venerdì 20 settembre 2013

MARGIAH di Paolo Secondini


Da circa mezzora Vic Toraim vagava per le strade di Nork, sul pianeta Gejal IV, non riuscendo a orientarsi per via della nebbia e del buio della notte. Per di più la sua conoscenza della città era molto approssimativa, essendovi stato in precedenza pochissime volte.
Lo tormentava la voglia di bere e mangiare a sazietà, come ormai non faceva da tempo. Gli pareva di avere nello stomaco una voragine che bisognava riempire al più presto.
A un tratto voci e rumori gli giunsero distintamente agli orecchi.
Finalmente! pensò, dopo un breve sospiro. Proprio ciò che cercavo!
Affrettò l’andatura e giunse davanti a una taverna di infimo ordine, come attestavano i muri bisunti, l’insegna scrostata, i vetri incrinati delle finestre e i molti rifiuti ammucchiati accanto alla porta di ingresso. Da essi emanava un odore pungente, insopportabile.
Vic Toraim sembrò non badarci. Era un tipo poco esigente e abituato ad ambienti anche peggiori di quello.
Di tanto in tanto, stanco di vagabondare per la galassia a bordo della sua astronave Randar X-125, atterrava su qualche pianeta o satellite naturale. Di solito non si fermava per molto: glielo impediva la sua attività di mercenario, che svolgeva a favore di chiunque, umano o alieno, fosse disposto a pagarlo profumatamente.
La permanenza a Nork – nel cui porto spaziale era giunto da poco – sarebbe durata il tempo di rifornirsi di viveri e carburante, di riposare per qualche ora o, al massimo, per un giorno intero. Poi sarebbe di nuovo partito per mondi lontani, a lui noti o completamente sconosciuti.
Toraim si avvicinò alla porta della taverna e, proprio sul punto di aprirla, ebbe un istante di esitazione…

Rivide, nella sua mente, la Locanda di Kaab, gremita di baldi e valorosi miliziani.
Seduti ai tavoli, bevevano birra o liquori assieme a graziose ragazze dai vestiti sgargianti, dalle forme e dai modi procaci; parlavano di guerre, di missioni rischiose, dei duri addestramenti militari, dell'onore di indossare la gloriosa divisa della Forza Uxiale.
A un tratto si fece silenzio, si abbassarono le luci e sul palcoscenico apparve lei, la splendida Margiah, con un abito scuro che luccicava di lustrini, dai lunghi capelli ondulati e rossi come il cielo infuocato del tramonto, dagli occhi grandi, sereni, di un azzurro intenso.
Vagò con lo sguardo sui volti di quanti, innamorati di lei, l'ascoltavano attenti, rapiti, mentre intonava, con voce suadente, Il Fiore di Lilit.
Margiah!

All’improvviso la scena svanì dalla mente di Toraim, lasciando però nel suo animo un senso profondo di nostalgia.
Il mercenario emise un sospiro, poi, con forza, serrò le mascelle.
Dov’erano adesso quei valorosi miliziani che, come lui, avevano spesso rischiato la vita in battaglia o azioni pericolose?... Dov’era la splendida Margiah, in quale pianeta, piccolo o grande, della galassia di Vega?... Su quali volti ora si posava il suo sguardo appassionato, e quali cuori il suo canto melodioso accarezzava dolcemente?
Toraim scosse la testa, come a scacciarvi i fantasmi della propria giovinezza. Poi spinse con decisione la porta della taverna e indugiò un momento sull’uscio, le mani appoggiate ai battenti di legno.
Il vociare confuso all’interno si spense di colpo. Quasi tutti gli astanti, in piedi o seduti, volsero gli occhi verso di lui. Dopo averlo squadrato da capo a piedi, giudicato persona della risma alla quale essi stessi appartenevano, tornarono a bere, a parlare, a molestare le cameriere, che mostravano di sopportare ogni cosa con infinita pazienza.
La forte esalazione di vino e birra delle peggiori qualità procurò a Toraim un lieve capogiro, per quanto egli fosse un bevitore per nulla disprezzabile.
La taverna era piena del fumo di una friggitrice, dalla quale emanava un odore pungente di carne bruciata. Sembrava che la nebbia, che invadeva le strade di Nork, fosse penetrata nel locale.
Facendosi largo tra i molti avventori e le cameriere che, senza sosta, andavano a destra e a sinistra, avanti e indietro, portando vassoi con piatti, boccali e brocche di vetro o terracotta, il mercenario raggiunse un tavolo libero, in un angolo poco illuminato.
Desiderava starsene in pace e non attirare, possibilmente, l’attenzione di nessuno.

