a
Marie-Ève
Noël
L’ultimo
treno del venerdì sfreccia nella notte. Osservo l’unico
passeggero, inerte sul sedile, laggiù in fondo: ha gli occhi chiusi,
la nuca riversa e la bocca spalancata. Immerso in un sonno abissale,
come le vie della metropoli che sfilano sotto di noi. La sua sostanza
secca è quella d’uno statale annoiato ed uggioso, prigioniero d’un
mondo alla Kafka. Una valigetta, dal contenuto probabilmente
insignificante, giace sulle sue ginocchia.
Fermata. Una fanciulla varca le porte scorrevoli e, per un attimo breve come un sospiro, i suoi candidi occhi azzurri incrociano il mio sguardo scrutatore. Le sue guance, già rosee, arrossiscono. Però si siede di fronte a me. Avvolta in un soprabito troppo leggero per la stagione, stringe una borsa informe, di cuoio nero, contro il ventre. Quando il treno ricomincia correre, ella fa finta d’ignorarmi. Contrariamente a quella dell’altro passeggero, la sua sostanza è acquosa: mi fa pensare ad una pianta affogata da una sovrabbondanza di premure, umide e fredde. Ciò nonostante, scorgo in lei uno stelo ancor sano, che ha solo bisogno di tepore e di luce per rigermogliare. Mi scopro una tempra di salvatore. Desidero aiutarla a divenire interamente viva, in un modo che forse non è il migliore, ma, quando si è giovani come lei, è meglio crescere sghembi e contorti che marcire fino alla linfa.
Fermata. Una fanciulla varca le porte scorrevoli e, per un attimo breve come un sospiro, i suoi candidi occhi azzurri incrociano il mio sguardo scrutatore. Le sue guance, già rosee, arrossiscono. Però si siede di fronte a me. Avvolta in un soprabito troppo leggero per la stagione, stringe una borsa informe, di cuoio nero, contro il ventre. Quando il treno ricomincia correre, ella fa finta d’ignorarmi. Contrariamente a quella dell’altro passeggero, la sua sostanza è acquosa: mi fa pensare ad una pianta affogata da una sovrabbondanza di premure, umide e fredde. Ciò nonostante, scorgo in lei uno stelo ancor sano, che ha solo bisogno di tepore e di luce per rigermogliare. Mi scopro una tempra di salvatore. Desidero aiutarla a divenire interamente viva, in un modo che forse non è il migliore, ma, quando si è giovani come lei, è meglio crescere sghembi e contorti che marcire fino alla linfa.
Scivola
intanto il treno sulle rotaie. Lo statale continua a dormire. Allora
m’alzo e m’appoggio alla sbarra verticale, davanti a lei, che
tiene la testa china. Dimesso anche lo sguardo. Risento il suo
nervosismo. Giocherella con la tracolla della borsa. Aspetto.
Paziente. Ho bisogno d’un gesto da parte sua. Qualunque sia,
giustificherà l’intervento. Aspetto. Ad un tratto, in un lento
movimento grazioso, ella dirige la sinistra verso la nuca e scioglie
il nastro di seta verde che le costringe i bei capelli bruni.
Allora
mi siedo alla sua destra e raccolgo il nastro dalla sua mano fredda.
Quasi gelida. Le libero il volto dalle lunghe ciocche che l’occultano
e, con la punta dell’indice, le rialzo la testa. Non osa guardarmi.
Allora rapidamente le annodo il nastro intorno ai polsi e ne tiro gli
estremi verso di me. È proprio in quel momento che lei mi guarda,
finalmente. È una cosa seria? Fino a dove sarai pronta ad andare?
Non sa che rispondere, allora tiro ancora sul nastro, con fermezza.
