L’oscurità era totale. La tenebra, però,
non nascondeva minacce o pericoli. Al contrario, nero contro nero, produceva
tepore e conforto.
Il buio, sorta di coperta soffice e
dolce, mi avvolgeva. Non ero in grado di vedere o sentire; tastavo con cautela,
fin dove potevo, una copertura morbida ed elastica. Somigliava ad un sacco di
plastica espansa. Non sapevo che la tenebra fosse morbida ed elastica, né
potevo supporre che regalasse una sensazione di benessere tanto intensa e prolungata.
L’esperienza nuova non provocava in me
paura, né disagio; la mia coscienza era all’erta e la mia mente curiosa.
Desiderosa di apprendere, come sempre.
Avvertii uno sfregamento lungo le pareti
del sacco di plastica. Venni risucchiata lungo un tunnel, in fondo al quale si
intravvedeva una lama di luce. Stavo per abbandonare il confortevole tepore
dell’oscurità. Chissà perché, la prospettiva mi appariva alquanto sgradevole:
avevo sempre avuto paura del buio, io. Ma chi ero io?
***
Mamma gatta era distesa nel suo cestino.
Mugolava pian piano, lamentandosi per il dolore che il parto le procurava.
Sotto il suo corpo tigrato, la copertina era sporca di sangue. Anche le zampe
posteriori della gatta erano imbrattate di rosso, eppure pareva non curarsene
affatto.
Tre micini si arrampicavano sul suo
corpo, scalando con goffa determinazione il ventre materno. Il piccolo nero
raggiunse l’ambito capezzolo e prese a succhiare avidamente. Gli altri due,
tigrati come la mamma, brancolavano ancora nel buio.
Posai la mano sulla testa della gatta:
orecchie a punta, pelo morbido e occhi dolci, quasi umani. Cominciò a fare le
fusa, ma riprese anche a mugolare, sorda ai miei tentativi di confortarla.
“Brava, mammina. Belli i tuoi micini”, le
sussurrai.
Pareva che tentasse di parlarmi; mi
capiva: ne ero più che sicura.
La gatta trovò una sistemazione più
comoda. Sdraiata su un fianco, prese a leccare coscienziosamente la sua vagina:
dopo qualche secondo apparve la testolina del quarto micino. Il muro dietro il
cestino si tinse; uno spruzzo rosso cupo disegnò una figura astratta, dai
contorni morbidi. Il gattino neonato emergeva dall’orifizio materno, sotto la
lingua rasposa della micia si delineava la sua figuretta sottile, a chiazze
bianche e nere.
I tre fratellini piangevano, come se non
fossero felici di accoglierlo. Piccole zampe picchiettavano il ventre della
gatta, e minuscoli musi tendevano ad impadronirsi dei capezzoli, in cerca del
nutrimento indispensabile alla sopravvivenza.
Baciai mamma gatta sulla testa, grata
perché mi aveva permesso di assistere alla nascita dell’ultimogenito. Azzardai
una carezza, con la punta del dito, ai micini neonati. Non protestò. Mamma
gatta si fidava di me.
***
La luce improvvisa mi ferì gli occhi. Si
trattava solo di una sensazione, però, perché le mie palpebre erano chiuse,
tenute ferme da una membrana sottile eppure tenace. Il chiarore era ugualmente
insopportabile, in ogni caso.
I miei polmoni invocavano aria, il mio
stomaco chiedeva cibo, ma il sacco di plastica costituiva un ostacolo insormontabile.
Ad un tratto, i polmoni ricevettero aria, in gran quantità, e la bocca poté
vagare in cerca di cibo. Qualcosa, o qualcuno, aveva eliminato il sacco che mi
teneva imprigionata fino a qualche istante prima.
Mi sentivo vulnerabile, indifesa, bisognosa
d’amore. Con sgomento, mi accorsi di essere appena nata. Può un neonato avere
coscienza di sé? La domanda rimbombava nella mia mente come un martello
pneumatico che apre una voragine nel terreno.
Una voragine di panico, infatti, si
spalancò e mi inghiottì quando una lingua rasposa cominciò a leccarmi con perizia e dolcezza. Ricordai, in un lampo,
tutti i particolari del parto di mamma gatta.
Avrei pianto, se avessi avuto lacrime da
spargere. Invece, emisi un flebile miagolio: ero una gattina.
Immaginai la scena alla quale, con un
ruolo da protagonista, prendevo parte: coperta di pelo, percorrevo con le
zampine il ventre della mamma gatta che mi aveva appena partorito, mentre il
mio musetto si agitava in cerca di un capezzolo.
Assurdamente, formulai una domanda. “Di
che colore è il pelo?”.
Con mio enorme stupore, ricevetti una
risposta. “Ruggine, piccola mia”.
Mamma gatta aveva parlato: comprendeva i
miei miagolii e io i suoi. Avvertii una sensazione di calore, simile a quella
provata nel suo grembo.
Il panico si dileguò: ero al sicuro. La
mamma mi avrebbe pulito, nutrito e tenuto al riparo. Mi avrebbe protetto da
eventuali pericoli, e amato. Succhiavo,
con avidità stupefacente, latte
e amore.
“Perché?”, chiesi.
“Hai sempre amato noi gatti”, mi rispose
la voce della mamma. “Quando è avvenuto l’incidente, un messaggio forte e
chiaro mi ha raggiunto: trasporta l’essenza di questa umana, affinché non vada
perduta, sul nostro pianeta. Lei ne sarà felice. Me l’ha trasmesso la gatta che
viveva con te, e i quattro micini hanno aggiunto che nessuno sarebbe stato più
degno di te di vivere in un luogo nel quale noi gatti siamo la razza
dominante”.
Annuii, continuando a succhiare il latte
tiepido e dolce. Una zampa transitò sopra la mia testa: mi ritrassi, un po’
intimorita.
“Salve, sorella”, mi tranquillizzò una
vocetta acuta. “C’è posto per tutti, qui”.
Finalmente, mi sentivo a casa.
Bel racconto, quello di Teresa, cui rivolgiamo un cordiale saluto.
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