* * *

La taverna era un locale piuttosto lungo, dai muri sporchi come all’esterno, dal soffitto basso e fatto con travi di legno annerito, da cui pendevano lampade a olio irradianti una tremula luce giallastra.
Volgendo solo la testa, il mercenario vagò con lo sguardo all’intorno. Frasi spezzate, pronunciate con voce alterata dal vino o dalla birra, gli giunsero chiare agli orecchi.
«Quella baldracca di Tyra fa la smorfiosa con tutti, ora che Sadlos…»
«Chi, quel farabutto dalla pelle olivastra?»
«Già! Proprio lui!»
«Ho sentito che è stato rinchiuso nel penitenziario di Rakmon.»
«Riuscirà a fuggire anche da lì, vedrete. È soltanto questione di tempo.»
«Io spero che vi marcisca, quella canaglia! Anni fa, durante una rissa, mi colpì alla guancia con il pugnale. Guardate: mi fece un ricamino niente male!»
«Vorrei proprio vederlo adesso, costretto a lavorare a furia di frustate.»
«Senza vino né birra…»
«Né quella baldracca di Tyra… Eccola là che se la ride, piena di alcol come una botte.»
«Lasciala fare, Polk, è vecchia e sdentata. Che si goda la vita, finché è in tempo!»
Bastò a Toraim girare la testa in un’altra direzione, per sentire parole e frasi diverse.
«Il colonnello Demistrel?... Accidenti! Un tipo in gamba!»
«Un po’ vecchio, non credi?»
«Vecchio senz’altro ma in gamba!»
«Ci puoi scommettere, Dawal. Io lo conosco.»
«Tu conosci Demistrel?»
«Ho combattuto ai suoi ordini nella battaglia di Rasmor. Ero fuciliere.»
«Si starebbe tranquilli su questo pianeta se quei maledetti hilderiani…»
«Tu pensi che quei rinnegati possano rappresentare una seria minaccia per il nostro mondo?»
«Lascia perdere quei maledetti, Klom. Bevi. Non pensare ad altro.»
«A tutto penserà Demistrel.»
«È in gamba, vi dico. Il miglior ufficiale che abbia conosciuto in vita mia.»

