L'uomo aprì lentamente gli
occhi. Si sentiva riposato, pieno di energia, dopo un lungo sonno ristoratore.
Per un lungo momento continuò a rimanere immerso in uno stato di semi-coscienza
e in una sensazione di benessere.
Poi si svegliò del tutto e fu assalito dai ricordi. Sarebbe dovuto essere in ospedale per la rimozione di una cisti cerebrale, una sorta di tumore benigno che di quando in quando, premendo sulle aree cerebrali circostanti, gli provocava feroci mali di testa.
Naturalmente, era stato riluttante a farsi aprire la scatola cranica, ma gli era stato spiegato che l'operazione non era pericolosa, mentre invece era pericolosa la cisti che, lasciata a se stessa, sarebbe facilmente potuta degenerare in un tumore maligno.
Si portò le mani alla testa. Se era stato operato al cranio, avrebbe dovuto avere almeno la testa fasciata, invece niente; avrebbe dovuto avere la testa rasata, invece le sue dita incontrarono la chioma: i suoi capelli erano folti e più lunghi di quanto ricordasse.
Si accorse di non trovarsi in un letto: stava galleggiando in una vasca ripiena di un liquido tiepido. Era acqua o che cosa? Non aveva nessuna certezza nemmeno a questo riguardo.
Guardando bene, gli parve che non dovesse essere acqua, o perlomeno era mischiata con qualche altra cosa, perché aveva una leggera tonalità ambrata e poi era forse un po' troppo densa.
Provò ad alzarsi in piedi e ci riuscì: fortunatamente quella vasca non era troppo profonda. Nel compiere il movimento, si accorse di aver staccato dal suo corpo diversi tubicini che vi erano fissati con aghi simili a quelli delle flebo.
Fece leva con le braccia sul bordo della vasca e ne uscì.
Esaminò la stanza tutto intorno a sé: poteva essere oppure non essere una camera di ospedale con una vasca al posto di un letto, era un ambiente pulito, lindo, anonimo con le pareti smaltate di bianco. Contro una parete c'era un monitor con una serie di indicatori che non gli dissero assolutamente nulla.
La porta non era chiusa; l'aprì e uscì. Si trovò in un corridoio, un lungo corridoio anonimo circondato sui due lati da porte simili a quella della stanza da cui era uscito.
Arrivò alla fine del corridoio che girava di novanta gradi e svoltò. Andò a sbattere addosso a una ragazza che proveniva dalla parte opposta.
La giovane donna – piuttosto carina, notò – indossava qualcosa di simile a una divisa da infermiera e aveva retto fra le mani un vassoio metallico che era rovinosamente caduto a terra sparpagliando in giro dei medicinali, della garza, una siringa, una sacca da flebo.
L'espressione della ragazza era di imbarazzo e stupore, un imbarazzo e uno stupore che gli sembrò non dipendessero soltanto dal fatto che lui era nudo.
“Lei, Lei... cosa ci fa qui?” balbettò mentre si chinava a raccogliere il vassoio e i medicinali caduti.
“Non lo so” rispose lui chinandosi a sua volta ad aiutarla. “È quello che mi stavo chiedendo anch'io”.
La giovane sembrò essersi ripresa dalla sorpresa iniziale, indicò all'uomo una porta.
“La prego, aspetti qui”, disse. “Vado a chiamare il dottor Knight”.
Lui entrò: era una piccola sala d'aspetto con quattro poltroncine ricoperte di velluto azzurro e un basso tavolino dal ripiano di vetro.
Dopo poco, la ragazza tornò porgendogli una specie di accappatoio che lui indossò, poi si allontanò a passi rapidi.
L'accappatoio era di un bianco che appariva ragionevolmente pulito. C'era una stampigliatura in lettere azzurre sul bordo. L'uomo si aspettava di trovarvi il nome dell'ospedale, invece lesse: “UCLA, University of California Los Angeles, facoltà di Scienze naturali, dipartimento di biochimica”.
