Siccome
Julia sarebbe arrivata quella sera da Buenos Aires, mi recai alla spiaggia per
ammazzare il pomeriggio.
Due gemelle, che giocavano sulla spiaggia con formine di plastica, attirarono la mia attenzione. Giocavano al centro di un grande specchio d’acqua, inginocchiate su un letto di sabbia semiliquida. Ogni volta che cercavano di alzare le mura di un castello, queste affondavano nella sabbia liquefatta dall’acqua spumosa della costa.
Le bambine si scambiavano sguardi silenziosi. Bionde, con i capelli lunghi e setosi e la carnagione pallida, una sembrava la copia dell’altra, come se si vedessero riflesse in uno specchio.
Una donna – supposi fosse la madre – le sorvegliava dalla tenda.
Osservavo le gemelle colpito dal loro atteggiamento ostinato: quanto più rapido il fossato inghiottiva le mura che franavano per l’instabilità del terreno sabbioso, tanto più veloci ricominciavano il lavoro, con rinnovato impegno.
Mi ricordarono la mia infanzia, quando costruivo castelli in quella stessa spiaggia, temendo il crollo delle mura, e l’apparizione di mostri marini e draghi, tra le torri e dalle profondità dell’oceano.
Le gemelle continuavano ad assemblare il castello. Il ponte d’ingresso sopra il fossato e le quattro torri periferiche erano ancora in equilibrio. Sembrava che questa volta ce l’avrebbero fatta.
Mi distrassi quando la madre afferrò una borsa. E, al girare di nuovo lo sguardo, le vidi proprio nel momento in cui le mura franate del castello si perdevano nel fondo della fossa acquosa. Sembrava che lo specchio d’acqua prendesse vita per inghiottire le mura e qualunque cosa gli si mettesse davanti.
Quando una delle gemelle mise l’altra nel fossato e cominciò a coprirla – forse frustrata dalle continue frane – il mio corpo fu scosso da un brivido: non ho mai sopportato quella sensazione di vuoto sotto ai piedi, quel vuoto lasciato delle onde al ritirarsi dalla costa e i piedi che affondano, come se una forza invisibile strattonasse dal basso per risucchiarmi.
Aveva già ricoperto la sorella fino al collo, quando la madre si avvicinò con un barattolo di protezione solare. La bimba guardò sua madre e le disse che non voleva essere disturbata, non si rendeva conto che stava giocando? L’altra doveva essere muta o sorda o entrambe le cose: la madre parlava sempre con la stessa.
E ritornò in fretta alla tenda.
Mi sconcertò non vedere la testa della piccola muta interrata. L’altra mi guardava fisso. Aveva notato che la osservavo? E anche fosse stato così, che cosa c’era di male? Non poteva sapere che io stavo immaginando la sorella sepolta viva.
Le sorrisi e le lanciai un bacino. I suoi occhi azzurri si oscurarono poco a poco, fino a raggiungere un nero intenso, e mi fissarono. La sua bocca si deformò, si aprì e mi vidi obbligato a distogliere lo sguardo da quell’orribile smorfia. Sentii un braccio che mi afferrava il collo fin quasi a strozzarmi: la sorella – che avevo immaginato affogata nella fossato – era appesa alle mie spalle, mi affondava le ginocchia nelle reni e mi bagnava con il suo costume imbevuto di acqua salata. Mi graffiò con la sabbia attaccata al suo corpo. Cercai di afferrarla per le braccia, ma lei me lo impedì con un movimento brusco. Desiderai accarezzarla, perché capisse che la sua birichinata non mi aveva fatto arrabbiare.
E ad appoggiarle la mano sulla testa… non esisteva… o meglio, sì, esisteva, ma non materialmente. Si era trasformata in un miraggio, nel frutto della mia immaginazione? Non so. La bambina, molto più veloce di me, scappò prima che potessi anche solo toccarla.
O forse il mio braccio le passò attraverso. Non lo so.
Tornai alla realtà.
Lei si girò e mi guardò: il corpo rigido, lo sguardo penetrante, gli occhi azzurri, e le labbra tirate, dicendomi:
Lasciami in pace, ok?
Mi parlò senza muovere le labbra. Mi ero dimenticato il cappello e pensai: è un effetto del sole che mi picchia in testa. I raggi UV che sembrano emergere dalla sabbia, che deformano le sagome delle persone quando le si guarda a distanza, che fiammeggiano in verticale, salendo fino a ferirti il cervello. Sì, era stato questo. Questo, o il buco dell’ozono che è tanto di moda.
