lunedì 7 dicembre 2015

STELLA, STELLINA di Fabio Calabrese


«Stella, stellina, la notte s’avvicina, la mucca e il vitello, la pecora e l’agnello...»
Agata interruppe la filastrocca che stava canterellando e, non riuscendo più a trattenere i singhiozzi, diede sfogo ad un pianto sommesso, piano piano, perché aveva paura che “lui” potesse tornare a picchiarla.
Lo scantinato dove l’avevano rinchiusa era un luogo stretto e buio, minaccioso e tetro, eppure Agata lo sapeva che, curiosamente, quelle ombre misteriose e minacciose che si staccavano appena dal sottofondo buio, se lo spioncino lassù in alto, fuori della sua portata, fosse stato aperto e la luce fosse potuta entrare a fiotti, quelle ombre si sarebbero trasformate in oggetti comuni e innocui: vecchie cassette di frutta e bottiglie impolverate, due bombole di gas vuote, un copertone d’automobile, ma questo non le impediva di avere paura, paura, paura...
Agata sapeva anche, ed era la cosa che le faceva più male, che se fosse stato vivo il suo papà, quello vero, le cose sarebbero state molto diverse.
Facendo uno sforzo su se stessa, cercò di asciugarsi gli occhi con il dorso della mano; sapeva che piangere sarebbe servito solo a farla sentire peggio. Cercò di riprendere la canzoncina.
«Stella, stellina...»
Anche quello non serviva a molto, il sommesso filo di voce che le usciva dalla gola era rauco al punto che stentò a riconoscerlo per il proprio.
«Oh perché, papà?», tornò a chiedersi per l’ennesima volta.
Ma conosceva la risposta anche a quello: la gente non muore perché lo vuole, capita e basta, e quando una persona non c’è più, non ci si può fare niente.
Se ne ricordò all’improvviso, eppure ce l’aveva lì nella tasca dei jeans, che le faceva un piccolo groppo, ancora avvolto in un pezzo di carta chiuso da una striscetta di scotch, il suo tesoro più prezioso, il suo talismano che le aveva regalato la signorina Martini. Lo prese, disfece il pacchetto ed appallottolò la carta rimettendosela in tasca. Anche se là dentro era buio, Agata sapeva bene di che si trattava; dopo che la signorina Martini gliel’aveva dato, aveva rifatto il pacchettino mettendoselo in tasca, ma un’occhiata era bastata, ed era strano, vedendolo si era sentita allargare il cuore come non le succedeva da molto tempo: era un ciondolo, una catenina di finto argento con una sferetta di un bel colore azzurro luminoso.
Lo teneva nella mano stretta a pugno, e si accorse di poter scorgere una tenue luminosità grigio-azzurra che filtrava negli interstizi fra le dita. Aprì il palmo della mano e, oh davvero, al buio la sferetta del ciondolo emanava una tenue luminosità azzurra. Ebbe un tuffo al cuore, ora aveva la luce, poca, ma quanto bastava per fugare i brividi più angosciosi, un’arma contro le ombre minacciose che strisciavano intorno a lei.
Improvvisamente, ora che la paura non c’era più, o almeno si era ritirata in qualche angolo buio ai margini della sua coscienza, si accorse di quanto fosse stanca e intorpidita. Sapeva che lo scantinato era pieno di polvere, e se si fosse sporcata gli abiti, “papà” avrebbe potuto farle una scenata e punirla di nuovo; era successo altre volte, e mamma come al solito non avrebbe detto niente, perché
mamma aveva paura di lui.
C’era una veccia coperta accuratamente ripiegata, sotto un mucchio di giornali vecchi, proprio in cima alla pila delle cassette di frutta. Andò a prenderla tenendo il ciondolo sollevato davanti a sé come una lanterna. In realtà, la luminosità del ciondolo le permetteva appena di scorgere un vago profilo degli oggetti quando si trovavano a non più di un palmo, e se non avesse conosciuto bene lo scantinato, non avrebbe potuto muoversi con quel vago baluginio, ma l’importante non era questo, l’importante era che il ciondolo teneva lontana la paura.
Prese la coperta e la srotolò distendendola per terra; vi si adagiò sopra e chiuse gli occhi: ad occhi chiusi era più facile immaginare che quella fioca luminosità fosse una grande luce azzurra che riempiva ogni cosa intorno a lei, rivelando un paesaggio incantato color turchese.
«Stella, stellina
La notte s’avvicina.
La fiamma traballa.
La mucca è nella stalla.
La mucca e il vitello.
La pecora e l’agnello.»
Aveva ripreso a canticchiare, a dipanare la filastrocca, questa volta senza emettere suoni, solo nella sua mente.
«Stella, stellina.»
Provò ad immaginare che un’altra voce si mescolasse alla sua, quella di papà, come facevano quando era vivo. Quante filastrocche avevano cantato assieme! Quante favole le aveva raccontato, povero papà.
«Stella, stellina.
La notte s’avvicina.»
Funzionava, funzionava davvero!
«Coraggio, piccola», immaginò che le dicesse, «Sono tornato, sono tornato per sempre, non ti lascerò più.»
«Ora dormi, bambina», continuava la voce di suo padre, «Hai avuto una giornata tremenda e sei stanca, “lui” non verrà ancora ad aprirti prima di un’altra mezz’ora.»
Si appisolò.
«Agata, Agata!»
«Si, papà, che c’è?», chiese con voce insonnolita, mentre stirava meccanicamente le braccia.
«Agata, svegliati, “Lui” sta per venire ad aprirti. Devi mettere via la coperta, lo sai che ti punirà di nuovo se scopre che hai messo in disordine.
Agata aveva l’impressione confusa che papà avesse ragione, aveva detto mezz’ora, e doveva essere passata mezz’ora, ma lei aveva la sensazione di essersi appisolata solo per pochi minuti.
«Ricorda ancora una cosa, bambina, lui non deve mai, mai vedere il ciondolo, e per ora è meglio che non ne parli nemmeno con mamma.»
Aveva appena finito di rimettere a posto la coperta e ficcato il ciondolo in tasca, quando la porta si aprì, lasciando scorgere nel vano illuminato la sagoma massiccia del suo patrigno.