“Almeno”, pensò, “è consolante sapere che mi trovo ancora a Los Angeles e non sono vittima di una abduction su di un altro pianeta”.
Sulla parete opposta all'ingresso c'era uno specchio. Si avvicinò e si guardò.
Era lui, non c'era dubbio, riconobbe la propria immagine, tranne per la curiosa impressione che i suoi capelli fossero non solo più lunghi ma più folti di come li ricordava. Si guardò la punta delle dita. Era, o era stato perché adesso non ne sentiva minimamente la voglia, un accanito fumatore, e sulle punte delle dita erano sempre facilmente riconoscibili i segni gialli della nicotina; adesso invece non ce n'era la minima traccia. Questo poteva significare solo che non fumava da parecchi mesi, ma era stato parecchi mesi in coma o che cosa?
Guardò meglio la propria immagine allo specchio: da anni aveva un incisivo spezzato che con suo grande cruccio gli rovinava il sorriso: ora il dente era intatto, e la sua dentatura, per quel che poteva vedere, perfetta.
Cominciò a ripetere come un mantra, come per assicurarsi della propria identità:
“Mi chiamo Herbert Bramwell, ho 38 anni, sono alto 1 metro e 76 cm. Sono nato a San Francisco, California nel 2014, mi sono laureato in filosofia all'UCLA, Los Angeles nel 2036. Mi sono sposato nel 2040, ho un figlio, ho divorziato nel 2044. Ho svolto vari lavori. Attualmente sono, o meglio prima del ricovero ero direttore del personale in un'azienda informatica”.
Forse di per sé era un mantra abbastanza inutile, non aveva vuoti di memoria, la sua storia, la sua vita gli erano ragionevolmente chiare, ma in quel momento sentiva il bisogno di rassicurarsi della propria identità.
L'uomo in camice bianco che entrò nella saletta era giovane, alto, asciutto, dai capelli chiari precocemente stempiati e gli occhi azzurri, con una lieve traccia di efelidi sul viso.
“Signor Bramwell, buon giorno”, disse, “Sono il dottor Knight. Come si sente?”
“Bene, grazie”, rispose Hubert Bramwell. “Più in forma di quello che ricordavo di essere da un sacco di tempo, solo che ho una gran fame, mi sembra di non aver messo nulla in bocca da secoli”.
“Un po' di pazienza”, disse il dottor Knight, “e provvederemo, non si preoccupi”.
Poco più tardi arrivò l'infermiera che Bramwell aveva già conosciuto.
“Le ho portato da vestire”; disse, “maglietta e calzoncini. Per le scarpe non ero sicura della misura, e così le ho portato un paio di sandali infradito, se si accontenta”.
“Ok”, rispose lui, “andranno benissimo”.
“Vorrei sapere una cosa”, disse Bramwell rivolto al dottor Knight, “il dottor Johnson, il mio medico, che dovrebbe avermi operato, dove è adesso?”
Il giovane dottore parve in imbarazzo.
“Mi spiace”, rispose, “ma il dottor Johnson al momento non può essere qui. Posso dirle però che a quanto mi risulta è lui che l'ha operata e la sua operazione è riuscita perfettamente”.
Mentre i due lo lasciavano solo per permettergli di cambiarsi, Hubert Bramwell rimuginava su quanto gli era stato detto. Il dottor Johnson era il suo medico di fiducia e un amico, la sua assenza lo preoccupava.
Il dottor Knight aprì la porta e chiese:
“E' pronto per il nostro piccolo giro turistico?”
Hubert Bramwell annuì.
“Venga”, disse il medico, “strada facendo le spiegherò ogni cosa”.
Il luogo, constatò Bramwell, era molto moderno, molto pulito, molto grande; era come aveva potuto constatare dalla scritta sull'accappatoio, un ospedale ma all'interno del quale si trovava un centro di ricerche universitario. Il dottor Knight gli fece vedere di sfuggita le corsie dove si trovavano altri ricoverati, ma non si avvicinarono troppo. Non era il caso – disse il dottore – di disturbarli.