Le bambine ripresero a giocare, intestardite nel costruire il castello.
Io mi alzai e camminai verso la costa, schivai le prime onde e mi addentrai nell’acqua per rinfrescare, soprattutto, la testa. Per cercare di capire cosa mi stava succedendo.
Sapevo nuotare molto bene; superai il terzo frangente godendo della profondità dell’oceano. Galleggiavo, mi immergevo e non riuscivo a toccare il fondo. Vidi tre gabbiani bianchi che ondeggiavano sul mare. Mi affascinava vederli immersi nella quiete, alzandosi e abbassandosi col movimento delle onde, in un ritmo musicale. Mi proposi di arrivare fino a loro e nuotai, ma si alzarono in volo proprio quando credevo di aver raggiunto il mio obiettivo. Una coppia di delfini che saltò poco distante mi fece spaventare, e il godimento e l’incanto si trasformarono in paura, come quando ero bambino. Paura dell’immensità del mare, paura dei riflessi del sole sulla superficie che prendevano l’aspetto di bagliori spettrali, paura che si convertisse in realtà un incubo ricorrente: una fenditura del mare aperto mi risucchiava fino al fondo. Decisi di tornare indietro per raccogliere le mie cose e tornare nel mio monolocale ad aspettare Julia, e nuotai fino a riva.
Passai camminando di fianco al fossato dove una delle bambine teneva il braccio come a voler afferrare le mura che di sicuro un’altra volta erano affondate. L’altra alzò lo sguardo.
Io preferii continuare a camminare.
Presi un telo, mi asciugai e mi infastidì il sale che graffiava la pelle. Quando cercai con lo sguardo le gemelle, per controllare se avevano abbandonato il loro intento o se ancora perseveravano, vidi un mulinello al centro del fossato liquefatto. E un piede, con la pianta in su, che scompariva inghiottito dal letto sabbioso.
La gemella guardava, imperturbabile, la trasparenza a specchio di quei due o tre centimetri di acqua, sparsi sopra la sabbia che aveva inghiottito la sorella. La madre, con la stessa flemma, camminava verso il fossato. Arrivò, prese la figlia per mano, e quando tornò alla tenda, la vestì con una tutina di spugna rosa.
Corsi per avvertirla di ciò che avevo visto.
– L’altra sua figlia, signora! – le gridai confuso – L’ha inghiottita la sabbia del fossato! – Mi guardò come se le avessi detto che gli extraterrestri avevano conquistato il pianeta. – La sabbia se l’è…
Non mi lasciò terminare la frase. Afferrò la mano di sua figlia, sicuramente per allontanarla da me, e mi diede le spalle.
– Sua figlia, signora! – le gridai di nuovo, senza sapere se dovevo insistere o correre verso il fossato per salvare l’altra gemella.
– Guardi, signore – disse affrontandomi secca, autoritaria. – Mia figlia è qui con me – la bimba mi guardava con scherno – e quello che mi ha appena detto mi sembra uno scherzo di cattivo gusto.
– Parlo dell’altra sua figlia, signora! – Indicai la fossato. – La sabbia ha inghiottito l’altra sua figlia!
– Per favore! – mi disse in tono indignato, e tese il braccio mostrandomi la palma della mano, con il chiaro significato che non mi avvicinassi. – La smetta di dire stupidaggini! Questa è mia figlia! – Scosse la mano in alto, le dita intrecciate con quelle della bambina. – La mia unica figlia!
Si mise una borsa in spalla, si girarono e se ne andarono a piedi.
Le guardavo andare via tenendosi per mano. Le guardavo senza sapere cosa fare.
Osservai il fossato, poi la bambina che andava via con sua madre. La bimba girò la testa e mi guardò con quei suoi occhi azzurri. E le vidi di nuovo quella smorfia: le labbra aperte, spaccate e grondanti pus, i denti separati, conici, storti e macchiati. Le pupille le si dilatarono, e potei vedere attraverso le orbite vuote l’oscurità interna della testa, mentre dalla sua bocca usciva un odore putrido che arrivò a me nonostante la distanza.
Mi sedetti sulla sabbia, stordito, desiderando capire.
Al rientro, una strana figura ferma su una montagnola all’angolo mi turbò. Il sole, che si trovava dietro alla duna, ostacolava la mia visione. Continuai a camminare, e quando girai l’angolo le vidi ferme faccia a faccia, come se si stessero guardando nello specchio. Le gemelle si afferravano la gola con entrambe le mani.