* * *

Una cameriera si avvicinò a Toraim e rimase un istante a osservarlo. Era giovane e molto graziosa, i capelli ramati e lunghi fino alle spalle, gli occhi azzurri, il seno racchiuso in un’attillata camicetta color malva.
«Che bevete?» domandò con un vago sorriso sulle labbra, probabilmente lo stesso che rivolgeva a chiunque per apparire cordiale.
«Che cosa mi consigliate?» rispose il mercenario, senza entusiasmo.
«Solo vino e birra serviamo qui dentro. Siete fortunato: non dovete scervellarvi troppo per scegliere ciò che preferite.» Sorrise di nuovo, forse per farsi perdonare la lieve impertinenza. «Volete che vi porti della birra?» aggiunse, subito dopo. «Viene direttamente da Alghéar. È speciale, sapete? Ed è anche molto robusta. Parecchi, al primo boccale, finiscono stesi sul pavimento… Oh, non dovete vergognarvi se capiterà anche a voi!»
Questa volta, più che sorridere, ella rise apertamente, mostrando una fila di denti smaglianti e perfetti.
«Tanto per cominciare portatemi pure un boccale di birra, ma che sia veramente robusta come dite,» fece Toraim strizzando l’occhio.
«Lo sentirete voi stesso, non dubitate,» esclamò la ragazza sorridendo ancora.
Ancheggiando, si diresse in fondo al locale.
Il mercenario volse di nuovo lo sguardo nella taverna e ascoltò, ma senza interesse, altre parole, altre frasi, pronunciate da quanti gli sedevano intorno.
Non chiedeva di meglio che riposare, ristorarsi, senza pensare a niente, specialmente ai tanti problemi che lo tormentavano da un pezzo, come anche all’urgenza di procurarsi continuamente denaro per vivere.
Dopo alcuni momenti tornò la cameriera. Depose sul tavolo un boccale e un bicchiere e fece per andarsene.
«Versate!» lui la fermò con voce decisa.
La ragazza rimase a guardarlo, poi, lentamente, scosse la testa.
«Non è compito mio,» esclamò. «Le mani le avete. Potete versarla voi stesso.»
Toraim non rispose. Fissò la cameriera con occhi di ghiaccio, dai quali emanava una forza magnetica irresistibile. Non gli fu necessario pronunciare altre parole per farle cambiare atteggiamento.
«Siete proprio un bel tipo, sapete?» lei disse prendendo il boccale dal tavolo. Versò la birra nel bicchiere. Appena lo ebbe riempito, glielo porse. «Da dove venite? Non mi pare di avervi mai visto prima di adesso. Ricorderei una faccia anche a distanza di anni. Ho una buona memoria.»
«Non vorreste bere con me?» domandò il mercenario eludendo le sue osservazioni.
«Bere con voi?» si stupì la ragazza. Per un istante volse la testa in fondo al locale, quindi tornò a osservare lo straniero. Gli sorrise. «Berrei volentieri con voi, dal momento che siete simpatico, ma…» Si interruppe e, con un cenno del capo: «Vedete laggiù quel brutto grassone pelato? Quello in grembiule che frigge la carne dietro il bancone?... Si chiama Erog. È il proprietario di questa taverna. Dovreste chiedere a lui se posso sedermi al vostro tavolo e bere con voi. Senza il suo permesso…»
«Vi prego!» la interruppe Toraim, risolutamente. «Bevete un goccio di birra.» E spinse il bicchiere sul tavolo verso di lei. «Per conto mio mi servirò dal boccale.»
La ragazza lo guardò di nuovo con una espressione sbalordita.
«Siete sordo per caso?» disse alla fine. «Di certo non conoscete quel porco di Erog! È capace di uccidermi!…Ucciderà anche voi. Statene certo.»
«Per un bicchiere di birra? Credo che al vostro padrone manchi del tutto il senso delle proporzioni… Sedete, vi prego!... Non bevo da anni con una ragazza graziosa come voi. Mi dareste una gioia immensa, più di quanto possiate immaginare.»
La cameriera, lusingata da quelle parole, non poté fare a meno di sorridere. Ciò nonostante esitò. Ancora una volta ella volse lo sguardo in fondo al locale, e rimase a guardare più a lungo il grasso taverniere. Anche da quella distanza poteva vederne il viso arrossato e bagnato di sudore, l’espressione perennemente cattiva nei suoi occhi.
«Sono sicura che accadrà qualcosa di spiacevole,» disse tornando a fissare lo straniero. «Ma in fondo, alle risse sono abituata. Una in più, una in meno… Non sembrate il tipo che abbia paura di Erog. Dovreste averne, invece. Quando si arrabbia è una belva furiosa.»
«State tranquilla. Non ci saranno problemi di alcun genere.»
«Lo spero davvero!» disse la cameriera e ingollò un sorso di birra.