* * *

Firenze, considerata nel suo complesso, non era molto diversa da qualsiasi altra città d’Italia o dell’occidente industriale, con i consueti problemi delle vie intasate dal traffico, il rumore, l’inquinamento, la gente che, come per ogni dove, se ne andava in giro per i fatti suoi frettolosa e vagamente irritata, come se la vita l’avesse ingiustamente privata di qualcosa, e in realtà doveva essere proprio così, anche se ad Elda Martini qualsiasi luogo sarebbe andato bene in quel momento, pur di essere lontana per un po’ da Torino, dalla sua vita di tutti i giorni e dai suoi guai. Ma il centro storico della città era una specie di isola in cui poteva quasi sembrare che fosse ancora viva un’eco di altre epoche: piazza del Duomo, il duomo stesso, il battistero, il campanile di Giotto, la loggia dei Lanzi, Palazzo Vecchio, più lontano il Ponte Vecchio, sotto cui scorreva un Arno che di anno in anno sembrava farsi più esiguo, con i sassi del greto sempre più costellati di erbe.
Lo conosceva bene il centro storico, non era la prima volta che veniva lì, ma lei e Francesca dovevano in qualche modo rifarsi con una bella camminata, di aver trovato gli Uffizi chiusi.
«Questa è una cosa che non capirò mai», aveva commentato, «A cosa serve che in Italia abbiamo il più ricco patrimonio artistico del mondo, specialmente in una città come Firenze, se tutte le volte che vuoi andare a vedere un museo, lo trovi chiuso.»
«Cos’ha detto Mario», chiese Francesca, «Quando gli hai detto che venivi a Firenze da sola?»
Elda strinse con la mano la spalla della cugina, in un gesto che era una ricerca di femminile complicità.
«Ha sbuffato, naturalmente», rispose, «Ma io l’ho mandato al diavolo. Se non è disposto a concedermi certe piccole libertà, può anche scordarsi di pensare a sposarmi. E poi, come dice il proverbio, pasqua con chi vuoi.»
La zona dei lungarni antistante Ponte Vecchio era gremita di gente, e si camminava a fatica. C’erano le bancarelle e, sempre più numerosi, i banchetti degli ambulanti extracomunitari. Francesca le aveva spiegato che almeno la metà di loro era senza licenza, e spesso neppure in regola con il permesso di soggiorno: venivano in Italia con il passaporto turistico, o da clandestini, e ci restavano, per voltare le spalle alla miseria dei loro paesi.
Gli occhi di Elda incontrarono quelli di un giovane africano: le due cornee spiccavano tra il nero delle iridi e quello della pelle, aveva una strana bellezza remota, come un idolo imperturbabile e ieratico. Si chinò ad osservare la sua mercanzia appoggiata su di un paio di quei cartoni rivestiti di velluto nero del tipo usato nelle vetrine dei gioiellieri, solo consunti e impolverati: una piccola maschera africana, statuine di avorio, catenine, pendagli, anellini che montavano piccole pietre dure.
«Non dirmi che t’interessa questa chincaglieria», disse Francesca, «non dimenticare che se costa due soldi, non ne vale più di uno e mezzo.»