Le spiegazioni del dottor Knight avevano confuso Bramwell più che dargli chiarimenti.
Lui era, a quanto pareva, uno dei pazienti “speciali” del centro di ricerche, il termine “cavie” era un po' troppo brutto e probabilmente non rispondeva alla realtà. Bramwell però non riusciva a capacitarsi del perché: l'intervento a cui era stato sottoposto era delicato, comportando l'apertura della scatola cranica, ma non era particolarmente complesso e non richiedeva una tecnologia d'avanguardia, e soprattutto Hubert Bramwell non riusciva a capacitarsi di come mai non avesse nessun segno di un'operazione al cranio.
“Oh, ma sono imperdonabile”; disse il dottor Knight, “mi dimenticavo che lei è affamato. Venga che le offro una robusta colazione”.
A Bramwell sembrò che il dottor Knight avesse preso a trattarlo piuttosto come un ospite che come un paziente, a cominciare dal fatto che gli erano stati fatti indossare maglietta e calzoncini invece di un pigiama. La cosa gli andava bene, non si sentiva malato, tutt'altro!
Il dottore gli fece strada fino a quella che doveva essere la mensa del personale, una grande sala situata nella parte alta dell'edificio. Su un lato c'era una grande finestra panoramica. Era tipo self service, e in quel momento non c'era nessuno tranne loro due.
Bramwell si servì con generosità di latte, caffè, pane tostato, burro.
Si sedette a un tavolo e iniziò a mangiare. Gli sembrava di non aver mai assaggiato niente di più gustoso, di non aver mai avuto tanta fame in tutta la sua vita.
Il dottor Knight non aveva preso nulla.
“Penso che mi possa ascoltare mentre mangia”, disse.
Bramwell annuì.
“Io so che lei era”, proseguì. “Scusi, voglio dire è una persona colta, anche se non un ricercatore, uno scienziato. Penso che non avrà grosse difficoltà a comprendermi. Lei cosa sa della clonazione?”
“So che se n'è parlato molto diversi anni fa”, rispose Bramwell, “Ma poi le ricerche sono state abbandonate”.
“Io credo che si possa dire”, proseguì il dottor Knight, “che nessun altro campo della ricerca scientifica tra la fine del XX secolo e gli inizi del XXI sia stato oggetto di tante speranze e di tante delusioni. Per un certo periodo si è pensato che essa potesse essere il mezzo per realizzare il più grande sogno dell'uomo, l'immortalità fisica, ma si è presto capito che l'esistenza di un clone, di qualcuno che è il gemello di qualcun altro dal punto di vista genetico, non ha nulla a che fare con la continuazione o meno della vita della persona.
Si tratta in realtà di un procedimento relativamente semplice in teoria: si prende il nucleo di una qualsiasi cellula somatica di un essere vivente e lo si inserisce in una cellula-uovo privata del suo nucleo originale. Si fa sviluppare l'embrione in un utero, in un utero artificiale, in un uovo a seconda della specie, su di una cultura di agar-agar se si tratta di una pianta, e l'embrione che si formerà, la creatura che verrà alla luce sarà la copia dal punto di vista genetico, del donatore della cellula somatica che ne è di fatto l'unico genitore.