E i miei polmoni si svuotavano. Lentamente si svuotavano.
Subito dopo corsero via e scomparvero inghiottite dalla penombra del pomeriggio.
Solo quando chiusi la porta del monolocale mi sentii più sicuro. Tuttavia neanche il rumore del rock pesante che arrivava da qualche caffetteria della zona pedonale mi aiutava a dimenticare ciò che avevo vissuto. Desideravo che arrivasse Julia, e che arrivasse in fretta, per vederla e raccontarle tutto.
Intuii che, in quel monolocale, qualcuno mi sorvegliava.
Una pressione e un nodo alla gola mi rendevano difficile respirare, e l’aria che esalavo mi bruciava le narici.
Una forza incontenibile mi trascinò in bagno. Mi fermai di fronte allo specchio che si muoveva in un mare di ondulazioni. E vidi il mio riflesso girare in un mulinello. Un mulinello che convertiva quel riflesso nell’immagine della gemella. Un mulinello che girava e girava. Un mulinello che terminò assorbendola.
Poco dopo, vidi arrivare Julia. Mi si avvicinò e mi diede un bacio profondo, umido e salato.
Ma non potei dirle che io non ero io. Non potei dirle che io la guardavo dall’altro lato dello specchio.
Due gemelle, che giocavano sulla spiaggia con formine di plastica, attirarono la mia attenzione. Giocavano al centro di un grande specchio d’acqua, inginocchiate su un letto di sabbia semiliquida. Ogni volta che cercavano di alzare le mura di un castello, queste affondavano nella sabbia liquefatta dall’acqua spumosa della costa.
Le bambine si scambiavano sguardi silenziosi. Bionde, con i capelli lunghi e setosi e la carnagione pallida, una sembrava la copia dell’altra, come se si vedessero riflesse in uno specchio.
Una donna – supposi fosse la madre – le sorvegliava dalla tenda.
Osservavo le gemelle colpito dal loro atteggiamento ostinato: quanto più rapido il fossato inghiottiva le mura che franavano per l’instabilità del terreno sabbioso, tanto più veloci ricominciavano il lavoro, con rinnovato impegno.
Mi ricordarono la mia infanzia, quando costruivo castelli in quella stessa spiaggia, temendo il crollo delle mura, e l’apparizione di mostri marini e draghi, tra le torri e dalle profondità dell’oceano.
Le gemelle continuavano ad assemblare il castello. Il ponte d’ingresso sopra il fossato e le quattro torri periferiche erano ancora in equilibrio. Sembrava che questa volta ce l’avrebbero fatta.
Mi distrassi quando la madre afferrò una borsa. E, al girare di nuovo lo sguardo, le vidi proprio nel momento in cui le mura franate del castello si perdevano nel fondo della fossa acquosa. Sembrava che lo specchio d’acqua prendesse vita per inghiottire le mura e qualunque cosa gli si mettesse davanti.
Quando una delle gemelle mise l’altra nel fossato e cominciò a coprirla – forse frustrata dalle continue frane – il mio corpo fu scosso da un brivido: non ho mai sopportato quella sensazione di vuoto sotto ai piedi, quel vuoto lasciato delle onde al ritirarsi dalla costa e i piedi che affondano, come se una forza invisibile strattonasse dal basso per risucchiarmi.
Aveva già ricoperto la sorella fino al collo, quando la madre si avvicinò con un barattolo di protezione solare. La bimba guardò sua madre e le disse che non voleva essere disturbata, non si rendeva conto che stava giocando? L’altra doveva essere muta o sorda o entrambe le cose: la madre parlava sempre con la stessa.
E ritornò in fretta alla tenda.
Mi sconcertò non vedere la testa della piccola muta interrata. L’altra mi guardava fisso. Aveva notato che la osservavo? E anche fosse stato così, che cosa c’era di male? Non poteva sapere che io stavo immaginando la sorella sepolta viva.