Comincia ad ansimare. Ripeto, fino a dove sarai pronta ad andare? I
begli occhi si gonfiano di lacrime. No, quel che ti ci vuole, è il
fuoco. Infilo la mano tra i capelli riversi. Si mette a fremere
tutta. Le premo la mano sulla guancia, perché s’accorga che sono
io, quel fuoco che le manca, inestinguibile dalle lacrime. Le mie
dita esplorano la folta criniera, le afferrano la nuca. Non puoi
continuare così. Hai bisogno di me. Bagliore eccitato negli occhi
cerulei. Sono sconvolto. Una lingua di fiamma mi serpeggia per tutto
il corpo. Tiro sul nastro, più forte, ed ecco che non può più
scegliere : deve essermi vicina. Sottomessa. Non voglio che se
ne vada. Mai più. Non voglio che si muova, se non per seguirmi, se
così decido.
Il
treno rallenta. Capolinea, dice una voce. Ci siamo già? Il
passeggero si sveglia. Non ci vede neppure, s’alza ed arranca verso
l’uscita, con la pesante valigetta in mano. Dobbiamo scendere, osa
dirmi lei. Non far la stupida, lo so che dobbiamo scendere. Rincaro
la tensione sul nastro per costringere la mia prigioniera ad alzarsi
all’unisono con me. La borsa! – grida. Le prendo la borsa.
Scendiamo
sulla piattaforma. Lo statale s’è già dileguato in una qualche
via di periferia notturna. Vado avanti trascinando questa fanciulla
che mi trasforma in fuoco. Adirato. Perché sei arrabbiato? Non
voglio spiegarle che mi sono intrappolato con le mie proprie mani.
Avrei forse fatto una proiezione? Non sarei, anch’io, un vegetale
gonfio d’umidità alla ricerca d’una vampata di calore? Perché
sei arrabbiato? Esasperato, guardo intorno a me. Cerco una risposta.
Vedo una fermata d’autobus. Frugo nelle tasche del cappotto, ma non
ci trovo niente di utile. Allora, fruga nella borsa mia, mi consiglia
lei. Metto questa borsa sul marciapiede, l’apro e ci frugo dentro.
Ci trovo oggetti familiari : corde arrotolate, manette, altri
nastri adesivi, solidissimi, ed un paio di forbici. Ma che ci fai,
con tutta questa roba in borsa? Non far l’ingenuo, hai indovinato.
La odio. L’adoro. Cinque minuti dopo, eccola dritta davanti a me,
legata alla sbarra verticale della fermata, costretta in una spirale
di nastro adesivo grigio.
Siamo
in un luogo deserto. Notte e freddo. Ma sono tutto un fuoco. Anche
lei. Geme di desiderio. Le spingo i capelli dietro le orecchie. Calde
come tizzoni, le mie mani. La sua pelle arde sotto le carezze.
Allora, la bacio in modo che il mio fuoco dilaghi nel suo corpo,
disseccando l’umido, il marcio, calcinando tutto nel dilagare.
Tutto il rimanente che deve sparire. Ormai, ella è solo fiamma viva,
che mi scotta le mani, tra un bacio e l’altro. Sono pazzo. Pazzo di
lei, avvinta al palo. Lei balsamo, lei antidoto contro questa vita
insipida nella quale sono immerso, credendo – somma presunzione –
di essere diverso dagli altri. Ma lo sono? Sono poi tanto diverso
dallo statale? Credevo d’averlo capito, ma è stata lei a
smascherarmi, sciogliendo il nastro verde che le costringeva i
capelli.
Quando
reciderò i vincoli che la mantengono dritta, ella non cadrà. Ormai
sa che sono io il suo tutore. Poco importa ch’ella riprenda vita in
modo un po’ sghembo o distorto, saprò accudire ai suoi teneri
germogli.
2
gennaio 2013
(Traduzione
dal francese di Serena Gentilhomme)
Racconto strano, tra il fantasy e il surreale, affascinante. La forma espressiva esalta il mistero e la dimensione visionaria, producendo nel lettore una certa tensione.
RispondiEliminaGiuseppe Novellino
Benvenuta su Pegasus a Natasha Beaulieu.
RispondiEliminaRacconto avvincente e non privo di suspense.
RispondiEliminaG.S.