Ma c'è un grosso ma che ha portato per lungo tempo quasi all'abbandono di questo tipo di ricerche. Diciamo che in natura la clonazione è un fenomeno tutt'altro che raro. A parte il caso dei gemelli, lei sa che se una stella marina perde un braccio, non solo è in grado di rigenerarlo, ma dal braccio rotto può formarsi una nuova stella che è a tutti gli effetti un clone della precedente. Piante come le viti e i gerani si riproducono per talea: un tralcio o un rametto può diventare una pianta a sé stante che è un clone di quella da cui ha avuto origine. Ma quando parliamo di animali superiori come i mammiferi, le cose cambiano completamente. Immagino che lei abbia sentito parlare di Dolly, la pecora Dolly, il primo mammifero clonato, che venne alla luce in Gran Bretagna verso la fine del XX secolo. Questo povero animale cominciò a mostrare una serie sorprendente di acciacchi e morì precocemente. In pratica, Dolly era “nata vecchia” con l'età biologica dell'animale donatore della sua cellula somatica cioè del suo patrimonio genetico. La stessa cosa si è verificata, è sempre accaduta con gli altri mammiferi clonati. In sostanza, viene a mancare quel processo di rigenerazione che avviene con il normale concepimento e permette a ogni generazione di ripartire da zero. Questo fatto limita gravemente l'utilità della clonazione in zootecnia, anche se può comunque essere uno strumento prezioso nella lotta per preservare dall'estinzione specie a rischio, e la rende inapplicabile agli esseri umani, perché un uomo “nato adulto” senza aver potuto beneficiare della lunga infanzia, del lungo periodo di apprendimento caratteristico della nostra specie, sarebbe a tutti gli effetti un handicappato. Questo, naturalmente, a meno di non trovare la possibilità – mi permetta di usare questo termine – di clonare anche i ricordi della persona. In questo caso le possibilità potrebbero essere pressoché infinite, potremmo, per così dire assicurare particolari talenti scientifici, letterari, artistici da una sparizione precoce. L'idea di clonare persone dotate di particolari talenti artistici o scientifici è stata carezzata spesso. Provi a immaginare la possibilità di porre rimedio al fatto che il destino ci ha privati precocemente del talento di Raffaello o di Mozart. Solo che le cose non funzionano, non possono funzionare in questo modo. Se anche clonassimo un genio dell'arte o della scienza vivente oggi – non Mozart o Raffaello il cui talento è andato irrimediabilmente perduto – il suo clone ne erediterebbe soltanto la struttura genetica, non le esperienze della vita che hanno portato la sua personalità a evolversi in un certo modo ... a meno che ...”.
“A meno che?”, fece eco con aria interrogativa Bramwell che nel frattempo aveva smesso di mangiare.
“Provi a pensarci”, proseguì il dottor Knight, “dove è depositata fisicamente la memoria di una persona? Nelle sottili modificazioni che avvengono nel DNA delle cellule cerebrali”.
“Si”, obiettò Bramwell, “Ma per quanto ne so le cellule cerebrali, i neuroni non si possono riprodurre, è per questo che gli effetti di una lesione cerebrale, a differenza di altre ferite, sono irreversibili”.
“E' vero”, rispose il dottor Knight, “ma quella che si deve riprodurre non sono i neuroni, ma una cellula uovo contenente il DNA estratto dai neuroni, e le assicuro che lo può fare”.
L'espressione del dottor Knight cambiò, pareva quasi volersi scusare.
“Cosa avrebbe fatto lei al nostro posto?”, chiese. “Prima di iniziare ad aprire il cranio dei vari premi nobel per estrarne il DNA cerebrale, non avrebbe fatto un esperimento pilota? Noi avevamo sottomano un campione di tessuto cerebrale estratto a un paziente nel corso di un'operazione al cervello effettuata nel 2062”.
Fece alzare Bramwell e lo condusse davanti alla finestra panoramica.
Gli indicò il panorama urbano sotto di loro.
“Questa è sempre Los Angeles”, disse, “è sempre la città più estesa del mondo anche se non è la più popolata, la battono come popolazione Città del Messico, il Cairo e Tokyo, però oggi supera New York per numero di abitanti. E' ancora più estesa che ai suoi tempi, perché tutto attorno al centro urbano, come attorno alle aree di Hollywood, Glendale, Pasadena, Santa Monica, ci sono le favelas degli immigrati ispanici. Oggi è ancora più che ai suoi tempi caotica, tentacolare, pericolosa”.
Gli strinse la mano sulla spalla.
“Adesso capisce”, proseguì abbassando il tono della voce fin quasi a un bisbiglio, “perché il dottor Johnson, il suo medico di fiducia, non è qui? E' morto da quasi un secolo”.
