione. Il volto del comandante Vojcec si era fatto paonazzo.
«Palmer!», gridò, «Avevo già respinto questo suo
piano, e le avevo proibito di parlarne davanti all’equipaggio. Le probabilità
di riuscita di questa sua trovata sono minime. Per sfruttare l’effetto fionda
occorre muoversi tangenti al campo gravitazionale con un angolo strettissimo, e
i suoi calcoli sul carburante ci lasciano senza nessun margine per correzioni
di rotta. Lei propone di mettere a rischio la nave ed un centinaio di vite nel
tentativo probabilmente vano di salvarne tre. Mi consegni la pistola, si rechi
nella sua cabina, e si consideri agli arresti.»
Andrew Palmer sfilò la pistola dalla fondina e la
soppesò sul palmo della mano. Doveva stare attento a non compiere nessun gesto
che in tribunale potesse essergli imputato come un’aperta minaccia, ma il
sottinteso doveva essere chiaro.
«No, signore», disse, «Ai sensi dell’articolo 522
del Codice militare, la rilevo dal comando.»
«Cosa? Ma è impazzito!»
«Al contrario, comandante, è lei che, almeno
temporaneamente, non si dimostra in possesso delle sue facoltà. Il timore dei
rischi che potremmo correre nel salvataggio della Hermes le ha fatto
dimenticare il nostro dovere.»
Sembrava che gli occhi di Vojcec stessero per
schizzare fuori dalle orbite, aprì e chiuse la bocca deglutendo, come se fosse
sul punto di pronunciare un’imprecazione troppo grossa per uscirgli dalla gola.
«Palmer», disse alla fine, «Questo è ammutinamento!
Se non ci ucciderà con questa sua pazzia, le garantisco che farò di tutto per
assicurarle lunghi anni di soggiorno nel carcere militare.»
Si trattenne osservando le espressioni dei marinai,
era evidente che erano tutti dalla parte di Palmer.
«Io non desidero metterla agli arresti, signore»,
disse Andrew Palmer, «Le chiedo solo di darmi la sua parola che non ostacolerà
le operazioni di soccorso.»
«Le spiego il nostro problema.»
Andrew Palmer passeggiava nervosamente avanti e
indietro, mentre parlava con il secondo ufficiale, il tenente Ozala, un robusto
nigeriano dalla pelle scura e lucida come l’ebano.
Era una strana sensazione trovarsi improvvisamente
al comando, una cosa a cui essere a qualunque posto della scala gerarchica,
eccetto il primo, non preparava mai veramente: nessuno da cui attendere ordini,
nessuno a cui chiedere consiglio, nessuno da cui aspettarsi un commento di
approvazione o di rimprovero al tuo operato, e sapere che la vita di un
centinaio di persone dipende da te, dalle tue decisioni, dai tuoi errori.
«Se noi prendiamo due palle da biliardo», disse,
«Mettiamo che la prima si muove sul tavolo in una determinata direzione, con
una data velocità, e la seconda è ferma. Le due palle si urtano, quella in
movimento colpisce l’altra, cosa succede?»
«La palla in movimento si ferma», rispose Ozala,
«Mentre l’altra si muove nella stessa direzione e con la stessa velocità della
prima, se le due masse sono uguali, e non tenendo conto dell’attrito.»
«Esattamente, ed è proprio quello che può succedere
a noi. Non possiamo arrivare nei pressi della stazione Hermes, fermarci,
raccogliere gli scienziati e rimetterci in volo, perché non avremmo abbastanza
carburante per sfuggire all’attrazione solare, ma se arriviamo addosso alla
Hermes senza decelerare, la possiamo spingere in un’orbita solare stabile, ma
sarà a sua volta il Conqueror a
correre il rischio di precipitare sul sole. Uno scambio della quantità di moto,
proprio come sul tavolo da biliardo.»
«Allora, cosa intende fare?»
«Una cosa semplice in teoria, ma che richiederà
parecchia attenzione e parecchia abilità per essere messa in pratica: agganciare
la Hermes prima di urtarla. In questo modo, la stazione trainerà noi, dopo che
le avremo trasmesso la nostra quantità di moto e direzione.»
«Un bell’azzardo», disse Ozala, «Se funziona,
saremo tutti degli eroi.»
«E se non funziona, io verrò esposto al ludibrio universale.»
«Non lei, signore, solo la sua memoria.»
Il comandante Vojcec era rimasto volontariamente
confinato nel suo alloggio fin dal giorno dell’ammutinamento, non aveva
contatti con nessuno, tranne che con i marinai che gli portavano i pasti e gli
rifacevano la branda, ed anche verso di loro si comportava con un mutismo che
era un’ostentazione di disprezzo.
Man mano che l’incrociatore Conqueror avvicinava al sole, nonostante le schermature, la
temperatura a bordo saliva, ed occorreva fare turni di lavoro sempre più brevi.