«Non per me», disse Elda Martini, «voglio fare un regalino ad una mia alunna.»
Aveva preso una catenina di fattura alquanto semplice, con un ciondolo che era una sferetta di un azzurro brillante, intenso, quasi luminoso.
«Che cos’è?», chiese al venditore.
Il giovane dalla pelle d’ebano fece un gesto con la mano, ad indicare di non aver capito.
«Cos’è? What Matter?»
«Oh...pietra-di-cielo.»
Elda acquistò il ciondolo, e mentre il giovane immigrato l’incartava per consegnarglielo, notò che avrebbe dovuto rifare il pacchetto per renderlo appena presentabile.
«Pensavo che volessi scordarti della scuola in questi giorni», disse Francesca.
«Si», rispose Elda, «ma questo è un caso diverso: è per Agata.»
«Quella bambina meridionale?»
«Già, povera figlia, è di una famiglia siciliana, se si può chiamare famiglia quella che si ritrova...Il padre è morto qualche anno fa, e la madre si è risposata. Il patrigno le tratta tutte e due in modo brutale; spesso la bambina viene a scuola con dei lividi.»
«Ma perché lei non lo lascia?», domandò Francesca.
«Beh, credo che dipenda da lui economicamente. Sai com’è con queste donne meridionali: in genere non hanno né un livello d’istruzione, né sono preparate psicologicamente ad avere un lavoro, le famiglie le scaricano direttamente al futuro marito preparate a null’altro che a fare le casalinghe. E’ per questo che sotto Roma ci sono pochi divorzi...altro che senso della famiglia, puah!»
«Hai pensato di segnalare la cosa ad un’assistente sociale?»
«Si, ci ho pensato spesso, ma non servirebbe a niente, dalle nostre parti ne hanno a pacchi di casi del genere. Figurati poi se un siciliano permette a qualcuno d’interferire nelle faccende di casa sua, e poi se viene a sapere che Agata parla a scuola di quel che succede a casa, è capace di essere ancora più violento con la bambina. La cosa migliore è quella di stare vicina alla piccola, e di farle sentire che c’è almeno qualcuno che le vuole bene.»
«Dimmi», chiese la cugina, «lì da voi a Torino c’è sempre tanta ostilità tra nativi e immigrati meridionali?»
«Beh, in superficie è tutto calmo, ma se gratti un po’ sotto, senti correre la tensione elettrica.»
«Beati voi», disse Francesca, «Firenze, lo vedi, si sta trasformando in un suk.»
Più tardi, a casa di Francesca, le due donne esaminarono il ciondolo.
«Il venditore l’ha chiamata pietra di cielo», disse Elda. «In effetti, ha un bel colore azzurro-cielo. Sono convinta che ad Agata piacerà, anche se probabilmente è una cosa di nessun valore.»
La cugina prese a sua volta in mano la sferetta.
«Solo», disse, «che non mi sembra per niente una pietra, piuttosto vetro o qualche specie di plastica trasparente con dentro del liquido azzurro.»
La ruotò fra le dita.
«Se ci fosse una bolla d’aria o qualche impurità qua dentro, lo si potrebbe capire.»
«Ehi», disse Elda, «hai pensato che “pietra di cielo” potrebbe anche voler dire un meteorite, che magari questa cosa è saltata fuori da un aerolito?»
«Forse hai ragione, non ne ho mai viste di pietre come questa.»