Poi si svegliò del tutto e fu assalito dai ricordi. Sarebbe dovuto essere in ospedale per la rimozione di una cisti cerebrale, una sorta di tumore benigno che di quando in quando, premendo sulle aree cerebrali circostanti, gli provocava feroci mali di testa.
Naturalmente, era stato riluttante a farsi aprire la scatola cranica, ma gli era stato spiegato che l'operazione non era pericolosa, mentre invece era pericolosa la cisti che, lasciata a se stessa, sarebbe facilmente potuta degenerare in un tumore maligno.
Si portò le mani alla testa. Se era stato operato al cranio, avrebbe dovuto avere almeno la testa fasciata, invece niente; avrebbe dovuto avere la testa rasata, invece le sue dita incontrarono la chioma: i suoi capelli erano folti e più lunghi di quanto ricordasse.
Si accorse di non trovarsi in un letto: stava galleggiando in una vasca ripiena di un liquido tiepido. Era acqua o che cosa? Non aveva nessuna certezza nemmeno a questo riguardo.
Guardando bene, gli parve che non dovesse essere acqua, o perlomeno era mischiata con qualche altra cosa, perché aveva una leggera tonalità ambrata e poi era forse un po' troppo densa.
Provò ad alzarsi in piedi e ci riuscì: fortunatamente quella vasca non era troppo profonda. Nel compiere il movimento, si accorse di aver staccato dal suo corpo diversi tubicini che vi erano fissati con aghi simili a quelli delle flebo.
Fece leva con le braccia sul bordo della vasca e ne uscì.
Esaminò la stanza tutto intorno a sé: poteva essere oppure non essere una camera di ospedale con una vasca al posto di un letto, era un ambiente pulito, lindo, anonimo con le pareti smaltate di bianco. Contro una parete c'era un monitor con una serie di indicatori che non gli dissero assolutamente nulla.
La porta non era chiusa; l'aprì e uscì. Si trovò in un corridoio, un lungo corridoio anonimo circondato sui due lati da porte simili a quella della stanza da cui era uscito.
Arrivò alla fine del corridoio che girava di novanta gradi e svoltò. Andò a sbattere addosso a una ragazza che proveniva dalla parte opposta.
La giovane donna – piuttosto carina, notò – indossava qualcosa di simile a una divisa da infermiera e aveva retto fra le mani un vassoio metallico che era rovinosamente caduto a terra sparpagliando in giro dei medicinali, della garza, una siringa, una sacca da flebo.
L'espressione della ragazza era di imbarazzo e stupore, un imbarazzo e uno stupore che gli sembrò non dipendessero soltanto dal fatto che lui era nudo.
“Lei, Lei... cosa ci fa qui?” balbettò mentre si chinava a raccogliere il vassoio e i medicinali caduti.
“Non lo so” rispose lui chinandosi a sua volta ad aiutarla. “È quello che mi stavo chiedendo anch'io”.
La giovane sembrò essersi ripresa dalla sorpresa iniziale, indicò all'uomo una porta.
“La prego, aspetti qui”, disse. “Vado a chiamare il dottor Knight”.
Lui entrò: era una piccola sala d'aspetto con quattro poltroncine ricoperte di velluto azzurro e un basso tavolino dal ripiano di vetro.
Dopo poco, la ragazza tornò porgendogli una specie di accappatoio che lui indossò, poi si allontanò a passi rapidi.
L'accappatoio era di un bianco che appariva ragionevolmente pulito. C'era una stampigliatura in lettere azzurre sul bordo. L'uomo si aspettava di trovarvi il nome dell'ospedale, invece lesse: “UCLA, University of California Los Angeles, facoltà di Scienze naturali, dipartimento di biochimica”.
“Almeno”, pensò, “è consolante sapere che mi trovo ancora a Los Angeles e non sono vittima di una abduction su di un altro pianeta”.
Sulla parete opposta all'ingresso c'era uno specchio. Si avvicinò e si guardò.
