Presso
i Greci del periodo arcaico, sotterrato nella tomba vuota, il Colosso
(kolossos) vi figura come il cadavere assente, tiene il posto del defunto. Esso
non incarna l’immagine del morto, ma la sua vita nell’aldilà. Quella vita che s’oppone
a quella dei vivi, come il morto stesso è il doppio del vivo.
Jean-Pierre Vernant, 2011.
Nei
tempi immemorabili da extraterrestri edificata, la grande statua raggiunse in
altezza i duecento metri. I piedoni poggianti su due piatti promontori, su una striscia
di mare, slargata al tergo del colosso in circolare baia. Per realizzarla, gli
extraterrestri sette giorni avevano impiegato. L’avevano allestita a loro
immagine e somiglianza. Aspetto che sarebbe pure il medesimo di Homo sapiens
sapiens cioè il nostro, secondo gli
standard ammessi dalle universali leggi evolutive. Con fisso sguardo, ammirava
ad occidente il lineare limite dell’orizzonte
marino. Essendo fisso il collo, ma non i globi oculari, si sforzava di
osservare quanto più poteva ruotando gli occhi in su, in giù, verso destra ed a
sinistra. Il resto doveva immaginarlo, oppure arguire di cosa si trattasse dai
rumori circostanti. L’anomala situazione avrebbe ricordato il mito della
caverna di Platone, dove i prigionieri incatenati dall’infanzia, dai piedi al
collo, costretti in una caverna buia potevano fissare solo il muro davanti a
loro. I malcapitati vedevano sulla parete le proiezioni di strane ombre che
ritenevano reali. Così, il colosso fisso immaginava le cose che del mondo
circostante non poteva osservare. Deduceva indizi solo con l’immaginazione
eterea, coniugando i dati con le immagini visive davanti a sé.
Un quarto di secolo
dopo, gli extraterrestri se ne andarono sconsolati, in perenne tristezza sia
per indole, sia per indefessa ricerca di un migliore mondo da colonizzare. Avevano
abbandonato in loco la statuaria mole, simile al Colosso di Rodi con coscioni
divaricati tra i quali potevano transitare
nella sottostante lingua di mare, navi in fila indiana.Nel renderla cosciente,
gli extraterrestri avevano applicato la migliore tecnologia, calcoli
allometrici alla mano e strambe formule. Avevano assemblato complesse reti cerebrali
e congegni, collegati da fibre ottiche, rendendo il gigante statuario quanto
più vicino possibile agli esseri viventi, con mente sapiente. Miliardi di
nanotubi collegati a microchip ne resero la memoria illimitata,
o quasi così come il resto della mente. Circuiti
sottili avvolsero l’immenso corpo, coperti da silicea superficie dermica. Circuiti a mo’ di nervi periferici che a nulla servivano
tranne che a conferirgli esterocettiva sensibilità
e percezione circa il grado di umidità,
di caldo e freddo, riferite all’aria circostante. Nel meato uditivo interno
c’era l’apparecchio acustico, ma non quello dell’equilibrio statico che non
serviva per una statua priva di movimento. Input ed output provenienti dalla
superficie corporea raggiungevano i suoi centri cerebrali, elaborati
all’istante. Immagini visive si formavano a partire dal vasto tappeto retinico
degli occhi e passate tramite i nervi ottici alle preposte aree visive per la
ricomposizione delle immagini del mondo reale che gli si espandeva sul davanti.
Non aveva sensibilità
dagl’interni organi e di conseguenza, non soffriva il mal di pancia e quello di
stomaco. Di certo, il siliceo corpo non aveva apparato digerente come il nostro
con fegato e pancreas.
Ebbe degli umani la vista
perfetta. Ebbe sensori auricolari paragonabili a quelli che in noi collegano il
timpano al nervo acustico, agli acquedotti vestibolari e cocleari. Ebbe un
perfetto organo del Corti in entrambi i meati uditivi interni e la fessura
delle trombe di Eustachio nella parte profonda delle fauci.
Con l’orecchio
sensibile, percepiva suoni e rumori di vario tipo: alti sonanti, acuti, bassi,
o gravi. Ebbe l’olfatto e sulla lingua le papille gustative che gli servivano
solo per gustare la saliva il cui sapore variava a seconda del chimismo interno.
La grande opera di pietra chiara con le narici respirava, sia pure piano ed in
modo superficiale.
Dal terreno, il
colosso trasse minerali, acqua e sostentamenti azotati, come fanno le piante d’alto
fusto che utilizzano i fenomeni fisici della capillarità.