* * *

«Papà!»
«Si, Agata, cosa c’è?»
«Ti prego, aiutami, non ce la faccio.»
Agata aveva compreso che quella voce misteriosa, tanto simile a quella di suo padre, non era in realtà il suo spirito tornato per aiutarla, era qualcosa d’altro, ma era pur sempre una presenza buona e gentile che la faceva sentire meno sola, ed aveva continuato a chiamarlo papà per forza d’abitudine.
«E’ troppo complicato per me, non ce la faccio.»
«C’è qualcuno che ti sta guardando?»
«No.»
«Allora sbottona il collo della camicetta, così posso vedere il foglio...brava...che strano, numeri in base dieci, non sono molto pratici: è molto più comoda la base dodici, bei quozienti interi per tre quattro e sei, 1,5 per otto e quattro terzi per nove.»
«Scusa papà, ma non ci capisco niente.»
«Lascia perdere, piccola. Prendo io il comando.»
«Cosa devo fare, papà?»
«Soltanto stare tranquilla, chiudere gli occhi e rilassarti un attimo...ah, prima riabbottonati la camicetta.»
Agata ubbidì e si lasciò andare. Di colpo, non si trovava più a scuola, rannicchiata nel suo banco, davanti alle formule per lei esoteriche e scarsamente decifrabili di un compito di matematica, no, le pareva di sognare, anche se si sentiva perfettamente cosciente e lucida: le pareva di nuotare dentro uno strano universo azzurro cobalto, punteggiato qua e là da brillii bianchi. Si sentiva senza peso, e si accorse che poteva muoversi senza sforzo in ogni direzione: avanti, indietro, a destra, a sinistra, sopra, sotto. Non vedeva il proprio corpo né le proprie mani. Cercò di guardarsi le mani portandole all’altezza degli occhi. Buffo, non le vedeva, erano invisibili; no, proprio non c’erano, e non c’era nemmeno il resto del suo corpo, e neanche gli occhi: era soltanto un punto, una coscienza disincarnata che fluttuava in un indefinito spazio azzurro. Pensò che forse avrebbe dovuto avere paura, ma non riusciva ad averne, avvertiva soltanto un senso profondo di serenità e di pace.
Se qualcuno avesse osservato Agata in quel momento, avrebbe visto che i suoi occhi erano diventati azzurri, ed emanavano un singolare bagliore luminoso. Chi avesse potuto osservare il ciondolo sotto la camicetta, si sarebbe anche potuto accorgere che in quel momento la sferetta era divenuta di uno spento colore grigio cinereo, ma Agata teneva lo sguardo chino sul banco e gli occhi fissi sul foglio del compito.
La testa, le spalle e il busto non si muovevano, se non nel riflesso automatico della respirazione; solo la mano, il polso, il braccio destro si muovevano come dotati di vita e di volontà autonoma, la penna vergava il foglio del compito di righe e righe di formule in modo insolitamente metodico, senza soste dovute all’incertezza e neppure all’intorpidimento delle dita.
Se un perito calligrafo avesse esaminato quel foglio, avrebbe potuto appurare che la scrittura era proprio quella di Agata, o forse imitata osservando direttamente i ritmi dei suoi centri cerebrali, ma innaturalmente regolare, senza le piccole variazioni nella forma e nelle dimensioni dei segni; solo che nessuno avrebbe mai pensato di sottoporre quel compito ad un esame grafologico.

