Ecco
là il villaggio dei nativi.
La terra spaccata dal sole è come due secoli fa,
le case di lamiera e fango molto peggio dei teepee. Di acqua ed erba verde
nemmeno l’ombra, dei bisonti solo ricordo amaro.
Una manciata di case sparse attorno al pozzo,
nessuno in vista. Con questo sole, stare fuori significa sciogliersi come burro
sui pancake. Mi avvicino.
Il mio mustang nitrisce, ha capito: “Sì, caro,
siamo arrivati.” So cosa vuole dire e gli rispondo: “Eh già, questo posto
nemmeno Dio sa che esiste. O magari preferisce far finta di niente.”
Ecco una costruzione appena più grande, di
mattoni.
“Invece il nostro amico anonimo sa bene che c’è.
Continua a mandare lettere per spedirmi nei posti più strani, senza nemmeno
firmarsi. Anche se sono su carta intestata dell’FBI.”
Mi fermo davanti al locale, scendo da cavallo.
L’insegna ricavata da un disco di tronco d’albero recita “Shop”. Non può non
avere quel che cerco.
Mi asciugo il sudore dai baffi, lego il mustang
e sussurro: “Tanto io sono così stupido da andare sempre a vedere.”
La porta sta su con solo un cardine, il legno è
scrostato.
Entro. Dentro non è meglio. Un bancone in fondo,
file di scaffali pieni di tutto, da utensili a bigiotteria.
Dietro il banco un nativo basso, naso largo, coi
capelli brizzolati lunghi alle spalle. Mi guarda, non sembra sorpreso: “Salve
straniero.”
Mi avvicino, lascio scivolare il cappello sulla
schiena: “Salve a voi.”
“Cosa le serve?”
Guardo in giro. Sul banco ha delle teche con
piccoli oggetti, chincaglierie di ogni genere. Ma sulla sinistra noto qualcosa
di diverso: “Ehi, bella quella.”
Guarda, sospira: “Quella? Io direi più che altro
velenosa.”
Faccio un passo. Sono davanti a una Colt, che ha
visto, direi, più anni di me. Ha il calcio laccato di bianco, con una incisione
a forma di J. Qui dentro spicca come una pepita nel setaccio.
“Ho idea che questa ragazza abbia una storia da raccontare.”
“Puoi dirlo straniero.”
“E tu la conosci?”
“In parte, sì.”
“Me la potresti raccontare?”
“Certo,” e mi fissa.
Lo guardo. Caccio la mano in tasca e tiro fuori
un biglietto verde: “E potrei anche vederla?”
Lui prende la banconota, la infila nel taschino
poi apre la teca: “Puoi vederla, ma non toccarla.”
Stringo gli occhi: “Sciogli la lingua, allora.”
“Questa pistola è appartenuta a Leroy James, era
un ranger, cento e più anni fa.”
“Non ne ho mai sentito parlare.”
“Già, il suo ricordo è sbiadito, tutti hanno
preferito dimenticarlo dopo la morte.”
Allungo la mano verso l’arma, ma lui mi blocca
con la sua: “Non scherzo, tu vuoi giocare col fuoco.”
Gli occhi sono due perle d’ossidiana.
“Perché?”
“Questa pistola porta la sua maledizione.
L’aveva quando è stato ammazzato a tradimento, quest’arma è intrisa della
malvagità di quel momento.”
Ritraggo la mano: “E tu come l’hai avuta?”
“Me l’ha portata una ragazza, in lacrime. Suo
padre, un collezionista, l’aveva trovata tra le cose di un rigattiere e l’aveva
portata a casa. Si era chiuso nel suo studio, con la borsa in cui aveva messo
l’arma. Poco dopo, l’hanno trovato morto. Steso per terra, con questa in pugno.
Nessuna ferita, la pistola era scarica; nessuno era entrato, nessun indizio se
non i due occhi spalancati, iniettati di terrore. La ragazza non l’ha più
voluta toccare, l’ha avvolta in un panno e così me l’ha portata. Non ha voluto
soldi, solo non vederla più. E io, straniero, con quel panno qui l’ho messa, e
non l’ho più fatta toccare a nessuno.”
Lo guardo con gli occhi sottili: “Bel tentativo,
amico. Il prossimo passo immagino sarà che, se proprio insisto, te ne puoi
liberare, ad un prezzo maggiorato causa favoletta.”
Mi fissa, con il volto di marmo.
Se mister FBI mi ha mandato qui deve essere per
questa. Prendo un respiro.
Allungo la mano di scatto, afferro il calcio.
Tutto intorno diventa buio. Notte. Un vicolo.
Silenzio. Anzi no: “Ehi Leroy! Sono qua! Mi vedi?”
Guardo in giro. Quella voce… “Ehi, Leroy,
giochiamo a nascondino?” La conosco! Il bastardo! Lui ha ucciso la mia Jenny.
Lo devo avere, sono anni che lo inseguo, questa volta non mi può scappare!
Non si vede niente, ma avanzo, chino. Eppure, la
voce viene da… “Leroy!”
In fondo, là, dietro l’angolo. Eccolo! Punto la
pistola, lui alza la sua.
Lascio cadere l’arma. Sento uno sparo, ma fugge
lontano mentre tutto torna come prima, nel negozio.
Sdang! Il rumore della pistola
che ricade nella teca, poi il nativo che mi guarda: “Ehi, straniero! Che fai,
pazzo! Vattene, vai via!” Gli occhi, adesso, sconvolti.
Ansimo, ho il respiro corto. Un passo indietro,
un altro. E fuori, fuggo. Ora la so, io, la storia di Leroy.
Storia ottima. Mi è piaciuta di brutto. Nella mente ho vissuto tutte le sequenze come in un film. Bravo Marco.
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