Andrew Palmer si era fatto assegnare i turni di
guardia in sala radio ed in sala radar come qualsiasi altro membro
dell’equipaggio. Era smontato, passato in sala navigazione a controllare la
rotta, e si era buttato ancora vestito sulla branda per un breve riposo, da non
più di una mezz’ora, quando squillò il cicalino dell’interfono.
«La stazione Hermes a contatto visivo, signor
Palmer.»
Si precipitò in plancia.
Dapprima, la stazione era soltanto un puntolino
abbagliante che rifletteva l’accecante barbaglio del sole, poi cominciò ad
espandersi, anche se non era possibile distinguerne i particolari per
l’abbacinante riflesso.
Andrew Palmer abbassò la visiera polarizzata del
casco della tuta spaziale, e la forma emisferica della stazione Hermes divenne
di colpo visibile, e prese a ingrandire rapidamente davanti alla prua del Conqueror. Sembrava che l’esplosione che
l’aveva trasformata da base planetaria in imprevisto satellite, non avesse
danneggiato visibilmente le strutture esterne.
Palmer aveva fatto sgombrare i locali di prua,
tranne per gli uomini addetti alla manovra di aggancio, che dovevano indossare
la tuta spaziale, non solo per usare la visiera a luce polarizzata, ma anche
per il caso che l’urto aprisse qualche falla nello scafo.
Ora la stazione occupava quasi tutto lo spazio
visibile dallo schermo di prua.
Palmer osservò una figura umana in tuta spaziale al
di fuori della stazione, che si teneva agganciata con le suole magnetiche in
una posizione che in presenza di gravità sarebbe stata impossibile: doveva
essere Rakamchandra.
Osservò spasmodicamente i dati del telemetro.
Quello era il momento della verità.
«Fuoco!», ordinò.
Tre razzi furono sparati in rapida successione,
ciascuno di essi aveva un’ogiva magnetica e portava agganciate centinaia di
metri di cavo metallico.
Palmer vide Rakamchandra correre avanti e indietro
come un ragno sulla sua tela, per fissare le estremità dei cavi: la sola
aderenza magnetica delle ogive dei razzi non sarebbe bastata, poi la sagoma massiccia
del robusto indiano sparì dentro un portello.
Ora non restava che attendere e pregare.
«Presto», gridò Palmer nell’interfono,
«Aggrappatevi tutti a qualcosa!»
L’urto arrivò subito dopo, ed era da farti sputare
le viscere. La prua del Conqueror entrò
in collisione violenta con la Hermes, ma era solo l’inizio.
La Hermes, colpita, schizzò via come una palla da
baseball.
I cavi si tesero, e Palmer temette che non
reggessero. Subito dopo, il violento strappo ricacciò fino ai calcagni le
viscere che l’urto di poco prima aveva fatto salire in gola.
La stazione e l’incrociatore iniziarono,
agganciati, una folle corsa verso la fornace solare.
Il sole, che invadeva tutti gli schermi esterni
della nave, sembrava una cosa viva...e famelica.
Lo scafo esterno era al calor rosso. Palmer era
pronto a giurare, sebbene non avesse il coraggio di toccarle, che anche le
paratie interne scottavano, nonostante tutti gli isolamenti e le protezioni.
Vide un termometro a parete scoppiare e riversare in una cascata argentea di
metallo liquido il mercurio, che rimbalzava dappertutto, suddividendosi in
minutissime goccioline; era sicuro che a tutti gli altri termometri della nave
stesse accadendo esattamente la stessa cosa.
Un getto di plasma della corona solare, un
mostruoso artiglio di fuoco, passò loro vicinissimo. Andrew Palmer sapeva che
in realtà non era così: se quel getto, grande migliaia di volte l’intera Terra
non fosse passato a qualche migliaio di chilometri da loro, nessuno sarebbe
rimasto ancora vivo, sarebbero stati tutti vaporizzati in un istante, ma
l’impressione era quella di una potenza enorme e maligna che cercasse di
ghermirli.
Non poteva comunicare né con la Hermes né coi suoi
uomini: la radio del casco, per la ionizzazione, gli stava assordando le
orecchie con sibili, fischi e crepitii.
Poi, all’improvviso, furono fuori. L’enorme massa
solare non invadeva più tutti gli schermi, ma rimpiccioliva rapidamente sotto
di loro.
Anche la radio aveva ripreso a funzionare. Tra le
scariche, Palmer udì la voce del tenente Ozala:
«Complimenti, signore. Ha funzionato, non avrei mai
scommesso che ne saremmo usciti vivi.»
«Grazie per la fiducia, tenente.»
Poi cambiò frequenza.
«Sala radio? Qui è il primo ufficiale. Lanciate un
S.O.S. e comunicate la nostra posizione al Comando della flotta.»