* * *

Mariarosa era preoccupata. Da alcuni giorni in casa tutto sembrava filare liscio. Da quattro giorni Carmelo non aveva alzato le mani, anzi neppure la voce, nemmeno un sopracciglio con la piccola Agata, e Mariarosa sapeva ormai per esperienza che, quando succedeva questo, la calma apparente era inevitabilmente l’avvisaglia di un temporale grosso.
La donna cacciò un sospiro: se avesse dato un figlio a suo marito, forse non sarebbe stato tanto geloso della figlia di primo letto.
Riprese a sparecchiare, non senza aver sbirciato di sottecchi Agata che, quieta e silenziosa, s’era messa a studiare all’altra estremità della tavola, liberata dalla tovaglia.
Sua figlia era stata sempre timida e riservata, non le piaceva parlare, e soprattutto non le piaceva parlare dei fatti suoi, soltanto con il padre si apriva spontaneamente al dialogo, nemmeno a lei dava molta confidenza, specialmente dopo che si era risposata, ma negli ultimi tempi era avvenuto un cambiamento: la bambina, più silenziosa che mai, come se non fosse soddisfatta delle cose che doveva imparare per la scuola, si portava a casa mucchi di libri presi in prestito alla biblioteca pubblica ed a quella scolastica, e si trincerava dietro di essi leggendo, leggendo, leggendo. Se la interrompevi, ti guardava con una freddezza che ti metteva paura, e, per quel poco che Mariarosa riusciva a capire, erano tutte cose di cui Agata non s’era mai occupata, e di cui non era sicura che una ragazza facesse bene ad occuparsi: libri di scienze, di matematica, di fisica, dove non riuscivi a capire due parole in fila. Agata, pensava, avrebbe dovuto occuparsi di giocattoli e di vestiti, leggere cose come Grand Hotel o Gente, o se proprio dovevano essere libri, Liala o Bluemoon, che non sciupavano la femminilità delle ragazze, le aiutavano a sognare ed a prepararsi per quando avrebbero incontrato l’uomo della loro vita.
Mariarosa aveva sempre temuto, sotto sotto, che Agata potesse incontrare una di quelle insegnanti femministe che rovinavano le fanciulle mettendo loro in testa idee assurde, e sembrava che fosse successo proprio questo, ma non era ancora tutto: come se non bastasse, Agata aveva da un po’ di giorni quell’aria assente, come se non gliene importasse niente di tutto quello che avveniva intorno a lei, e rispondeva a monosillabi, senza mai mettere più di due parole in fila. Istintivamente, infossò la testa nelle spalle, incurvandosi come un albero che si prepara a ricevere le raffiche di vento della tempesta, intrise di scrosci di pioggia gelata. Quando Carmelo s’arrabbiava, andava su tutte le furie, ed erano troppi giorni che era troppo calmo, troppo tranquillo.
Si riscosse come da un sogno stuporoso, non poteva permettersi di starsene lì a fantasticare, c’erano troppe cose da fare in casa.
S’affacciò alla finestra della cucina per scuotere le briciole di pane dalla tovaglia sparecchiata. La finestra dava su di un cortile interno, piccolo e piuttosto squallido: un rettangolo lastricato di pietra, che solo i piccioni degnavano di qualche interesse, e costellavano dei loro rifiuti. E l’unica nota verde era rappresentata dalle macchie di muschio che crescevano sui vecchi muri e tra le connessure del lastricato. Contro il muro laterale, non lontano da lei, ad una distanza tale da poterlo agevolmente toccare con il manico d’una scopa, c’era un grosso mucchio informe di pietrame muscoso e di cemento sgretolato, forse un avanzo di qualche vecchia costruzione che, chissà perché, era stato lasciato lì.
Non seppe spiegarsi perché il suo sguardo era stato attratto in quella direzione, lì non c’era niente che non ci fosse da anni, neppure un gatto tignoso od un piccione. Per un momento, quel cumulo le diede l’impressione del corpo aggobbito d’un animale. Era strano, però, quando era bambina, le piaceva passare delle ore guardando la forma delle nuvole, o quella di strane rocce, oppure i tortuosi sentieri tracciati nel cielo dai rami degli alberi, divertendosi a cogliervi le forme di uomini a cavallo, di dame dai vestiti vaporosi, di animali comuni od araldici, come i draghi rampanti o gli unicorni sugli scudi dei principi delle favole. Ma erano anni che non si perdeva più in quelle assurde fantasticherie, anni ed anni.
«Ma cosa mi sta succedendo?», si chiese.
Sentì un brivido passarle nelle ossa. Istintivamente, sapeva che la tempesta era vicina.