Sul momento sembrò che la forte bevanda non avesse causato il minimo effetto. Ma subito dopo, ella fece una smorfia di disgusto e tossì con violenza.
«Mi dispiace!» disse Toraim crollando la testa. «Ho l’impressione che la birra non sia di vostro gradimento. Vi ho costretta…»
«Oh, non datevi pena! Non è colpa vostra.» Tossì ancora. «In ogni caso, siete stato gentile a invitarmi.»
Si cacciò due dita tra i seni e trasse una piccola fiala di colore arancione. Tolse il tappo e versò poche gocce nel bicchiere che spinse sul tavolo verso lo straniero.
«Omaggio della casa!» esclamò la ragazza. «Per ricambiare la vostra cortesia.»
«Ambrosya?»
«Pura al cento per cento.»
Il mercenario fischiò debolmente.
«Roba che scotta!» disse.
«Già!» lei annuì. «Ho sempre una grande paura che me la trovino addosso. Le autorità sono poco indulgenti con chi fa uso di droga. Qui a Nork, per una piccola dose possono darti fino a sei anni di prigione. Per una quantità giudicata considerevole si rischia l’ergastolo; addirittura la vita, se si è recidivi.» Scosse la testa gravemente. «A mio parere, i magistrati sono troppo severi.»
«Non avete pensato sia meglio farne a meno? Una bella ragazza come voi non dovrebbe rischiare così tanto. Sarebbe un peccato se…»
«Cosa volete che vi dica?... Per niente al mondo mi priverei di un po’ di ambrosya. Mi basta ingerirne un paio di gocce per sentirmi subito un’altra persona, come se…» Si interruppe. Emise un sospiro. «Con le parole non sono capace di spiegarvelo, ma penso che voi…»
«Conosco perfettamente il suo effetto,» rispose Vic Toraim e, preso il bicchiere, lo scolò d’un fiato.
Fu come ingoiare del fuoco liquido.
Alla sensazione di intenso bruciore seguì, immediatamente, un’altra di potenza inaudita. Sentì i muscoli del petto e delle braccia contrarsi autonomamente, e una grande energia sprigionarsi da tutte le fibre del suo corpo. In quel momento avrebbe affrontato, senza timore, una decina di avversari, sicuro di batterli.
«Come vi sentite?» chiese la ragazza, lo sguardo fisso negli occhi dell’uomo.
Lui rispose con un’altra domanda, altrettanto precisa:
«Fate uso di droga per difendervi da Erog?»
La ragazza esitò un momento, prima di rispondere.
«Lo avete capito!» Annuì. «Ma quel bastardo ne assume più di qualsiasi altro. Ne è pieno in ogni momento della giornata, anche adesso. Lo sanno tutti e tutti lo temono per questo, perfino i gendarmi, che molto di rado mettono piede qui dentro.» Tacque un momento per asciugarsi con la mano il sudore sulla fronte. «Fa uso di droga per sedare le risse che scoppiano frequentemente nel locale, per strapazzare per bene quelli che non pagano il conto o urlano o danno fastidio alle inservienti… ma anche per fare i suoi sporchi comodi, quella carogna.»
Vic Toraim rimase a osservare gli occhi della ragazza. Erano meravigliosi e brillavano come due puri lapislazzuli.
«Non mi sembra che abbiate molta simpatia per il vostro padrone,» disse alla fine.
«È un porco, ve l’ho detto! Si prende con noi certe libertà che non dovrebbe.»
«Con voi cameriere, intendete?»
Lei annuì, in silenzio.
«Non fate nulla per ribellarvi?» chiese il mercenario.
«Ci scaccerebbe. E trovare un altro lavoro in questa città non è facile.»
Vic Toraim scosse la testa.
«E così preferite che il vostro padrone…» Si interruppe, non volendo apparire scortese. Aggiunse: «In ogni caso, se posso darvi un consiglio, cercate di non abusare di ambrosya. Anzi, fareste bene…»
«Senza di essa non riuscirei a svolgere questo lavoro nemmeno per un’ora. Tutte noi inservienti, qui dentro, ne facciamo uso.» Per un attimo volse lo sguardo intorno. «Avete visto quanti clienti? È sempre così, in ogni momento della giornata. C’è molto da fare continuamente. Un po’ di ambrosya è quel che ci vuole per…»
La voce, roca e profonda, giunse improvvisamente.
«Lurida scansafatiche, credi che i clienti siano disposti ad aspettare i tuoi comodi?»
La ragazza volse la testa e incontrò il viso di Erog, la cui espressione non differiva da quella di un feroce mastino.
«Vedo che te la spassi, piccola sgualdrina!» ringhiò il taverniere. «Alza il sedere da lì, se non vuoi che ti frusti a dovere. Torna immediatamente fra i tavoli.»
