Lo sguardo di Antonio era andato a cadere sulla
piccola libreria che si trovava nella camera da letto, proprio dove si
scorgevano i dorsi di alcuni libri che risaltavano più scuri sugli altri,
perché rivestiti di una sovraccoperta di robusta carta blu opaca. Niente di
speciale, li aveva letti e riletti tutti più volte e oramai erano lì da anni a
ingiallire e a ricoprirsi di polvere. Quei libri erano quelli che possedeva da
più tempo, era stato lui stesso a mettere quelle sovraccoperte, poi… poi non
aveva avuto più tempo e voglia di farlo. Ora quella pesante carta oleata
bluastra, che si usava ad esempio per foderare i cassetti, non era nemmeno più
in commercio, sostituita da involucri più frivoli.
Bizzarro, ora che aveva tempo, non aveva più la forza
di fare nulla tranne che giacere tranquillo nella penombra.
Antonio non sapeva se sarebbe riuscito a riprendere le
forze, sapeva che i medici l’avevano dimesso dall’ospedale perché non potevano
fare niente per lui, l’avevano rimandato a casa a morire, ma tutto questo era
successo più di una settimana prima, e almeno per ora era sempre debole e
allettato ma almeno lucido e vivo, in qualche modo era riuscito almeno per un
po’ a ingannare la Grigia Mietitrice.
L’ingresso di Manuela nella stanza interruppe il corso
dei suoi pensieri.
“Ciao, papà”, disse la donna, “io esco per andare a
fare la spesa. Stai bene, ti serve qualcosa?”
“Sto bene, grazie”, rispose Antonio, “vai pure
tranquilla, non mi serve nulla”.
Sua figlia uscì chiudendosi la porta alle spalle, e
dopo poco Antonio udì lo scalpiccio dei suoi passi giù per le scale.
“Brava
ragazza, Manuela”, venne da pensare ad Antonio; non riusciva a pensare a lei se
non come una ragazza, anche se aveva due figli già adolescenti.
Antonio aveva
due figli, Manuela e Marco: il maschio si era trasferito per lavoro in una
città lontana. Informato delle condizioni del padre, Marco aveva fatto sapere
che sarebbe venuto appena possibile. Nel complesso, Antonio non si lamentava di
loro, né della moglie, Giulia, che era stata una compagna affezionata e fedele
fino a quando due anni prima l’aveva preceduto nell’Ultimo Viaggio.
Alzò gli
occhi verso il soffitto.
“Dio mio,
perché?”, si domandò.
Si perché,
tanti perché senza risposta. Si vive, si lavora, si soffre, si incontra qualche
raro momento di gioia, si fa del proprio meglio per costruire qualcosa che può
crollare da un momento all’altro come un castello di sabbia, e che comunque a
un certo punto dovremo lasciare, per che cosa? Non era disperazione, non era un
recriminare, era solo un vago senso di amarezza, il doversene andare con tanti
interrogativi irrisolti.
Durante gli
anni del lavoro e della carriera aveva la sensazione e la convinzione di essere
diventato una persona importante; se ne era invece reso conto al momento della
pensione: era solo uno fra tanti, il che era come dire nulla.
Chiuse gli
occhi, non aveva voglia di pensare, eppure avrebbe dovuto saperlo: il flusso
dei pensieri non s’interrompe così facilmente, non a comando.
Incongruamente,
si ritrovò a ripensare alla carta blu opaca delle sovraccoperte. Quel ricordo
ne aveva fatto emergere un altro più vecchio. Ad Antonio era venuto in mente
che una carta di colore simile, ovviamente meno spessa, avvolgeva le confezioni
di pasta che sua madre acquistava nel negozio di alimentari sotto casa, o come
allora si usava dire, “la bottega” per antonomasia. Gli spaghetti, ricordava,
erano venduti in confezioni circolari, dei tubi mangerecci. E poi il latte che
si vendeva in bottiglie col coperchio di stagnola. C’era quella panna così
buona che si formava sotto il coperchio … Qualche volta, non spesso, la mamma
comprava anche delle caramelle o delle cioccolatine. Antonio aveva
l’impressione di non aver mai più sentito nel corso della sua vita un gusto
simile a quelle inenarrabili delizie.
Erano là in
un cassetto della sua memoria, non più toccati da decenni ma sempre intatti,
vivi i ricordi della sua infanzia.
C’era quel
tratto di strada un tempo così familiare che andava da casa fino alla scuola, un
plesso dove c’erano sia la scuola materna sia le elementari, e lui le aveva
frequentate lì entrambe.
Nella
direzione opposta la strada terminava in una piazzetta con un piccolo giardino,
niente di speciale, con quattro aiole e due panchine, dove nei pomeriggi dopo
lo studio si trovava con altri bambini e ragazzi alcuni più grandi, altri più
piccoli di lui, a tirare quattro calci a una palla, saltare, correre, urlare,
rientrare a casa per l’ora di cena con le ginocchia sbucciate e qualche livido.