Le sorrisi e le lanciai un bacino. I suoi occhi azzurri si oscurarono poco a poco, fino a raggiungere un nero intenso, e mi fissarono. La sua bocca si deformò, si aprì e mi vidi obbligato a distogliere lo sguardo da quell’orribile smorfia. Sentii un braccio che mi afferrava il collo fin quasi a strozzarmi: la sorella – che avevo immaginato affogata nella fossato – era appesa alle mie spalle, mi affondava le ginocchia nelle reni e mi bagnava con il suo costume imbevuto di acqua salata. Mi graffiò con la sabbia attaccata al suo corpo. Cercai di afferrarla per le braccia, ma lei me lo impedì con un movimento brusco. Desiderai accarezzarla, perché capisse che la sua birichinata non mi aveva fatto arrabbiare.
E ad appoggiarle la mano sulla testa… non esisteva… o meglio, sì, esisteva, ma non materialmente. Si era trasformata in un miraggio, nel frutto della mia immaginazione? Non so. La bambina, molto più veloce di me, scappò prima che potessi anche solo toccarla.
O forse il mio braccio le passò attraverso. Non lo so.
Tornai alla realtà.
Lei si girò e mi guardò: il corpo rigido, lo sguardo penetrante, gli occhi azzurri, e le labbra tirate, dicendomi:
Lasciami in pace, ok?
Mi parlò senza muovere le labbra. Mi ero dimenticato il cappello e pensai: è un effetto del sole che mi picchia in testa. I raggi UV che sembrano emergere dalla sabbia, che deformano le sagome delle persone quando le si guarda a distanza, che fiammeggiano in verticale, salendo fino a ferirti il cervello. Sì, era stato questo. Questo, o il buco dell’ozono che è tanto di moda.
Le bambine ripresero a giocare, intestardite nel costruire il castello.
Io mi alzai e camminai verso la costa, schivai le prime onde e mi addentrai nell’acqua per rinfrescare, soprattutto, la testa. Per cercare di capire cosa mi stava succedendo.
Sapevo nuotare molto bene; superai il terzo frangente godendo della profondità dell’oceano. Galleggiavo, mi immergevo e non riuscivo a toccare il fondo. Vidi tre gabbiani bianchi che ondeggiavano sul mare. Mi affascinava vederli immersi nella quiete, alzandosi e abbassandosi col movimento delle onde, in un ritmo musicale. Mi proposi di arrivare fino a loro e nuotai, ma si alzarono in volo proprio quando credevo di aver raggiunto il mio obiettivo. Una coppia di delfini che saltò poco distante mi fece spaventare, e il godimento e l’incanto si trasformarono in paura, come quando ero bambino. Paura dell’immensità del mare, paura dei riflessi del sole sulla superficie che prendevano l’aspetto di bagliori spettrali, paura che si convertisse in realtà un incubo ricorrente: una fenditura del mare aperto mi risucchiava fino al fondo. Decisi di tornare indietro per raccogliere le mie cose e tornare nel mio monolocale ad aspettare Julia, e nuotai fino a riva.
Passai camminando di fianco al fossato dove una delle bambine teneva il braccio come a voler afferrare le mura che di sicuro un’altra volta erano affondate. L’altra alzò lo sguardo.
Io preferii continuare a camminare.
Presi un telo, mi asciugai e mi infastidì il sale che graffiava la pelle. Quando cercai con lo sguardo le gemelle, per controllare se avevano abbandonato il loro intento o se ancora perseveravano, vidi un mulinello al centro del fossato liquefatto. E un piede, con la pianta in su, che scompariva inghiottito dal letto sabbioso.
La gemella guardava, imperturbabile, la trasparenza a specchio di quei due o tre centimetri di acqua, sparsi sopra la sabbia che aveva inghiottito la sorella. La madre, con la stessa flemma, camminava verso il fossato. Arrivò, prese la figlia per mano, e quando tornò alla tenda, la vestì con una tutina di spugna rosa.
Corsi per avvertirla di ciò che avevo visto.
– L’altra sua figlia, signora! – le gridai confuso – L’ha inghiottita la sabbia del fossato! – Mi guardò come se le avessi detto che gli extraterrestri avevano conquistato il pianeta. – La sabbia se l’è…
Non mi lasciò terminare la frase. Afferrò la mano di sua figlia, sicuramente per allontanarla da me, e mi diede le spalle.
– Sua figlia, signora! – le gridai di nuovo, senza sapere se dovevo insistere o correre verso il fossato per salvare l’altra gemella.
– Guardi, signore – disse affrontandomi secca, autoritaria. – Mia figlia è qui con me – la bimba mi guardava con scherno – e quello che mi ha appena detto mi sembra uno scherzo di cattivo gusto.