* * *

«Papà, ma perché vuoi sapere tutte queste cose?»
Agata sapeva che la presenza nella pietra non era in realtà suo padre, ma chiamarlo così le dava conforto. “Lui”, quell’altro, il marito di mamma, non l’avrebbe chiamato papà nemmeno se l’avesse spellata viva.
«Perché è il mio lavoro, piccola. Io sono un esploratore, devo capire il vostro mondo e poi riferire: i parametri fisici, la chimica, la vostra biologia, l’ecologia, il modo in cui sono organizzate le vostre società, la politica, la storia...dimmi se sto parlando in maniera troppo difficile per te.»
«Papà.»
«Si?»
«E poi, cosa farete?...Voglio dire, se volete sapere tante cose, avrete delle intenzioni, cosa ci farete? Cosa farete di noi?...nel posto da dove vieni, dovete essere molto in gamba.»
«Non lo so, piccola, non spetta a me decidere; io devo osservare, riferire e basta. Ora fammi vedere i libri.»
Agata tolse dalla cartella quegli strani, pesanti volumi, e scorse i titoli mentre li metteva sul tavolo: Il tramonto dell’occidente di Oswald Spengler, La teoria dello sviluppo capitalistico di Paul M. Sweezy, Eros e civiltà di Herbert Marcuse, Psicopatologia della vita quotidiana di Sigmund Freud.
«Il bibliotecario ha fatto una faccia, quando li ho presi in prestito!»
«Dai, piccola, fammi leggere!»
Mentre chinava il capo sui libri, gli occhi di Agata divennero improvvisamente di un azzurro intenso.