Gli bastava
chiudere gli occhi e fare un piccolo sforzo e le rivedeva tutte quelle facce,
come erano prima che il trascorrere degli anni e le ingiurie del tempo
rendessero le fisionomie irriconoscibili.
Qualcuna di
quelle facce, mutata quanto la sua, l’aveva vista sui banchi delle superiori,
qualcuna gli era sembrato di intravederla anche dopo nel corso della sua vita
adulta e lavorativa, ma dei più non aveva più saputo nulla.
La strada
si snodava poi nella direzione opposta, passava di fronte a casa sua e proseguiva
attraverso abitazioni e negozi fino alla scuola e al bar del signor Emilio. Il
bar era il terminale finale, non nel senso che
la strada non andasse oltre, ma nel senso che era posto un poco più in là del
cancello del plesso scolastico, ed era lì che la mamma si fermava quando lo
accompagnava a scuola, gli prendeva una merendina se non aveva avuto il tempo
di preparargli qualcosa a casa, e un caffè per sé, e si soffermava se c'era
l'occasione, a scambiare quattro chiacchiere con le altre madri.
Antonio ricordava
che dell'assortimento di pasticceria del bar gli piacevano soprattutto le
focaccine con l'uva; sotto i denti, il gusto lievemente asprigno degli acini
formava un contrasto delizioso con il dolce della pasta. Nei decenni seguenti
aveva cercato invano un sapore altrettanto gradevole.
Il signor
Emilio, il titolare del bar, era un uomo robusto che, dalla sua prospettiva di
bambino, ad Antonio sembrava imponente, era di un'età indefinibile, con gli
occhi chiari, i capelli di un castano così chiaro da sembrare quasi biondi e un
paio di baffetti biondicci che parevano di stoppa. Era un uomo cordiale, gli
piaceva scherzare con le mamme che accompagnavano i bambini a scuola. Se per
caso qualcuna di loro tardava a venire a prenderli alla conclusione delle lezioni,
i ragazzi sapevano che il bar di Emilio era il punto di riferimento dove
trovarsi, e lui con pazienza bonaria teneva d'occhio i monelli schiamazzanti
che affollavano il bar verso l'ora di pranzo. Quando qualcuno dei piccoli
clienti ordinava un bicchiere di aranciata o qualche altra cosa, spesso Emilio
sbagliava a loro favore nel dar loro il resto, e qualche volta offriva lui.
Antonio si
ricordò di un giorno che era nevicato, una giornata ormai quasi primaverile; la
neve era venuta giù abbondante avvolgendo la città in un'atmosfera magica,
ovattata che dava una sensazione di intimità, paradossalmente di calore;
bastava essere ben coperti e il freddo proprio non lo si sentiva. Ricordava di
aver giocato a palle di neve con altri ragazzi del quartiere, una vera e
propria battaglia combattuta con bianchi proiettili. Centrare il bersaglio era
una soddisfazione, ma quando era la volta di essere colpiti, non era nulla di
tragico, bastava scuotere la neve dal cappotto con la mano guantata, e perfino
quando il proiettile arrivava sulla faccia scoperta, quel contato umido e
morbido non era poi spiacevole.
Negli anni
seguenti non aveva più visto una nevicata come quella, forse perché il clima
era cambiato, perché era aumentato lo smog. Cadeva un leggero strato che non
faceva in tempo a depositarsi agli angoli delle strade, che era già diventato
di uno sporco grigio-marrone-giallastro marcato dallo smog, dall'immondizia,
dalla sporcizia impalpabile che aleggiava nell'aria e si respirava tutti i
giorni senza accorgersene.
Ora che i
ricordi dell'infanzia che credeva di aver dimenticato, o ai quali semplicemente
non pensava da moltissimi anni, erano riaffiorati, Antonio si rendeva conto di
una cosa che gli era sempre sfuggita o su cui non si era mai soffermato a
riflettere: la sua vita era come spezzata in due con un taglio netto; quando
stava per iscriversi alla prima media, i suoi avevano traslocato, erano andati
ad abitare in un altro quartiere della città. Dopo tanti anni, Antonio non
ricordava se l'avevano fatto per qualche necessità o semplicemente per avere
una casa più grande o più comoda, ma la cosa non aveva poi molta importanza.
Per lui aveva significato una frattura brusca: da una parte il tempo magico
dell'infanzia, il Paese Incantato, dall'altra tutta la sua vita successiva, il
tempo degli impegni di studio, poi il lavoro, il matrimonio, la carriera, i
figli, la responsabilità.