Non si cibava oralmente avendo le mandibole inamovibili. Sostentamenti riceveva
dai piedi, aspiranti nutrimenti come profonde radici. Come le piante, però non ebbe
amido, tramite la fotosintesi fogliacea,
avendo umana pelle. Come talune leguminose, fissava azoto e traeva zuccheri da
batteri simbionti, proliferanti sotto le palme dei piedi. Questi artefatti
avevano progettato gli extraterresti nel dargli vita
ed intelligenza con un corpo perfetto, ma immobile. I cataboliti del corpo statico riversati erano all’esterno
attraverso due condotti: l’uretrale e l’anale. Se il gigante di pietra
uomo-simile avvertiva bisogno di urinare o di defecare, emetteva di tanto in
tanto un liquido giallino scrosciante nel sottostante mare e defecava polverina
bianca, simile a sabbia tra le chiappe fuoriuscente, in mare ricadente se non
dispersa dai venti.
Fu rigido, statico ed
immobile come un masso inanimato. La testa fissa davanti a sé scrutava l’orizzonte
marino ad occidente. Le mani tenute parallele al corpo. Come detto, poteva
roteare i grandi globi oculari, scrutando la vastità
dell’orizzonte davanti a sé. Abbassando la vista, osservava la lingua di bagnasciuga
ai suoi fianchi e la striscia di mare che gli entrava da sotto, in mezzo ai
divaricati coscioni. Con rancore, si chiedeva perché i suoi artefici lo avessero
costruito come statua silicea
gigantesca, ma cosciente. Al mattino, aspirava zeffiro salato dalle superficie
marine spirante ed osservava la vastità
dell’azzurrina cupola, addiveniente a volte cupo e nuvoloso. Cosciente fu di essere
su un’isola perché nel suo cervello gli artefici gli avevano inculcato certezze
inamovibili. Però, spesso si chiedeva quanto grande fosse l’isola disabitata. Ammirava la vastità
dell’oceano innanzi a sé fluttuante che si congiungeva in lontananza col
celeste zenit, azzurro e luminoso. Impossibile vedere tutto ciò che aveva
attorno. A volte, udiva il vento furioso ululare nel bosco informe alle sue
spalle e gli scrosci della pioggia in improvvisi brevi temporali: rigagnoli d’acqua
lungo il fisso corpo. Durante le brevi tempeste, il maroso cinereo sollevava
grandi onde, alcune delle quali ruinando sulla spiaggia, gli
accarezzavano i piedi fino agli stinchi.
Se il cielo era terso,
la notte mille stelle osservava roteando in alto il più possibile le oculari
sfere, come due cannocchiali astronomici. Sapeva a memoria le costellazioni,
avendo insite certezze. Osservava la
luna piena e le fasi dell’argenteo astro, spesso dal mare sorgente proprio
avanti a sé. A volte, con beata faccia luccicante, la luna piena sembrava
animarsi come un vero volto e l’osservava, di lui affascinata. Tutto era
movimento e cangiante forma. La notte succedeva al giorno che si disfaceva in
notturne ombre. Rossi tramonti ed albe dalle rosee tinte, frapposte incessanti
all’andare dei giorni e delle cupe notti. Nel grande bosco, c’erano notturni e
diurni animali. Lo deduceva dai rumorii e canti emessi: grugniti, latrati, ululati, guaiti,
striduli ragli, nitriti, canti melodiosi e melliflui di usignoli, schiocchi,
gorgheggi, cinguettii ed acuti squittii,
anteposti alle rosee tinte dell’alba.
Nella ricca sinfonia
notturna, cori d’insetti e di rane riempivano l’aria pregna d’umido,
accompagnati dal ritmo della
condensa sgocciolante dalle foglie. In qualunque ora del giorno o della notte,
distingueva rumori e canti d’animali arboricoli, aviari, anfibi, notturni,
diurni, carnivori, erbivori, od onnivori. Pause di silenzio interrompevano
selvagge strida nella strenua lotta di sopravvivenza. Nel mutismo della natura
muta, avvertiva sensazioni che dalla stasi corporea invadevano tenebrose fissità.
Tagliata da burroni, di
circa seimila metri quadri, l’isola offriva i paesaggi tra i più caratteristici
del mondo. Ai piedi delle rocce a strapiombo, piccole spiagge solitarie, adatte
alla nidificazione di gabbiani ed albatri. Ampie distese boscose ed anfrattuosità petrose, popolate da leoni, leopardi, ghepardi,
iene, bufali, lupi, sciacalli; poi oranghi, gatti selvatici, linci, giraffe,
zebre; poi piccoli animali come donnole, scoiattoli, istrici, ricci, marmotte,
lepri. Numerose le razze di scimmie, non mancando i cinghiali e le antilopi.
