MYTHOS
ADRIANA ALARCO DE ZADRA
UN LABIRINTO DI PROBLEMI
UN LABIRINTO DI PROBLEMI
«Ti aiuto col Minotauro se mi dài una mano con la
Gorgone,» esclamò Perseo al cellulare.
«Va bene,» ribatté Teseo, «e come mi aiuteresti?»
«Porta il Minotauro all’isola della Gorgone e quando si troverà di fronte a lei, la Medusa lo trasformerà in pietra.»
«Non sarà facile trascinare il Minotauro fuori dal suo labirinto. In più, prima devo trovarlo, e poi posso finire trasformato in pietra anch’io.»
«Non preoccuparti, quando sarà impegnata col Minotauro taglierò la testa di Medusa.»
«Sarà meglio che mi porti uno specchio grande, e quando ci si guarderà dentro, la Gorgone si trasformerà in pietra per il suo stesso potere, e a quel punto tu ti occuperai del Minotauro.»
«Lo chiamerò col cellulare per invitarlo all’isola…»
«Pensi che accetterà?»
«Ne dubiti? Nessuno si perderebbe un appuntamento con quella donna meravigliosa… anche se viene trasformato in pietra.»
«Va bene,» ribatté Teseo, «e come mi aiuteresti?»
«Porta il Minotauro all’isola della Gorgone e quando si troverà di fronte a lei, la Medusa lo trasformerà in pietra.»
«Non sarà facile trascinare il Minotauro fuori dal suo labirinto. In più, prima devo trovarlo, e poi posso finire trasformato in pietra anch’io.»
«Non preoccuparti, quando sarà impegnata col Minotauro taglierò la testa di Medusa.»
«Sarà meglio che mi porti uno specchio grande, e quando ci si guarderà dentro, la Gorgone si trasformerà in pietra per il suo stesso potere, e a quel punto tu ti occuperai del Minotauro.»
«Lo chiamerò col cellulare per invitarlo all’isola…»
«Pensi che accetterà?»
«Ne dubiti? Nessuno si perderebbe un appuntamento con quella donna meravigliosa… anche se viene trasformato in pietra.»
(Tradotto dallo spagnolo da Stefano
Valente)
UNICORNO
Sognai
che cavalcavo un unicorno. Volava con le sue ali distese sugli alberi della
foresta pluviale, da dove spuntavano orchidee e felci. Il fiume serpeggiava tra
il mare verde con gorgheggi d’acqua e tante canoe. I nativi della zona che
remavano, sollevavano le braccia per salutare. Mi venivano i brividi per
l’altezza in cui volavo e guardando giù tanta bellezza. Ero così felice ed eccitata che sono
scivolata dalla cavalcatura. Ho cercato di aggrapparmi al corno frontale
dell’animale ma, nonostante il mio tentativo, sono caduta tra lucciole e
farfalle e tra la rugiada del crepuscolo. Sono atterrata su un soffice letto di
fiori, che erano quelli disegnati sul mio materasso nella capanna amazzonica
dove alloggiavo… e finalmente mi sono svegliata tra le braccia del mio amante,
stordito e dolorante.
PAOLO
SECONDINI
PROMOZIONE SUL CAMPO
Disteso
nel letto, fra lenzuola di seta profumate, Giove aprì un occhio, poi l’altro, e
scorse Giunone, sua moglie, affacciata a una finestra dell’Olimpo. Era piegata
in avanti, i gomiti sul davanzale e il viso tra le mani.
«Che
giorno è?» le chiese il padre di tutti gli Dei, sbadigliando.
«Oh!
Uno nuovo, credo,» rispose Giunone, annoiata.
«So
bene che è un nuovo giorno, per Giove!» disse Giove. «Intendevo: c’è il sole?»
«Se
c’è, non si vede.»
«Capisco.
È coperto!»
«Non
so se è coperto. Te l’ho detto: non si vede.»
«Ma
no, per Giove! Intendevo il cielo. È coperto?»
«Ah,
il cielo!» rispose Giunone. «No, non lo è: si vede benissimo.»
«Ma
no, no, per Gio…» Stava per dire ancora per
Giove!, il povero Giove, ma si corresse: «Per Giunone, dea della
Stupidità!»
«Oh,
grazie, tesoro, di avermi concesso un’altra peculiarità!» disse Giunone
voltandosi. «Ero soltanto la Dea del matrimonio, ora lo sono anche della
Stupidità.»
«Ne
sei felice?!» si stupì il padre di tutti gli Dei.
«Felicissima!»
«E allora, mia
cara, ci aggiungo un epiteto: Dea della Stupidità impareggiabile!»
UN INVITO A
PRANZO
«Mia
cara Giunone,» disse Giove alla dolce consorte, «oggi, se ti fa piacere,
pranziamo fuori.»