Antonio
dalla sua posizione distesa non riusciva a vedere la finestra che dava luce
alla stanza, ma ebbe l'impressione che nevicasse; forse qualcosa come un
cambiamento nella qualità della luce.
Cercò di
sollevarsi per guardare il vano della finestra. Dapprima non gli riuscì,
qualsiasi piccolo sforzo pareva una richiesta eccessiva per il suo povero corpo
usurato dagli anni e dalla malattia, poi quasi di colpo si accorse di avercela
fatta: si ritrovò seduto sul letto a fissare oltre i vetri, là fuori dove la
neve scendeva a fitti bioccoli. Strano, gli venne da pensare, eppure si era in
maggio anche se naturalmente poteva sbagliarsi, e maggio, se ricordava bene,
era un mese in cui non nevicava, non alle latitudini italiane e al livello del
mare.
Rimase
ammirato a guardare i fiocchi che si depositavano al suolo formando strati che
si sovrapponevano uno sull'altro. Era dall'infanzia che non ricordava una
nevicata del genere. Non riusciva a capire: ci sarebbero dovute volere ore
perché la neve raggiungesse una simile altezza, forse giorni, invece tutto era
cominciato e finito in pochi minuti. Ora oltre i vetri si scorgeva uno strato
compatto di neve che si stendeva a perdita d'occhio, giusto all'altezza del suo
davanzale, eppure pareva di ricordare ad Antonio che l'appartamento non si
trovava al pianterreno ma diversi piani più in su, e se era così, allora la
città doveva essere sommersa sotto uno spessore da età glaciale.
Per alcuni
minuti rimase a fissare quella superficie candida indeciso sul da farsi. I
dolori e il senso di stanchezza plumbeo che l'avevano perseguitato per tutti
quei giorni, sembravano scomparsi. Quel mondo ovattato, bianco, luminoso oltre
la finestra pareva esercitare un'attrazione irresistibile. Si trovò fuori
all'aperto quasi senza accorgersene, doveva aver scavalcato la finestra senza
pensarci; la cosa strana era che il vetro era chiuso e lui proprio non
ricordava di averlo aperto. Mosse alcuni passi in avanti aspettandosi di
sprofondare nello strato nevoso, invece sembrava offrire un appoggio abbastanza
consistente.
Come quella
dei ricordi della sua infanzia, quella neve pareva trasmettere incongruamente
una sensazione di tepore. Antonio toccò con la mano un monticello lì vicino:
non era affatto fredda, era anzi vagamente tiepida.
Respirò a
fondo: si sentiva meglio, molto meglio di quanto non si fosse sentito negli
ultimi tempi.
Si avviò a
rapidi passi nella neve; era vestito leggero ma non provava freddo, anzi gli
sembrava di essere avvolto da un bozzolo di gradevole tepore. Quanto tempo era
che non riusciva più a muoversi con quella scioltezza e quella elasticità di
passo giovanili? Molto tempo, senza dubbio troppo.
Scorse delle
figure davanti a sé, figure umane, e notò un'altra cosa strana: da come si
muovevano, dovevano essere a livello del piano stradale, e questo lo sorprese,
perché nell'ipotesi che una bufera di neve si fosse ammucchiata sopra casa sua
fino all'altezza del suo appartamento situato al quarto o quinto piano (non
ricordava bene), per raggiungere il livello stradale avrebbe dovuto scendere,
invece aveva l'impressione di procedere in salita, una dolce, leggera salita
per nulla faticosa, ma salita.
Avvicinandosi,
Antonio poté vedere meglio le figure davanti a lui, erano bambini che si davano
battaglia a colpi di palle di neve.
Mentre si
stava avvicinando, una palla lo colpì in pieno petto. Affondandovi le dita per
scuotersela di dosso, Antonio sentì che non era né fredda né umida, pareva una
via di mezzo fra cotone e panna montata.
Preso da un
improvviso impulso, raccolse un grumo di neve, lo compresse leggermente fra le
mani per farne una palla, e la lanciò contro il ragazzo che l'aveva colpito. Ne
ricevette altre due in risposta. Ben presto si trovò coinvolto in una gazzarra
di monelli. Fu colpito più volte e rispose scagliando palle in tutte le
direzioni. Erano decenni che non si divertiva a quel modo. La cosa che più lo
stupì, fu che quei ragazzini avevano preso subito a trattarlo come uno di loro,
sebbene non avesse più per nulla l'aspetto di un ragazzo: era un uomo maturo,
un anziano, un vecchio – era il caso di dirlo – .
Poi, sempre
battagliando con la riserva di bianchi proiettili disseminata dappertutto, guardò
meglio i suoi avversari e rimase per un istante senza fiato. Avrebbe giurato di
riconoscere i lineamenti immutati nel tempo dei suoi antichi compagni di
giochi. Sforzandosi, gli parve di riuscire a collegare ad alcune facce qualche
nome, ma di quello era meno sicuro. Ciò di cui si sentiva sicuro, invece, era
che qualche strano miracolo gli aveva permesso di ritrovare il Paese Incantato
dell'infanzia.
