Questo breve racconto occupa una posizione
affatto particolare nella mia bibliografia e nella mia personale storia di
autore. Come avrete probabilmente avuto modo di notare, nell'arco di una
carriera ormai più che quarantennale, le collaborazioni, i racconti a quattro
mani scritti insieme ad altri autori sono veramente pochi: oltre a questo con
mio fratello Massimo, soltanto altri due scritti assieme a Roberto Furlani: Coydog che trovate qui e Inner Space pubblicato dalle Edizioni
Scudo nell'antologia Dentro e fuori di noi.
La storia di questo racconto è strettamente
connessa al modo in cui è iniziata la mia carriera letteraria. Ero un
adolescente, dovevo avere sui sedici anni e mio fratello Massimo, più giovane
di me di un anno e mezzo, doveva avere fra i quattordici e i quindici. Mi
capitò di occhieggiare in libreria i Racconti
neri di Ambrose Bierce nell'edizione de “il pesanervi” Bompiani, e fui
attratto, lo ricordo bene, soprattutto dall'illustrazione di copertina, dove
uno scheletro in abito da sposa e con un cappello molto vistoso, campeggia in
mezzo a una folla di uomini vestiti di scuro. Lo comprai, e mio fratello e io
lo leggemmo d'un fiato – eravamo in un'età in cui si è irresistibilmente attratti
dal macabro e dal surreale, o almeno lo erano quelli della nostra generazione,
per i ragazzi di oggi dalla fantasia atrofizzata dai videogiochi, non so – e
decidemmo di produrci in una sfida, quella di scrivere racconti simili a quelli
che avevamo letto nell'antologia bierciana, e vedere chi avrebbe ottenuto il
risultato migliore.
Lo dovetti ammettere allora e lo devo
riconoscere adesso: i racconti che riuscì a scrivere Massimo erano migliori dei
miei, solo che lui si fermò a due, mentre io ci presi gusto e andai avanti, e
da allora non mi sono più fermato e poi, poco per volta, ho variato le mie
tematiche, includendo la fantascienza, l'horror e la fantasy. In un certo
senso, si potrebbe dire che questa sfida adolescenziale è ancora in corso.
In anni successivi (ma non di moltissimo) ho
dato vita assieme a Giuseppe Lippi alla (purtroppo breve) avventura de “Il re
in giallo” e nel primo numero della pubblicazione triestina, assieme al mio Notte a Rio che anche ripropongo qui,
anche considerando che questo primo numero è ormai da molto tempo divenuto un
mitico e introvabile oggetto da collezione, pubblicammo il secondo e migliore
dei due racconti di mio fratello nella stesura e con il titolo originale, Il generale Marlowe.
In seguito, ho ripreso in mano il racconto
di mio fratello rielaborandolo in una stesura più adulta, così come ho fatto
per molti miei racconti risalenti agli anni d'esordio. Ed è in questa forma con
entrambe le nostre firme che lo ripropongo qui.
Fabio
Calabrese
Era stato un uomo importante, non una persona
qualsiasi, ma un uomo autorevole, ricco, famoso, potente, uno di quelli di cui
i giornali parlano quasi ogni giorno, aveva un'importante carica pubblica,
anzi, aveva avuto molte importanti cariche pubbliche nel corso della sua carriera.
I suoi nemici lo temevano e i suoi amici
facevano rapide carriere e ottimi affari. Tutti lo temevano e lo rispettavano,
alcuni lo ammiravano.
Aveva una grande e bellissima villa, una bella moglie,
dei figli che avevano fatto rapide carriere politiche aiutati dagli amici del
padre, un conto in banca che sembrava il bilancio di una piccola nazione, più
una mezza dozzina di conti in banche estere di cui il fisco non sapeva nulla,
uno yacht di lusso delle dimensioni di un cacciatorpediniere, un aereo privato,
uno stuolo di segretari e domestici, e dozzine di guardie del corpo a vigilare
su di lui e le sue proprietà, ma neppure le guardie del corpo possono tenere
lontana la morte quando l'ora di un uomo è venuta, e così un giorno il
grand'uomo morì all'improvviso stroncato da un infarto.
Appena la notizia si seppe, fece grandissima
impressione in tutta la nazione, e gli furono decretati solenni funerali di
stato.
La cerimonia funebre, a cui parteciparono le massime
autorità dello stato, fu tenuta nella cattedrale della capitale, officiata dal
vescovo, poi il feretro, portato a braccia da sei uomini politici e seguito da
una folla enorme, si avviò verso il carro che l'avrebbe portato alla tomba
monumentale preparata nel cimitero cittadino e che il grand'uomo, metodico e
preveggente anche in questo, si era fatto erigere da gran tempo.