«Certamente!
E dove mi porti, mio amato Signore?»
«Conosco
un grazioso ristorante sulla cima di un monte. Ne sarai entusiasta.»
«Oh
sì, sì, sì!» rispose la Dea battendo, freneticamente, le mani.
In
men che non si dica furono sul posto.
Vi
era un’imponente costruzione e, sull’ingresso di questa, un’insegna:
Da Nettuno – Specialità Marine
Giove
e Giunone entrarono nel ristorante e sedettero a un tavolo.
Di
lì a breve, una giovane ninfa (cui il padre di tutti gli Dei fece l’occhiolino,
senza farsi vedere da sua moglie) portò loro il menu.
Giove
lesse:
Abbacchio arrosto
Montone lesso
Maiale farcito
Capra affumicata
Vitello…
«Mi
chiami il proprietario del locale!» tuonò Giove, battendo un pugno sul tavolo.
«Su-subito!»
balbettò la ninfa, spaurita.
Non
appena Nettuno gli fu al cospetto:
«E
queste sarebbero specialità marine?»
disse Giove, sventolando il menu sotto il naso dell’altro.
«Certo
che no!» rispose, pacatamente, il Dio del mare. «Ma chi non lo crede, tra i
mortali, quando dico trattarsi di pesci
di montagna?... Agli uomini, mio potente Signore, tu puoi dire quello che
vuoi: bevono ogni cosa.»
PEPPE
MURRO
ETTORE
Quando
la punta della lancia rimbalzò sullo scudo con un suono ferito, capì che quel
giorno sarebbe stato la sua ultima luce.
Impugnò
la spada con una rabbiosa disperazione, guardò gli occhi dell'altro che
sbucavano dalle feritoie dell'elmo come lampi di pantera. Non ne ebbe paura,
però; sapeva che morte chiama morte e
loro due erano legati da un destino fatale e beffardo, cieco come sempre.
Lo
sapeva più forte, invincibile, come dicevano i più pavidi, ma non sarebbe
fuggito. Avrebbe tentato pure l'impossibile, perché questo era il suo compito e
la sua gloria, anche se sarebbero morti uno dopo l'altro. Lo sapevano entrambi.
Nessuno
dei due sarebbe stato vincitore, solo la morte avrebbe vinto. E loro, gli
uomini, la loro carne, la loro vita e le gioie, tutto perduto...loro sarebbero
stati i soli sconfitti.
E
combatté, lanciandosi sull'altro con una furia selvaggia, combatté come chi è
certo di perdere la vita e non vuole cedere al destino; menò colpi, parò, ferì
e fu ferito, in un miscuglio di polvere, sangue e sudore.
Le
loro grida feroci e il loro ansimare era l'unica danza che rompeva il silenzio
assolato della pianura, mentre la paura di morire faceva scordare persino la
fatica.
Solo
quando la lama della spada si scheggiò in mille pezzi, solo allora sentì per la
schiena un sudore freddo...sarebbe stato ucciso e invece voleva vivere, come
ogni uomo. Voleva ancora respirare profumi, godere colori, saziarsi dell'amore
di una donna; non gli bastava la sorte di guerriero che sapeva di non aver
scelto.
Allora
qualcosa lo vinse, lo prese più forte di ogni pensiero. E fuggì, l'ultima
strada disperata che gli restava, fuggì come chi si aggrappa alla vita al di
sopra di tutto. Non gli importava della delusione e dello scherno di quanti lo
credevano un eroe, voleva vivere.
Fu
allora che sentì la risata feroce e beffarda dell'altro, la sua gioiosa
soddisfazione, la certezza di aver vinto, l'abbandono di ogni dio.
Fu
allora che Achille gli piantò la lancia nella schiena, spegnendo ogni luce,
chiudendo ogni storia.
ACHILLE
Non
c'era che buio nella sua anima, sapeva che il suo destino si fermava su quella
spiaggia insanguinata, tra la puzza dei rifiuti e la mortificazione di una
umanità dolente. Sapeva che sarebbe morto lì, senza espugnare quelle mura che
pure sarebbero cadute dopo la sua morte. Non per la forza di una spada, non per
sua mano.
E
dentro gli cresceva intanto un cupo dolore, e rabbia, e rancore...già prima di
venire in quel posto di sangue e sofferenza, già prima sapeva che era lui il
centro del destino: senza di lui niente sarebbe stato possibile di tutto quello
che doveva accadere quando sarebbe morto.
Rancore
contro dio che lo aveva fatto invincibile, rancore contro ogni uomo, cui così
poco assomigliava, rancore contro se stesso e la sua natura. Era solo una
macchina di morte, così si sentiva, una mano dietro la quale c'era solo
disperazione e dolore e desolazione e pianto.