Era lui, non c'era dubbio, riconobbe la propria immagine, tranne per la curiosa impressione che i suoi capelli fossero non solo più lunghi ma più folti di come li ricordava. Si guardò la punta delle dita. Era, o era stato perché adesso non ne sentiva minimamente la voglia, un accanito fumatore, e sulle punte delle dita erano sempre facilmente riconoscibili i segni gialli della nicotina; adesso invece non ce n'era la minima traccia. Questo poteva significare solo che non fumava da parecchi mesi, ma era stato parecchi mesi in coma o che cosa?
Guardò meglio la propria immagine allo specchio: da anni aveva un incisivo spezzato che con suo grande cruccio gli rovinava il sorriso: ora il dente era intatto, e la sua dentatura, per quel che poteva vedere, perfetta.
Cominciò a ripetere come un mantra, come per assicurarsi della propria identità:
“Mi chiamo Herbert Bramwell, ho 38 anni, sono alto 1 metro e 76 cm. Sono nato a San Francisco, California nel 2014, mi sono laureato in filosofia all'UCLA, Los Angeles nel 2036. Mi sono sposato nel 2040, ho un figlio, ho divorziato nel 2044. Ho svolto vari lavori. Attualmente sono, o meglio prima del ricovero ero direttore del personale in un'azienda informatica”.
Forse di per sé era un mantra abbastanza inutile, non aveva vuoti di memoria, la sua storia, la sua vita gli erano ragionevolmente chiare, ma in quel momento sentiva il bisogno di rassicurarsi della propria identità.
L'uomo in camice bianco che entrò nella saletta era giovane, alto, asciutto, dai capelli chiari precocemente stempiati e gli occhi azzurri, con una lieve traccia di efelidi sul viso.
“Signor Bramwell, buon giorno”, disse, “Sono il dottor Knight. Come si sente?”
“Bene, grazie”, rispose Hubert Bramwell. “Più in forma di quello che ricordavo di essere da un sacco di tempo, solo che ho una gran fame, mi sembra di non aver messo nulla in bocca da secoli”.
“Un po' di pazienza”, disse il dottor Knight, “e provvederemo, non si preoccupi”.
Poco più tardi arrivò l'infermiera che Bramwell aveva già conosciuto.
“Le ho portato da vestire”; disse, “maglietta e calzoncini. Per le scarpe non ero sicura della misura, e così le ho portato un paio di sandali infradito, se si accontenta”.
“Ok”, rispose lui, “andranno benissimo”.
“Vorrei sapere una cosa”, disse Bramwell rivolto al dottor Knight, “il dottor Johnson, il mio medico, che dovrebbe avermi operato, dove è adesso?”
Il giovane dottore parve in imbarazzo.
“Mi spiace”, rispose, “ma il dottor Johnson al momento non può essere qui. Posso dirle però che a quanto mi risulta è lui che l'ha operata e la sua operazione è riuscita perfettamente”.
Mentre i due lo lasciavano solo per permettergli di cambiarsi, Hubert Bramwell rimuginava su quanto gli era stato detto. Il dottor Johnson era il suo medico di fiducia e un amico, la sua assenza lo preoccupava.
Il dottor Knight aprì la porta e chiese:
“E' pronto per il nostro piccolo giro turistico?”
Hubert Bramwell annuì.
“Venga”, disse il medico, “strada facendo le spiegherò ogni cosa”.
Il luogo, constatò Bramwell, era molto moderno, molto pulito, molto grande; era come aveva potuto constatare dalla scritta sull'accappatoio, un ospedale ma all'interno del quale si trovava un centro di ricerche universitario. Il dottor Knight gli fece vedere di sfuggita le corsie dove si trovavano altri ricoverati, ma non si avvicinarono troppo. Non era il caso – disse il dottore – di disturbarli.
Le spiegazioni del dottor Knight avevano confuso Bramwell più che dargli chiarimenti.