– Parlo dell’altra sua figlia, signora! – Indicai la fossato. – La sabbia ha inghiottito l’altra sua figlia!
– Per favore! – mi disse in tono indignato, e tese il braccio mostrandomi la palma della mano, con il chiaro significato che non mi avvicinassi. – La smetta di dire stupidaggini! Questa è mia figlia! – Scosse la mano in alto, le dita intrecciate con quelle della bambina. – La mia unica figlia!
Si mise una borsa in spalla, si girarono e se ne andarono a piedi.
Le guardavo andare via tenendosi per mano. Le guardavo senza sapere cosa fare.
Osservai il fossato, poi la bambina che andava via con sua madre. La bimba girò la testa e mi guardò con quei suoi occhi azzurri. E le vidi di nuovo quella smorfia: le labbra aperte, spaccate e grondanti pus, i denti separati, conici, storti e macchiati. Le pupille le si dilatarono, e potei vedere attraverso le orbite vuote l’oscurità interna della testa, mentre dalla sua bocca usciva un odore putrido che arrivò a me nonostante la distanza.
Mi sedetti sulla sabbia, stordito, desiderando capire.
Al rientro, una strana figura ferma su una montagnola all’angolo mi turbò. Il sole, che si trovava dietro alla duna, ostacolava la mia visione. Continuai a camminare, e quando girai l’angolo le vidi ferme faccia a faccia, come se si stessero guardando nello specchio. Le gemelle si afferravano la gola con entrambe le mani.
E i miei polmoni si svuotavano. Lentamente si svuotavano.
Subito dopo corsero via e scomparvero inghiottite dalla penombra del pomeriggio.
Solo quando chiusi la porta del monolocale mi sentii più sicuro. Tuttavia neanche il rumore del rock pesante che arrivava da qualche caffetteria della zona pedonale mi aiutava a dimenticare ciò che avevo vissuto. Desideravo che arrivasse Julia, e che arrivasse in fretta, per vederla e raccontarle tutto.
Intuii che, in quel monolocale, qualcuno mi sorvegliava.
Una pressione e un nodo alla gola mi rendevano difficile respirare, e l’aria che esalavo mi bruciava le narici.
Una forza incontenibile mi trascinò in bagno. Mi fermai di fronte allo specchio che si muoveva in un mare di ondulazioni. E vidi il mio riflesso girare in un mulinello. Un mulinello che convertiva quel riflesso nell’immagine della gemella. Un mulinello che girava e girava. Un mulinello che terminò assorbendola.
Poco dopo, vidi arrivare Julia. Mi si avvicinò e mi diede un bacio profondo, umido e salato.
Ma non potei dirle che io non ero io. Non potei dirle che io la guardavo dall’altro lato dello specchio.
(Traduzione dallo spagnolo di Giuliana
Acanfora)
Un cordiale benvenuto a Eduardo sulle pagine di Pegasus. Molto bello il suo racconto; impeccabile, come sempre, la traduzione dallo spagnolo di Giuliana.
RispondiEliminaInquietante e accattivante il racconto di Eduardo Poggi.
RispondiEliminaodio gli specchi *_*
RispondiEliminaUn bel racconto sul tema del doppio. Qui si arricchisce dell'argomento riguardante il mondo parallelo o l' "altra" dimensione. Ma il suo vero pregio, secondo me, sta nell'impostazione narrativa: nella sua linearità riesce a mantenere alta la tensione e la curiosità del letture, e riesce a mettere un senso di inquietudine, e anche di paura, davvero intriganti. Bella la traduzione di Giuliana.
RispondiEliminaGiuseppe Novellino
Grazie per i commenti, cari lettori di Pegasus. Mi piace scrivere storie e sono contento di far parte di questo spazio letterario. Ringrazio anche Paolo per la pubblicazione e Giuliana per la traduzione. E mi scuso per il mio italiano. Un abbraccio a tutti.
RispondiElimina(Gracias por los comentarios, lectores amigos de Pegasus. Disfruto mucho escribiendo cuentos y me alegra formar parte de este espacio literario. También le agradezco a Paolo por la publicación y a Giuliana por la traducción. Y me disculpo por mi italiano. Un abrazo para todos).
Grazie a te, Eduardo, di essere entrato a far parte della famiglia di Pegasus.
EliminaPaolo: chi fa le illustrazioni di queste storie? I miei ringraziamenti e congratulazioni.
RispondiEliminaLe illustrazioni sono mie: tecnica assolutamente digitale.
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