La strada
sulla quale ora si trovava, a parte la superficie innevata e i grossi cumuli
negli angoli riparati, gli sembrava proprio la stessa dove aveva trascorso quei
primi anni meravigliosi, ma questo non l'aveva preparato alla sorpresa che
arrivò poco dopo, colpendolo con inaspettata intensità. Il bar, il bar
all'angolo dove da bambino si fermava prima e dopo la scuola, era lì proprio
davanti a lui.
Con il
cuore che gli batteva forte, fece ancora pochi metri, spinse la maniglia ed
entrò.
Dentro,
l'accolse un profumo di caffè, di dolciumi, di brioches appena sfornate,
proprio come tanto tempo prima.
Quasi senza
meraviglia, osservò l'uomo dietro il bancone: il signor Emilio identico a come
lo ricordava sessanta o settanta anni prima.
“Antonio!”
“Emilio!”
L'uomo uscì
da dietro il bancone e lo abbracciò: un abbraccio forte, di quelli che
arrivavano fin dentro l'anima e la scaldavano.
“Quanto
tempo, incredibile!”
“Posso
offrirti qualcosa?”, chiese Emilio.
“Hai ancora
quelle buonissime focaccine d'uva?”
“Certo,
come no, calde calde appena sfornate”.
“Allora”,
chiese Antonio, “Una focaccina e un caffè”.
La focaccia,
che Antonio mangiò lentamente assaporandone ogni briciola, era la più gustosa
che avesse mai assaggiato, e anche il caffè aveva un aroma intenso, corposo,
squisito.
Fece per
mettere mano alla tasca posteriore per prendere il portafogli, ma Emilio lo fermò
con un gesto brusco.
“No,
Antonio, mi offendi. Offre la ditta”.
Accompagnato
da Emilio, Antonio riguadagnò di nuovo la porta del bar che si affacciava sulla
strada; era una via che Antonio conosceva bene: da una parte c'erano la scuola,
svariate botteghe e negozi, le case di diversi dei suoi amici, casa sua, e alla
fine dove il percorso cessava sbarrato dai muri delle case che si addossavano
le une alle altre, la piazzetta dove andava a giocare a pallone coi suoi amici.
Dall'altra parte, invece, una doppia fila di abitazioni e negozi che non erano
legati ai suoi ricordi personali.
“Sai”,
disse a Emilio, “quando ero bambino, il tuo bar vicino alla scuola per me era
sempre il termine ultimo delle mie escursioni, accompagnato da mia madre o
anche da solo. Ho sempre desiderato andare oltre a vedere cosa c'è, ma ne ho
avuto anche un po' paura”.
“Prima o
poi”, rispose Emilio con aria pensosa, “tutti devono andare oltre, e ora è
arrivato il tuo momento, ma ti confiderò un segreto: tu non hai nessun motivo
di temere quello che c'è oltre”.
Si
strinsero la mano in un ultimo caloroso saluto, poi Antonio si avviò. Fatti
pochi passi, la strada svaniva, c'era solo il biancore di quella neve tiepida
che dava un meraviglioso senso di intimità e di protezione, e la luce riflessa
da quel bianco nitido che la rendeva nello stesso tempo morbida e intensa.
Man mano
che avanzava, la luce cresceva d'intensità.
Appena
rientrata a casa, Manuela andò a vedere come stava suo padre. L'uomo aveva gli
occhi chiusi e pareva dormisse, ma la figlia si accorse che non c'erano più né
respiro né polso. Sapeva che ad Antonio non restava molto da vivere, ma era un
rammarico atroce non essere stata lì al momento del trapasso, quando aveva
sperato di potergli essere vicina.
Suo padre
però – notò – non doveva aver sofferto, doveva essersene andato nel sonno,
discreto e gentile come era stato tutta la vita.
Sul suo
volto aleggiava ancora un sorriso, sembrava essersi spento con grande serenità
e dolcezza.
Piangendo,
alzò il lembo del lenzuolo a coprirgli il volto.
Una moderna fiaba, quella di Fabio, emozionante e intensa. Piacevole scrittura.
RispondiEliminaE' un racconto meraviglioso e tanto commovente. Complimenti Fabio, davvero!!!!
RispondiEliminaToccante e piacevolmente malinconico. Ottimo racconto.
RispondiEliminaDanilo Concas
Un racconto dalla grande forza emotiva che è riuscito a far leva sui miei sentimenti.
RispondiEliminaBravo Fabio.
Davvero molto bello, la scrittura semplice e trascinante, supporta lla perfezione il racconto.
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