Lui era, a quanto pareva, uno dei pazienti “speciali” del centro di ricerche, il termine “cavie” era un po' troppo brutto e probabilmente non rispondeva alla realtà. Bramwell però non riusciva a capacitarsi del perché: l'intervento a cui era stato sottoposto era delicato, comportando l'apertura della scatola cranica, ma non era particolarmente complesso e non richiedeva una tecnologia d'avanguardia, e soprattutto Hubert Bramwell non riusciva a capacitarsi di come mai non avesse nessun segno di un'operazione al cranio.
“Oh, ma sono imperdonabile”; disse il dottor Knight, “mi dimenticavo che lei è affamato. Venga che le offro una robusta colazione”.
A Bramwell sembrò che il dottor Knight avesse preso a trattarlo piuttosto come un ospite che come un paziente, a cominciare dal fatto che gli erano stati fatti indossare maglietta e calzoncini invece di un pigiama. La cosa gli andava bene, non si sentiva malato, tutt'altro!
Il dottore gli fece strada fino a quella che doveva essere la mensa del personale, una grande sala situata nella parte alta dell'edificio. Su un lato c'era una grande finestra panoramica. Era tipo self service, e in quel momento non c'era nessuno tranne loro due.
Bramwell si servì con generosità di latte, caffè, pane tostato, burro.
Si sedette a un tavolo e iniziò a mangiare. Gli sembrava di non aver mai assaggiato niente di più gustoso, di non aver mai avuto tanta fame in tutta la sua vita.
Il dottor Knight non aveva preso nulla.
“Penso che mi possa ascoltare mentre mangia”, disse.
Bramwell annuì.
“Io so che lei era”, proseguì. “Scusi, voglio dire è una persona colta, anche se non un ricercatore, uno scienziato. Penso che non avrà grosse difficoltà a comprendermi. Lei cosa sa della clonazione?”
“So che se n'è parlato molto diversi anni fa”, rispose Bramwell, “Ma poi le ricerche sono state abbandonate”.
“Io credo che si possa dire”, proseguì il dottor Knight, “che nessun altro campo della ricerca scientifica tra la fine del XX secolo e gli inizi del XXI sia stato oggetto di tante speranze e di tante delusioni. Per un certo periodo si è pensato che essa potesse essere il mezzo per realizzare il più grande sogno dell'uomo, l'immortalità fisica, ma si è presto capito che l'esistenza di un clone, di qualcuno che è il gemello di qualcun altro dal punto di vista genetico, non ha nulla a che fare con la continuazione o meno della vita della persona.
Si tratta in realtà di un procedimento relativamente semplice in teoria: si prende il nucleo di una qualsiasi cellula somatica di un essere vivente e lo si inserisce in una cellula-uovo privata del suo nucleo originale. Si fa sviluppare l'embrione in un utero, in un utero artificiale, in un uovo a seconda della specie, su di una cultura di agar-agar se si tratta di una pianta, e l'embrione che si formerà, la creatura che verrà alla luce sarà la copia dal punto di vista genetico, del donatore della cellula somatica che ne è di fatto l'unico genitore.