Ormai la stazione e l’incrociatore avevano
raggiunto un’orbita solare stabile, Un raccordo flessibile venne steso fra
l’Hermes ed il Conqueror. Andrew
Palmer era là, fra i primi, ad attendere febbrilmente l’apertura del portello,
sebbene Duverger avesse già comunicato per radio che i tre scienziati stavano
bene.
Quando il portello si aprì, Palmer si trovò davanti
i bellissimi occhi color smeraldo di Tanja.
La giovane gli si buttò fra le braccia.
«Oh, Andrew», disse, «Sapevo che non ci avresti
abbandonati.»
Rientrarono a bordo del Conqueror. Rakamchandra e Ozala sorreggevano Duverger che zoppicava
vistosamente.
Ad attenderli, c’era il comandante Vojcec: a
giudicare dalla sua espressione, si sarebbe detto che avrebbe preferito
precipitare sul sole.
Palmer si mise sull’attenti.
«Le restituisco il comando, signore».
«Complimenti, signor Palmer», disse Vojcec acido,
«Così, dopotutto, ce l’ha fatta. Lei aveva ragione ed io torto. Forse non la
sbatteranno in carcere, si limiteranno a cacciarla dalla marina, o la
metteranno a pulire latrine per il resto della vita. Naturalmente, da questo
momento è agli arresti.»
Il Conqueror e
la Hermes furono raggiunti dalla spedizione di soccorso due mesi più tardi. Per
tutto quel tempo, Andrew Palmer era rimasto confinato nella propria cabina,
l’unico sollievo erano le visite di Tanja Nahicheva, che Vojcec gli aveva
concesso di ricevere per un’ora al giorno.
Al ritorno sulla Terra, Palmer scoprì che il suo
caso era già accompagnato da una sgradevole notorietà. A quanto pareva, c’era
dappertutto gente ansiosa di stabilire se dovesse essere considerato un eroe o
un ribelle.
Il processo, tuttavia, fu una cosa relativamente
breve. Era strano, ma dai codici militari e dai regolamenti che il tribunale
era tenuto ad applicare, finiva per emergere una paradossale saggezza. Tutti
sapevano che il suo gesto di ribellione aveva salvato tre vite umane, ma la
tesi della temporanea infermità mentale di Vojcec non venne sostenuta con
troppa convinzione neppure dalla difesa, e non si poteva creare un precedente
che avrebbe autorizzato un subordinato a rifiutare l’obbedienza ad un superiore
ogni volta che l’avesse ritenuto opportuno.
L’imputazione di ammutinamento venne derubricata in
quella di insubordinazione grave, Andrew Palmer fu retrocesso a capitano, e
dichiarato psicologicamente ed emotivamente non idoneo a prestare servizio
nello spazio, ma rimaneva sempre un ufficiale della marina.
Andrew Palmer ripiegò con cura la lettera che aveva
finito di leggere, e la rimise in tasca. Prese il binocolo e fece un giro
d’orizzonte con lo sguardo. L’oceano era di un grigiore plumbeo, chiazzato qua
e là dall’iridescenza degli idrocarburi.
Forse in un’epoca remota, avventurarsi sugli oceani
era stata un’impresa esaltante, come oggi solcare gli spazi, ma quei tempi
erano finiti, appartenevano ad un mondo scomparso da un pezzo, e una vecchia
bagnarola come il cacciatorpediniere Georgetown
non era certo paragonabile ad un gioiello della più raffinata tecnologia,
come il Conqueror, eppure...Eppure, quella
era la sua nave, quelli erano i suoi uomini, entro le murate di quello
scafo, non c’era nessuno sopra di lui, le decisioni e le responsabilità erano
sue, era lui l'uomo sul ponte di comando.
Sentì un’ondata di affetto salirgli da dentro per
tutti loro, e per il buon, vecchio Georgetown.
Qualcuno era salito sulle murate, e si era portato
alle spalle di Palmer.
«De Almeida.»
«Scusi, signore. Pensavo che forse sarebbe il caso
di scendere sotto coperta. In questa stagione, fa freddo presto, dopo il tramonto.»
Il tenente De Almeida aveva visto la lettera che
Andrew Palmer aveva rimesso in tasca, gliel’aveva consegnata lui stesso poche
ore prima; non c’era l’indirizzo del mittente sulla busta, ma il timbro postale
di partenza, da una di quelle località russe dal nome troppo pieno di
consonanti, rivelava con chiarezza chi l’avesse spedita.
«De Almeida», disse Palmer, «Le devo chiedere un
favore.»
«Se posso, signore.»
«Le piacerebbe farmi da testimone di nozze?»
Molto bello questo racconto di Fabio: fantasciensa pura, avvincente...
RispondiEliminaDavvero un bellissimo racconto.
RispondiEliminaG.S.
Molto bravo, Fabio. Uno di quei racconti che si fanno leggere d'un fiato.
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