Tra i volatili, lo struzzo nella pianura più occidentale. Nelle restanti zone, pensava,
ci saranno pure avvoltoi, falchi, ottarde, cicogne, faraone, francolini,
pernici, gabbiani; molte specie di pappagalli, gazze, piccioni, tortore; poi
ancora corvi, pellicani, ibis, passeri, rondini ed infine una grande varietà di
bengalini e di colibrì di piccole dimensioni e di meravigliosi colori. Il sospetto
era fondato perché vedeva alcuni di quegli uccelli svolazzargli attorno, o ne
sentiva il canto nel fresco, statico albeggiare. Alcuni volatili gli si
posavano sul capo e sulle spalle. Alcuni grossi predatori cominciarono a
nidificare nel cavo sotto mentoniero.
Questa certezza il
colosso ebbe insite nella memoria a
lungo termine: l’isola è deserta d’individui umani. Altre certezze riguardavano
gli animali domestici che l’attorniavano qua e là nell’entroterra: il cavallo,
il muletto, l’asino, la pecora, la capra, il cane, il gatto e galline in quantità. Tutti animali trasportati ad hoc dagli
extraterrestri, prima della dipartita.
Si chiedeva sconsolato: Se potessi
camminare, almeno per un poco, pochi passi per di là e per di qua, potrei
osservare la variopinta flora e le specie faunistiche… L’isola, avrà di certo
una varia e vivida vegetazione arborea. Nella parte ondulata orientale ed in
vasti tratti della zona rocciosa del sud, la costa sarà pure ricoperta da
distese di arbusti spinosi e di acacie tra le quali le gommifere. Abbonderà la
palma Dum e diffusa sarà anche la palma dattifera. Nella zona centrale, sarà
presente l’ebano, l’albero della mirra, dell’incenso ed una rara specie di
mogano.
Questi interrogativi gli
ponevano le complesse reti nervose, elaboranti computazioni quantistiche come
base alla coscienza, inserita in quella testa inespressiva ed incantata.
In anticipo sulla procella, albatros e
gabbiani volteggiavano posandosi sulle gigantesche spalle, prima di riprendere
il volo sul maroso. Di notte, udiva dal bosco le improvvise acute strida dei
predatori ed i fruscii violenti tra le frasche di ch’insegue e di chi cerca la
rapida fuga, saltando e dileguandosi in folta frasca. Non c’erano umani che
dopotutto conosceva non perché visti, ma perché anche in questo caso gli
extraterrestri suoi artefici, gli avevano inculcato queste certezze. Per
trascendenza sapeva che questi ominidi mai visti facevano parte della stirpe
degli Homo sapiens sapiens.
Molto tempo dopo la
extra terrestre dipartita, un popolo
in fuga approdò sull’isola remota. Dieci navi entrarono in baia, transitando tra le divaricate cosce del siliceo gigante.
Posti gli accampamenti in costa e procacciata acqua e viveri, i piumati
sacerdoti per prima cosa osservarono con attenzione il colosso di pietra.
Videro che aveva aspetto umano, ma inusitato.
Qualcosa d’indefinito lo allontanava
dalla materia. Qualcosa di portentoso era insito, ma strettamente connaturato
nella scultura. Il colosso urinò nella sottostante lingua acquosa, congiungente
la baia al mare aperto. Il fragoroso breve scroscio fece sobbalzare tutti, non
solo i sacerdoti, ammantati e piumati. Poco dopo, ebbe la pulsione a defecare e
tutti videro fuoriuscirgli dalle chiappe la bianca polvere come arena, prodotto
del suo catabolismo limitato. Non emise escrezioni intestinali come le nostre putrescenti
feci.
Per questo e per altri
motivi oscuri, il colosso fu ritenuto
un dio. I nuovi arrivati approntarono sacrifici umani ed augurale sangue rubino,
commisto a quello di animali sgozzati ad hoc sul posto, prese a scorrere sulla rena di lato ai giganteschi
piedi. Alcuni gli videro roteare i globi oculari ed altri notarono i flebili
movimenti ritmici del costato, come
a respirare. I sacerdoti furono d’accordo:
Nella
statua spirito divino c’è.