Ma c'è un grosso ma che ha portato per lungo tempo quasi all'abbandono di questo tipo di ricerche. Diciamo che in natura la clonazione è un fenomeno tutt'altro che raro. A parte il caso dei gemelli, lei sa che se una stella marina perde un braccio, non solo è in grado di rigenerarlo, ma dal braccio rotto può formarsi una nuova stella che è a tutti gli effetti un clone della precedente. Piante come le viti e i gerani si riproducono per talea: un tralcio o un rametto può diventare una pianta a sé stante che è un clone di quella da cui ha avuto origine. Ma quando parliamo di animali superiori come i mammiferi, le cose cambiano completamente. Immagino che lei abbia sentito parlare di Dolly, la pecora Dolly, il primo mammifero clonato, che venne alla luce in Gran Bretagna verso la fine del XX secolo. Questo povero animale cominciò a mostrare una serie sorprendente di acciacchi e morì precocemente. In pratica, Dolly era “nata vecchia” con l'età biologica dell'animale donatore della sua cellula somatica cioè del suo patrimonio genetico. La stessa cosa si è verificata, è sempre accaduta con gli altri mammiferi clonati. In sostanza, viene a mancare quel processo di rigenerazione che avviene con il normale concepimento e permette a ogni generazione di ripartire da zero. Questo fatto limita gravemente l'utilità della clonazione in zootecnia, anche se può comunque essere uno strumento prezioso nella lotta per preservare dall'estinzione specie a rischio, e la rende inapplicabile agli esseri umani, perché un uomo “nato adulto” senza aver potuto beneficiare della lunga infanzia, del lungo periodo di apprendimento caratteristico della nostra specie, sarebbe a tutti gli effetti un handicappato. Questo, naturalmente, a meno di non trovare la possibilità – mi permetta di usare questo termine – di clonare anche i ricordi della persona. In questo caso le possibilità potrebbero essere pressoché infinite, potremmo, per così dire assicurare particolari talenti scientifici, letterari, artistici da una sparizione precoce. L'idea di clonare persone dotate di particolari talenti artistici o scientifici è stata carezzata spesso. Provi a immaginare la possibilità di porre rimedio al fatto che il destino ci ha privati precocemente del talento di Raffaello o di Mozart. Solo che le cose non funzionano, non possono funzionare in questo modo. Se anche clonassimo un genio dell'arte o della scienza vivente oggi – non Mozart o Raffaello il cui talento è andato irrimediabilmente perduto – il suo clone ne erediterebbe soltanto la struttura genetica, non le esperienze della vita che hanno portato la sua personalità a evolversi in un certo modo ... a meno che ...”.
“A meno che?”, fece eco con aria interrogativa Bramwell che nel frattempo aveva smesso di mangiare.
“Provi a pensarci”, proseguì il dottor Knight, “dove è depositata fisicamente la memoria di una persona? Nelle sottili modificazioni che avvengono nel DNA delle cellule cerebrali”.
“Si”, obiettò Bramwell, “Ma per quanto ne so le cellule cerebrali, i neuroni non si possono riprodurre, è per questo che gli effetti di una lesione cerebrale, a differenza di altre ferite, sono irreversibili”.
“E' vero”, rispose il dottor Knight, “ma quella che si deve riprodurre non sono i neuroni, ma una cellula uovo contenente il DNA estratto dai neuroni, e le assicuro che lo può fare”.
L'espressione del dottor Knight cambiò, pareva quasi volersi scusare.
“Cosa avrebbe fatto lei al nostro posto?”, chiese. “Prima di iniziare ad aprire il cranio dei vari premi nobel per estrarne il DNA cerebrale, non avrebbe fatto un esperimento pilota? Noi avevamo sottomano un campione di tessuto cerebrale estratto a un paziente nel corso di un'operazione al cervello effettuata nel 2062”.
Fece alzare Bramwell e lo condusse davanti alla finestra panoramica.
Gli indicò il panorama urbano sotto di loro.
“Questa è sempre Los Angeles”, disse, “è sempre la città più estesa del mondo anche se non è la più popolata, la battono come popolazione Città del Messico, il Cairo e Tokyo, però oggi supera New York per numero di abitanti. E' ancora più estesa che ai suoi tempi, perché tutto attorno al centro urbano, come attorno alle aree di Hollywood, Glendale, Pasadena, Santa Monica, ci sono le favelas degli immigrati ispanici. Oggi è ancora più che ai suoi tempi caotica, tentacolare, pericolosa”.
Gli strinse la mano sulla spalla.
“Adesso capisce”, proseguì abbassando il tono della voce fin quasi a un bisbiglio, “perché il dottor Johnson, il suo medico di fiducia, non è qui? E' morto da quasi un secolo”.
Bel racconto, quello di Fabio: curato nella forma, avvincente nella storia.
RispondiEliminaUn bel racconto intrigante e sorprendente.
RispondiEliminaRacconto ottimo e ben documentato, ed è intrigante la memoria del DNA neuronale. Lo prendo come un'omaggio alla mia professione. Fabio... un collega?
RispondiEliminaDanilo Concas