* * *

Era una giornata di scirocco, umida e nuvolosa: il cielo era imbrattato di sporche nubi grigie, ed una nebbiolina fredda saliva dalle acque del Po, su, fino ad entrarti nelle ossa; nelle pozzanghere per terra, ed addosso, si sentiva tutta l’umidità del giorno prima, che aveva piovuto furiosamente per tutta la giornata. Si era a maggio, e la solita primavera piemontese, fatta di nebbia e di pioggia, non cedeva ancora il posto ai tepori della bella stagione. Quel pallido e spento fantasma che a tratti faceva capolino fra le nubi, non sembrava proprio essere lo stesso sole dei cieli meridionali, ma ad Agata non dispiaceva che il maltempo si prolungasse: la bella stagione le ricordava che poi presto veniva l’estate, le vacanze, tre mesi con tutta la giornata da trascorrere con la mamma e con “lui”.
«Agata!» Una voce la riscosse bruscamente dai suoi pensieri. Era Francesca, una compagna di classe, teneva in mano una palla.
«Agata, ti va di giocare un po’?»
«Si, perché no?»
Francesca lanciò la palla, ed Agata la prese al volo.
Mariarosa si affacciò alla finestra. Agata tardava per il pranzo. Irrazionalmente, però, seguendo un impulso che da giorni cercava di contrastare, s'era affacciata alla finestra della cucina, quella che dava sul cortile interno, invece che ad una di quelle che davano sulla strada.
L’animale di pietra era sempre lì, aggobbito contro il muro, non s’era mosso, né, di certo, poteva farlo, eppure sembrava sottilmente cambiato, come se fosse diventato più nitido, non era più una figura confusa i cui tratti si potevano riconoscere a stento nella roccia muscosa, era là, c’era. Mariarosa poteva intuire le zampe rannicchiate sotto il grosso corpo, e la testa innaturalmente lunga e pesante, piegata in avanti, si potevano scorgere anche due macchie scure di muffa o di sporcizia là dove avrebbero dovuto esserci gli occhi, come due orbite scure e profondamente infossate.
Istintivamente, la donna si fece il segno della croce.
«’Rosa, che fai, che guardi?», chiese Carmelo.
«Agata è in ritardo», aggiunse, «Quando arriva, mi sente.»
Mariarosa lo guardò incredula. Lui aveva parlato con un tono troppo blando, troppo calmo. Di solito, a quell’ora, lui passeggiava nervosamente avanti e indietro per la cucina, strillando improperi contro Agata, e contro di lei che non l’aveva saputa educare. Eppure, avvertiva oscuramente la donna, la sua rabbia di sempre era tutta lì, nel bagliore corrucciato degli occhi, nella piega delle labbra, in quel suo aggrottare le sopracciglia, come lava pronta ad eruttare ed a devastare tutto quanto trovava sul suo cammino, ma, proprio come la lava dell’Etna, era come se qualcosa la bloccasse, le impedisse di esplodere, la tenesse premuta sotto metri e metri di solida roccia. Inspiegabilmente, Mariarosa sentì le gambe che le tremavano.
La bambina era entrata in casa sbattendo la porta.
«Agata», disse Carmelo, «sei di nuovo in ritardo, ed hai di nuovo sporcato il cappotto e le scarpe. Per punizione, andrai giù in cantina fino a stasera.»
Mariarosa ascoltava incredula per il tono blando e quasi bonario di Carmelo, e perché, contrariamente al solito, Agata aveva risposto con un «Va bene» vagamente annoiato. Fino a pochi giorni prima, solo il pensiero di passare ore ed ore nella cantina buia e sporca, era sufficiente a riempire la bambina di terrore.
Contrariamente al solito, Carmelo permise alla bambina di pranzare, prima di andare giù.