Toraim guardò biecamente il grassone che, immobile, le mani sui fianchi, schiumava di rabbia. Notò che era un uomo massiccio, tarchiato, sulla cinquantina, con spalle e braccia robuste, ma con una pancia flaccida, enorme. Aveva la fronte e le guance imperlate di sudore.
Del suo aspetto colpì il mercenario un piccolo tatuaggio sull’avambraccio sinistro, raffigurante due lettere rosse dentro un quadrato azzurro: una f e una u maiuscole.
Era quello il simbolo della Forza Uxiale, di stanza sul pianeta Voskel, nel settore X32-KL della galassia di Vega.
Significava in sostanza che quell’individuo era stato, un tempo, un miliziano della Grande Alleanza Interplanetaria, un uomo in cui, durante il periodo d’addestramento, erano stati inculcati alti ideali e valori: libertà, giustizia, onore, spirito di abnegazione.
Osservandolo, Toraim stentò a credere di avere di fronte un ex miliziano, praticamente un suo commilitone, benché non lo avesse mai visto né incontrato in vita sua.
Mentre la ragazza si alzava dalla sedia, il mercenario fece sentire la sua voce, calma e possente.
«Restate dove siete. Non vi ho detto di andarvene. Se lo faceste, sarebbe un atto di scortesia nei miei confronti.»
Lei lo guardò, le mani poggiate sul piano del tavolo e una espressione basita sul viso. Lentamente volse la testa verso il taverniere. Non sapeva come comportarsi, ma capiva che, tra breve, sarebbe successo il finimondo.
«Allora, ti decidi ad alzarti e servire i clienti?» sbraitò il padrone.
«Ha già deciso!» fece Toraim con pieno controllo dei suoi nervi. «Tornate senza voltarvi al vostro bancone. Eviterete un sacco di guai.»
Il taverniere fissò lungamente il viso dell’uomo che si era permesso di parlargli in quel modo. Dopo avere serrato le mascelle, gonfiò il petto stringendo i pugni con forza, le braccia distese lungo i fianchi.
«E voi chi diavolo siete?» ringhiò alla fine. «Bevete tranquillo la birra e impicciatevi dei fatti vostri.»
«È proprio quello che faccio, se ancora non l’avete capito. La ragazza è con me, è mia ospite. E non voglio che voi la trattiate sgarbatamente. Né ora, né mai!... Ve lo ripeto: tornate in fondo al locale a occuparvi dei vostri clienti. Ve lo consiglio per il vostro bene.»
Intorno al tavolo, all’improvviso, si era fatto il vuoto.
Molti avventori erano in piedi e distanti di alcuni passi, non volendo essere coinvolti nella rissa imminente. Qualcuno, addirittura, cominciò a incitarla.
«Che cosa aspetti, Erog, a dargli una lezione? Fagli vedere chi sei.»
«Soltanto con noi sei capace di usare i tuoi modi gentili?» disse un altro. «Accarezza anche il suo viso con quelle tue luride manacce.»
«Non avrai per caso paura?» fece un terzo. «Credo che l'ambrosya abbia del tutto rammollito, oltre al cervello, anche i tuoi muscoli.»
«Dài, Erog, saltagli addosso, maledetto bastardo!»
«Su, forza, forza!»
«Muoviti, brutto grassone!»
«Avanti!»
Spinto da quelle parole, il taverniere si slanciò, sbuffando come una belva, contro Toraim. Questi, che si aspettava quell’attacco, gli affibbiò con il piede una tremenda pestata all’addome, che lasciò il povero Erog senza fiato, piegato in due, la saliva che gli colava agli angoli della bocca. Il mercenario si alzò lentamente dalla sedia e, con un pugno ben assestato alla punta del mento, spedì all’indietro il taverniere che, cadendo su un tavolo, lo fracassò con il peso del corpo, assieme a bicchieri, piatti e boccali.
«Alzati!» lo incitò un avventore piuttosto deluso dalla rapida fine dello scontro. «Che aspetti a dargli una lezione?»
«Avanti! Avanti!» disse un altro.
«Tirati su, bestione!»
Ma Erog non rispose, né si mosse, immerso com’era nel mondo dei sogni.
Due colpi soltanto lo avevano messo fuori combattimento: due colpi che, sicuramente, egli avrebbe ricordato per un pezzo.
Gli occhi di tutti si volsero allora a scrutare il viso dello straniero, dal quale non traspariva alcuna emozione, tranne una espressione di imperscrutabile durezza.
Videro l’uomo avvicinarsi alla ragazza, che poco prima sedeva al suo tavolo, e farle una a carezza sulla guancia.
«Fatemi un fischio,» lo sentirono dire, «se quel bestione al risveglio vi darà fastidio.» Poi, volgendo lo sguardo verso Erog: «Credo, purtroppo, che la voglia di fare il prepotente non gli passerà facilmente! »
La ragazza sorrise allo straniero e rimase a guardarlo mentre, a piccoli passi, usciva dal locale.