Gli
era sconosciuta la dolcezza del dolore (almeno fino a quel giorno), il sollievo del canto: fosse stato un poeta
avrebbe certamente sopportato meglio le sue ombre, anche cantando la sua
angoscia; o avrebbe potuto essere un pastore sperduto tra i monti a guardare la
lentezza del gregge e il suo muto andare;
avrebbe vissuto come ogni uomo, con una vita di giorni e di notti. Per
lui invece c'era solo oscurità.
Ed
ora, in questo giorno che mai avrebbe voluto vivere, stava lì con gli occhi
infangati di lacrime e rabbia a guardare quella carne lacerata, quel viso dolce
che fino a ieri gli aveva sorriso, quelle mani da cui nascevano brividi
nascosti al mondo intero. Stava lì, di fronte a chi un giorno era stato il suo
amico più caro, il solo a cui avesse confidato le più oscure paure, i dubbi, le
speranze.
Non
c'era che buio nella sua anima, e rabbia e dolore e rancore: contro chi lo
avrebbe vendicato, un dio o un uomo? ma se non c'era nessun uomo la cui morte
lo avrebbe risarcito e nessun dio contro cui scagliare la sua lancia?! nessuna vendetta è possibile, nessuna
vendetta vale il dolore.
Domani
avrebbe ucciso quell'uomo, sapendo di precederlo appena sulla strada del
niente...domani avrebbe iniziato a morire. Uccidendo.
Questo
gli oscurava i pensieri senza dargli alcuna consolazione. Sarebbe morto per
poco, con un gesto insensato in una storia insensata. Come ogni violenza, come
ogni vendetta, come ogni destino scritto da dei distratti.
Le
sue ossa e quelle di quanti cui aveva negato vita e pietà si sarebbero confuse
tra le rovine della città.
La sua mano aveva il segno della morte, il suo
cuore il peso del suo scontento.
Di
lui avrebbero ricordato solo la strage e l'ira, nessuno avrebbe varcato la
soglia del suo cuore, capace di guardarne la disperazione che lo artigliava in
mille gocce di pena. Nero, c'era solo nero di sangue raggrumato e di angosce
prolungate dentro di lui: conoscere il proprio destino, non riuscire o non
volere evitarlo. Gli dei avevano vinto, gli uomini sciatti e volgari avevano
vinto. Ora sapeva che non c'era grandezza nel suo destino di guerriero mosso da
fili invisibili.
Guardò
la lama della spada Achille: domani sarebbe stata rossa del sangue di Ettore,
domani Patroclo sarebbe stato vendicato. Così si chiudeva il destino, così
sarebbe finito quel buio. Così ogni dio sarebbe stato soddisfatto, e la morte
avrebbe di nuovo cantato il suo inutile e assurdo peana.
STEFANO VALENTE
IL SOGNO DEL MINOTAURO
C'era il pasto, a scadenze regolari, ma durava un attimo e urlava
di terrore.
Il resto del tempo del Minotauro, nel suo carcere-chiocciola,
erano giorni infiniti, notti interminabili.
Lui si stordiva con i sogni.
Nei sogni del Minotauro i muri cadevano, i fili si spezzavano -
nessuna regina si cambiava in vacca.
Una volta il Minotauro sognò un mondo senza mostri: guardava in
basso e le braccia e le gambe non avevano più dita.
Zampe potenti e zoccoli.
Zoccoli per martellare il mondo.
Fece il suo ingresso fieramente, con spavalderia. Tutt'attorno
mille teste e mille voci gridavano insulti, acclamazioni - applaudivano,
benedicevano gli dèi e li bestemmiavano.
Non le ascoltava.
Assaporò il sole caldo sulla pelle, i riflessi dei raggi nello
specchio sminuzzato della polvere. Galoppò con frenesia fino al centro esatto
dell'anfiteatro. Si bloccò lì, respirò le costellazioni che si congiungevano
sopra le sue corna, rese grazie al Cielo. Niente più rancori - niente più
memoria. Il cuore gli scoppiava dalla gioia. Era bellissimo.
Poi d'improvviso, con la coda dell'occhio, vide un movimento.
E un bagliore di metallo.
E sentì un fuoco che gli incideva il dorso.
E annusò l'odore acre, disgustoso, del suo stesso sangue.
Di colpo, come in un secondo labirinto, si scoprì esausto, col
corpo gonfio e avvelenato di ingiustizia.
Poi sfolgorò un Teseo vermiglio - che lui sapeva uguale a tutti
gli altri, letale e ingannatore come tutti gli altri.
E allora - precisamente allora - il sogno del Minotauro terminò.
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