Il gigante avvertì che
una città cresceva, circondando l’intera
baia. Navi gli transitavano di
sotto, tra le lunghe, non genuflesse cosce. Prima provò angoscia, ma poi fu
lieto della nuova compagnia. Navi veleggianti nella vastità
dell’oceano ondeggiante. Alle sue spalle, la città crebbe in numero e in
potenza. A giudicare dai sacrifici che ai suoi piedi riceveva, il popolo gli
era grato, attribuendogli meriti
divini che non possedeva. Sbirciò con la coda dell’occhio i potenti muraglioni
che si estendevano fin quasi sulla riva, anche se la baia ed il porto dovevano
essere prive di mura, aperte all’attracco delle navi. L’eventuale nemico poteva
attaccare la città solo
attraversando con una flotta la lingua di mare sotto di sé. Fece ruotare allo
stremo i globi oculari ed intravide una torre merlata sui declivi a destra.
Pensò che si trattava di un popolo guerriero, pronto a difendersi dai nemici.
Torri rettangolari cominciarono
a sporgere dalla muraglia ad intervalli di trenta metri ed in certi punti c’era
un ulteriore muro di difesa, a corona, ad una distanza di circa dieci metri,
rafforzato da bastioni poderosi. Nel lato nord, in direzione della parte
interna dell’isola, gl’ingressi erano fiancheggiati da grandi torri, alle quali
si univano l’estremità della muraglia: di quella principale e della secondaria.
Alte cancellate erette tra le torri. Rampe parallele alle mura immettevano nella
numerose porte di accesso secondarie. L’entrata principale della città era ampia e priva di rampe. Da lì, partiva la
mulattiera diretta a nord, fendente in due l’isola.
A meridione, il porto
a semiluna. Davanti alla baia, poggiante sulle basi erette su una minuta gola, si
ergeva il colosso siliceo, ai lati del quale su rispettive terrazze, erano
stati edificati due granitici
templi: uno in onore del Sole ed uno dedicato al dio del Tempo, Chronos. Per
questo, il colosso nomato fu dio del Sole e del Tempo. Se avesse potuto, avrebbe
gridato ai quattro venti:
IMMOBILE ED ETERNO
SONO, NON SONO IL TEMPO FLUENTE O IL SOLE CANGIANTE
Avendo assoggettato
altri popoli, desideroso di formare un grande impero, un acerrimo nemico prese
la decisione di attaccare l’isola e la città.
Il colosso vide la formidabile flotta nemica avvicinarsi al porto ed urinò per
avvertire la gente dell’ imminente pericolo. Per fortuna, le sentinelle sulle
turrite torri diedero leste l’allarme,
avendo scorto anch’esse la numerosa, inimica flotta. Coi vessilli rubicondi
della guerra, le navi degl’isolani fuoriuscirono leste dalla baia tra le cosce
statiche del colosso. Scontro navale cruento ci fu. Spinte a tutta forza dai
remi, dalla corrente e da furioso vento, galee nemiche piombarono sugl’isolani
con impeto irresistibile. L’antistante specchio di oceano coperto fu di rottami
e di cadaveri. Frecce infiammate e lanci di catapulte sfiorarono l’immobile
statua, senza scalfirla. Il nemico irruppe in baia. Invano, gl’indigeni
impetrarono l’intervento del colosso. Invano, gli si genuflessero.
Avvenne lo sbarco ed il colosso udì feroci
grida disperate. Scintillio di daghe, spade, asce, scudi ed elmi. Furore ed
urla strozzate. Odore acre di carne arsa, di architravi
legnosi e l’assordante fragore di case crollate. Con la coda dell’occhio, il
colosso allarmato vide le appendici della città
in fiamme. Il fumo fu tanto denso da offuscargli la vista, come nebbioso manto.
MENS ANIMI, TANTIS FLUCTUAT IPSA MALIS
Poi, fu silenzio e morte. Navi nemiche trionfanti gli transitarono
sotto le pudende, entrando in baia. Capì che i valorosi difensori erano stati
uccisi, che il nemico s’era impadronito dell’isola, la città distrutta e gli
abitanti trucidati.
I vincitori cogitarono
come trasportare nella capitale il colosso, ma fuggirono via con le rimanenti
navi da improvvisa pestilenza falcidiati, certi che la statua fosse a loro
ostile.
Terremoto
propiziatorio seguito da un grande
maremoto allontanò per sempre le ultime orde di sciacalli, avventatisi con
furia feroce ai piedi del colosso al fine di sradicarlo e spezzarlo. Gli
sciacalli cercavano di vedere se dentro di lui ci fosse oro. Altri movimenti sismici
avvennero nel tempo et in saeculis saecularum la statua sia pur
altissima, lentamente s’inabissò. Ci fu un lento bradisismo negativo dalla
parte del colosso e positivo nella
zona opposta dell’isola.