* * *

«Stella, stellina
La notte s’avvicina,
La fiamma traballa.
La mucca è nella stalla.»
Questa volta, la filastrocca era soltanto un modo per passare il tempo, non un disperato tentativo di esorcizzare il terrore del buio.
«Agata, ti annoi?», chiese “papà”.
«Beh, si.»
«Ti andrebbe di fare un giretto nell’azzurro?»
«Volentieri.»
«Bene, allora prendo io il timone.»
Un’ennesima volta, la cantina buia e polverosa scomparve, ed Agata si trovò a galleggiare libera nell’immenso azzurro, pervasa da una grande sensazione di serenità e di pace. Minuti, ore, o forse interi giorni? Agata non avrebbe saputo dire quanto durò tutto ciò, seppe solo che finì in maniera inaspettata e brusca.
Si ritrovò di colpo nella cantina, con la luce abbagliante di una torcia elettrica che le batteva sulla faccia.
Carmelo era in piedi davanti a lei, ed aveva negli occhi un’espressione omicida.
«Cos’è questa cosa, piccola puttanella?», gridò, e solo allora Agata vide che teneva in mano il suo ciondolo con la catenina spezzata.
«Avanti, rispondi!», gridò ancora alla bambina impietrita, e le mollò sulla faccia un manrovescio violento che la fece sussultare fino alle caviglie.
S’interruppe di colpo a metà del gesto di un secondo schiaffone, come un robot cui fosse stata tolta la corrente. I suoi occhi erano diventati di colpo d’un azzurro intenso.
L’esploratore era nel cervello di Carmelo; osservò i suoi ricordi e le sue esperienze con calma e distacco, come se consultasse uno scaffale di dossier. Vide una mente angusta e violenta, l’arroganza del maschio mediterraneo, la passione per Mariarosa e l’odio per il padre di Agata che gliel’aveva soffiata, odio che, dopo la morte di questi, si era trasferito sulla bambina, che Carmelo incolpava inconsciamente per non avere figli suoi, la derisione di cui, per questo motivo era vittima degli amici al bar, anche con pesanti allusioni alla sua virilità.
Decise: lì non c’era nulla che valesse la pena di essere conservato. Gli occhi del patrigno di Agata perdettero la lucentezza azzurra, ma non tornarono al loro colore naturale, rimasero spenti e cinerei come due globi di vetro riempiti di fumo di sigaretta.
Lentamente, con passo rigido e legnoso, l’uomo si mosse in direzione della scala, lasciando cadere il ciondolo che Agata raccolse prontamente.
Udì la voce di “papà”.
«Non temere, piccola», diceva, «non potrà mai più farti del male.»
Mariarosa vide Carmelo che usciva dalla porta della cantina, camminando con il passo rigido e legnoso di uno zombi. Dietro a lui, c’era Agata che teneva in mano qualcosa che brillava di un intenso colore azzurro. La bambina aveva un vistoso livido sulla guancia sinistra, l’impronta nitidissima delle cinque grosse dita dell’uomo, ma non piangeva; anzi, assurdamente, sembrò a Mariarosa che quasi sorridesse.
Il volto dell’uomo era di un pallore terreo, gli occhi erano spenti, inespressivi, l’assenza d’espressione dei suoi lineamenti ricordò alla moglie la compostezza innaturale dei cadaveri esposti nelle camere ardenti.
Si sedette pesantemente su di una sedia e rimase immobile, completamente immobile, come una macchina spenta.
Mariarosa si avvicinò. Lui non respirava. Vincendo un improvviso disgusto, gli toccò il polso: non c’era nessun battito, ma ciò che soprattutto fece rabbrividire la donna, fu il contatto con quella carne divenuta improvvisamente fredda, morta.
«E’ morto», disse alla figlia con voce atona, «lo hai ucciso.»
Di colpo, tutto il timore e il rancore che Mariarosa aveva sempre provato nei confronti di quell’uomo tirannico e violento che non avrebbe mai dovuto sposare, svanirono, lasciando il posto all’avversione per quella figlia strana che non era mai riuscita a capire, che faceva cose che non riusciva a capire, e ad una totale, selvaggia, paura.
«Lo hai ucciso», gridò con voce stridula. «Sei stata tu!»
In un impeto disperato, strappò il ciondolo di mano alla figlia.
«No, mamma, no!», gridò Agata, «Non farlo!»
«L’hai ucciso con questo, vero?», replicò la madre, «Ho sempre saputo che sei una strega.»
Tentò di schiacciare il monile con il tacco della scarpa, ma era troppo duro, allora corse a prendere il ferro da stiro, e lo scagliò due, tre volte, con tutta la forza che aveva, sulla strana pietra.
Beh, in realtà non era una pietra, non era nulla di più di una specie di vetro trasparente con dentro una sorta di liquido molto denso, di intenso colore azzurro, che però correva da tutte le parti come mercurio.
Un rumore, non proprio, la sensazione di un rumore quasi sentito, fece voltare Mariarosa verso la finestra che dava sul cortile. L’animale di pietra aveva cambiato posizione, e protendeva ora la testa spropositata verso la finestra, verso di lei.
Vide che ora gli occhi, infossati nel fondo delle orbite buie, erano aperti, e la fissavano gialli, con la freddezza mortale dello sguardo di un cobra.
Il mostro spalancò le fauci, rivelando una doppia fila di denti lunghi ed acuminati come stalattiti, ma stranamente lisci, lucidi, come di metallo.
Il brillio di quei denti, in cui si rifletteva la luce che proveniva dagli occhi di Agata, divenuti improvvisamente d’un azzurro intenso, fu l’ultima cosa che la donna vide.

 

 

 

 

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