* * *

Appena il mercenario fu all’aperto, si avviò lentamente lungo la strada. Ma dopo pochi metri si fermò, si volse e stette a fissare, con occhi assorti, la porta della taverna.
Vide di nuovo…

alcuni baldi e valorosi miliziani seduti ai tavoli nella Locanda di Kaab. Ridevano rumorosamente alterati dall'alcool, dalle luci, dalla viva allegrezza dell'ambiente, insieme con belle ragazze dai capelli fluenti, dagli occhi chiari e lucenti come rugiada, dalle forme e dai modi procaci.
A un tratto si fece silenzio, si abbassarono le luci e sul palcoscenico apparve lei, la splendida Margiah. L’orchestra mandò le prime note e lei, con voce suadente, melodiosa, intonò Il Fiore di Lilit.
Tutto successe all'improvviso.
Il capitano si alzò dalla sedia visibilmente ubriaco. Le gambe malferme, avanzò barcollando nel locale, urtando i tavoli e rovesciando bicchieri e bottiglie.
Prima che qualcuno capisse le sue intenzioni, salì sul palcoscenico, fu addosso a Margiah. La strinse voluttuosamente con forza e tentò di baciarla sul collo, sulla bocca, sulle spalle, mentre lei, gli occhi sbarrati e urlando dal terrore, cercava disperatamente di liberarsi dal suo abbraccio.
Qualcosa scattò in Vic Toraim come una molla e lo indusse ad alzarsi dal suo tavolo, a correre verso il palcoscenico.
Furente, si scagliò sul capitano colpendolo ripetutamente con i pugni. Era cieco di rabbia. Lo avrebbe di certo ammazzato se alcuni miliziani non fossero accorsi per separarlo dall’ufficiale, che ormai si accasciava senza difese, inerte, il volto imbrattato di sangue.
Ancora stravolto dall'ira e respirando con affanno, Toraim ascoltò le voci dei propri commilitoni che, intorno a lui, lo incitavano a fuggire per evitare l’arresto e l’inevitabile condanna a morte, prevista in caso di aggressione agli ufficiali della Forza Uxiale.
Fu costretto dunque a scappare, ad abbandonare il suo mondo, i suoi compagni, a non rivedere la splendida Margiah… a non indossare mai più la gloriosa divisa della Grande Alleanza Interplanetaria, di cui era stato sempre orgoglioso e che, in ogni circostanza, aveva saputo onorare.
Per guadagnarsi da vivere non gli restò che mettere a frutto le sue qualità acquisite in anni di militanza nella Forza Uxiale, offrendosi, dietro compenso, a chiunque avesse bisogno dei suoi servizi.
Cominciò, da quel momento, la sua rischiosa carriera da mercenario e il suo inarrestabile vagabondare per la galassia di Vega.

Vic Toraim scosse la testa, poi sospirò e riprese a camminare per le strade di Nork, ancora immerse nella nebbia.

3 commenti:

  1. Riletto con molto piacere. Già presentato nell'antologia "Nuove storie dallo spazio", dove si possono leggere altri racconti, pubblicati come omaggio verso la gloriosa fantascinza avventurosa.
    Qui lo scenario dei mondi è veramente suggestivo.

    Giuseppe Novellino

    RispondiElimina
  2. Bella riflessione su come un'istante possa cambiare la vita di un uomo, interessante anche pensare alla differenza tra i due ex miliziani, l'uno fiero dei suoi principi, anche la fedeltà a essi ne ha causato l'allontanamento dall'esercito, l'altro abbruttito e rozzo, nonostante in un certo senso la vita gli abbia sorriso più che non al protagonista.

    Sauro nieddu

    RispondiElimina
  3. Sempre ottimi i racconti di Paolo. Molto profondo.
    Mi piacciono parecchio anche i nomi che usi per i personaggi e per i luoghi.
    Bravissimo.

    Antonio Ognibene.

    RispondiElimina