Per decenni, gli occhi
ciclopici furono quasi tangenti alla linea del maroso, scrutando l’elevarsi
delle onde luccicanti. Poté respirare con le narici, affioranti di poco sulle
azzurre creste del mare. Se l’oceano era adirato con sollevamento di montagne
liquide, riusciva nonostante tutto a respirare, trattenendo di volta in volta
il fiato. Temette che la terra sprofondasse, che s’immergesse per intero in
acqua, che morisse divenendo in tutto e per tutto inanimata statua.
Arrivò un gruppo d’elicotteri
e qualcuno lo notò. Arrivarono in tempo dei sommozzatori. Equipe televisive lo
ripresero da tutti i lati. Molti scrissero sui giornali e molti libri diffusero
notizie sul gigante torreggiante e dalle remote, oscure origini. Si disse della
vera ottava meraviglia, mirabolante opora d’ignoti artefici. Alcuni mistici
furono certi della sua natura divina. S’indagò su oscuri popoli Amerindi non
proprio Americani, non proprio Indiani né Indo-europei. Altri affermarono di
Neandethaliani, autori veri del colosso indistruttibile. Altri di arte neolitica. Vattela pesca la verità.
Sull’Osservatorio Romano fu scritto a grandi lettere:
TUTTO CIO CHE FU
FATTO, IN LUI FU VITA.
L’isola era situata in un punto della Terra che ricadeva nel
protettorato USA. Il rigido gigante sia pur cosciente, sarebbe stato posto sul
piedistallo in sostituzione dell’obsoleta
statua della Libertà, semi danneggiata da vandalici atti. Qualche scienziato
aveva sospettato che il gigante non fosse stato una vera statua, almeno nei
tempi andati. Qualcuno aveva intuito l’esistenza delle sottoli reti di
capillari che dalle palme degl’impressionanti piedi assorbivano liquidi e
sostanze organiche. Tuttavia nessuno aveva dimostrato ciò che sospettava. Qualcuno
aveva anche intuito che in un certo modo la gigantesca opera poteva trarre un
qualche nutrimento per simbiosi coi batteri del sottosuolo. Se ciò fosse stato
vero, la statua sia pur di pietra silicea, era vivente. Erano ipotesi troppo
azzardate e nessuno volle rischiare a pubblicarle, temendo la derisione.
Situata sulla Liberty Island nel porto di New York, il
gigante fisso avrebbe visto il variabile paesaggio coi ruotanti occhi. Avrebbe
visto le navi mercantili e passeggeri transitargli
tra le cosce ed aerei supersonici sfiorarlo roboanti. Avrebbe pregustato l’aria
fumosa di una grossa metropoli, udendo nella notte il continuo rumorio delle
auto sul ponte di Manhattan spegnersi per riprendere fragoroso la mattina. Si sarebbe
percepito come una entità importante, simbolo della Libertà USA e forse
dell’intero pianeta. Di certo, in cuor suo, avrebbe riso del nuovo stato. Egli
immobile, simbolo di basilari libertà.
Studiosi e politologi
affermarono che la grande statua era uno dei punti di frattura tra le civiltà.
Da un lato la tecnologia e dall’altro la barbarie.
Nessuno fu capace di
evidenziare ciò che si andava sospettando, tanto meno scienziati bio-fisici,
biologi molecolari ed esperti di micro-sistemi ambientali. Nessuno capì davvero
che il gigante traesse nutrimento e vita
oltre che dall’aria circostante anche da sotto i nudi piedi, tramite micro pori al sottosuolo connessi. Sebbene su
due piedistalli di cemento, le invisibili e possenti, capillari forze,
coadiuvate da enzimi silicio e calcio litici, aprirono microscopici canalicoli
nel cemento armato su cui poggiava adesso. In poco, trasse dall’acqua salmastra
nuova linfa a dire il vero non tanto pura come quand’era stato nella sperduta
isola, davanti ad una deserta baia. Alcuni notarono che la silice ricoprente lo
statico corpo era mutata, diventando un poco verdognola, in particolare a
livello delle guance e cosce. Il mastodontico corpo si andava adattando ai tossici
locali. Ecco la spiegazione. Resistente fu alle variazioni climatiche,
alimentari ed ambientali.
Imperterrito svettante contro le ondate della Storia, presagi
traeva dall’orizzonte. Immutabile e cosciente, avvertiva oscuri eventi. Spesso
ripeteva in mente:
TROPPI STRONZI. QUESTO PIANETA NON
SOPRAVIVERA’ A LUNGO.
Racconti, come al solito, molto originali e ben scritti quelli di Giuseppe.
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