Molti allora notarono una cosa che li lasciò
stranamente impressionati. Giusto fuori dal sagrato della chiesa c'era un
ometto vestito di scuro che zoppicava in maniera molto evidente e portava
un'alta tuba vistosamente calcata in testa. Si muoveva con fare nervoso davanti
al sagrato, come se fosse in impaziente attesa di qualcosa, e il suo
andirivieni era piuttosto strano: tutte le volte che si avvicinava al sagrato
si arrestava esattamente sul bordo del terreno consacrato come se si trovasse
di fronte a un ostacolo fisico.
Spiccava isolato tra la folla delle persone che si
assiepavano fuori dalla cattedrale in attesa del corteo funebre, perché –
stranamente – sembrava che nessuno avesse voglia di stargli troppo vicino.
L'anziano e solenne uomo politico, un vecchio compagno
di partito del defunto, che aveva tenuto una lunga ed assai apprezzata orazione
funebre magnificando le virtù, la bontà, l'onestà, la generosità, la dedizione
al pubblico bene di colui che non era più, uscì di chiesa per primo alla testa
del corteo, subito seguito dal feretro e da due ali di folla commossa.
L'ometto zoppicante si diresse con disinvoltura verso
di lui, come se i poliziotti in servizio che tenevano a bada le due ali di
folla e i numerosi agenti di sicurezza in borghese infiltrati tra la gente
comune non esistessero nemmeno, e in effetti, a quanto pareva, nessuno pensò
minimamente di ostacolarlo, sebbene l'uomo politico impallidisse di colpo e sul
suo volto fosse possibile leggere uno sguardo terrorizzato.
“Signor presidente” (e in effetti l'uomo politico era
presidente di una dozzina di enti e altre cose), disse l'ometto con una voce
stranamente rauca e chioccia, “stia tranquillo, questa volta non sono qua per
lei”.
Mentre sul volto dell'anziano uomo politico si
dipingeva un subitaneo sollievo, l'ometto proseguì:
“Anzi, a essere sincero, sono mortificato di dover
mancare di rispetto al defunto e di dover mancare di rispetto a questo illustre
consesso, ma si tratta di una grave ed urgente questione d'onore che devo
risolvere al più presto”.
L'atteggiamento dell'ometto era così compunto e
signorile che nessuno osò intervenire.
“Tutti quanti voi”, aggiunse ancora costui, “siete
uomini d'onore e capite cosa intendo dire. In effetti, tra il defunto e me
c'era un accordo, un patto per essere più precisi, e per pura distrazione, per
dabbenaggine, lo ammetto, da parte mia, non sono riuscito a onorare la mia
parte prendendo ciò che mi compete. Se lor signori me lo consentono, sarà
questione di un minuto, dopo di che potrete proseguire con la cerimonia”.
Così dicendo, si avvicinò al feretro del defunto che
era scoperto, mostrandone in bella vista i lineamenti nobili e sereni.
Allora accadde una cosa che lasciò tutti i presenti di
sasso: la carne del defunto parve arricciare, contrarsi come se fosse dotata
ancora di una scintilla di vita, come se cercasse di ritrarsi dal tocco
dell'ometto.
I lineamenti del morto fino a quel momento sereni, si
contassero in una maschera di sofferenza e di paura indicibili. La mascella del
defunto si aprì, e dalla sua bocca si vide uscire qualcosa, qualcosa di
indefinibile, come uno sbuffo di nebbia od uno straccio sporco e lurido al
punto da fare disgusto a guardarlo.
L'ometto afferrò al volo quella cosa indistinta ma
disgustosa, che sembrava contorcersi nel tentativo di sfuggire alla sua
stretta.
“Scusate tanto”, disse alla folla ammutolita, “ho
finito. Per ora tolgo il disturbo, ma ci rivedremo presto”.
Quest'ultima frase era palesemente diretta alle
autorità presenti.
Si piegò in un profondo inchino, togliendosi la tuba e
mostrando due piccole corna sulla fronte.
Subito dopo scomparve, lasciandosi dietro uno
sgradevole odore di zolfo.
Un cordiale benvenuto, sulle pagine di Pegasus, a Massimo. Molto bello il racconto, particolarmente avvincente e suggestivo.
RispondiEliminaIl tema del diavolo che reclama ciò che gli è dovuto è classico, seppe suggestivo quando lo si ripropone, come in questo racconto serrato e avvincente, che ha il sapore della parabola. Avendo poi come protagonisti i grandi uomini di finanza e potere, mi sembra anche di attualità. Si medita, pur cogliendo nella narrazione un certo sottile umorismo.
RispondiEliminaGiuseppe Novellino