Intuì che era
un passo sbagliato un attimo prima di posare il piede. Attraverso lo schermo
trasparente del casco ci fu un roteare di grigio e di nero e di striature
rossocupo e di lampi accecanti.
Il corpo
dell'uomo rimase immobile sul fondo del crepaccio, una ferita nell'uniformità
della piana, e la tuta era adesso un punto di luce immobile, visibile
unicamente dall'alto e da una particolare angolazione.
Il tempo
cominciò a fluire lento, la stella intorno alla quale il pianeta ruotava cambiò
posizione rispetto alla linea dell'orizzonte. Le ombre dei massi si
allungarono, la catena di monti si ritagliò nera sullo sfondo del cielo. Molto
più lontano, invisibile, un'astronave aspettava su una radura vetrificata dai
getti.
Quando la
stella fu completamente nascosta dalla catena di monti, sulla superficie ci fu
un movimento. Quell'unico segno di vita raggiunse il ciglio della fenditura e
vi entrò. Poi tutto tornò immobile in un silenzio immenso. Con la luce della
stella era scomparsa gradualmente anche la percezione del tempo. Sembrava che
ogni cosa trattenesse il respiro, come in attesa di un accadimento.
Il freddo
cominciò a penetrare nella tuta; allora ci fu un clicchettio e la temperatura
interna aumentò. Lontano, una manciata di uomini lanciavano messaggi che si
diffondevano inutili attraverso la piana. Per l'uomo dentro il crepaccio tutto
questo era più lontano della Terra stessa.
L'improvvisa
consapevolezza fu frenata dalla preparazione. L'uomo rimase immobile. Per prima
cosa ascoltò il precipitoso ritmo cardiaco e aspirò profondamente l'ossigeno
delle bombole. Non tentò di alzarsi: la tuta poteva essersi impigliata su
qualche spuntone di roccia o essere danneggiata per lo sfregamento, e un
movimento rapido e improvviso avrebbe potuto lacerare il tessuto. Malgrado
avesse gli occhi spalancati, non riusciva a vedere nulla. Sono diventato
cieco, pensò l'uomo. Per un attimo perse il controllo, e la paura tenuta
sino allora arginata lo sommerse. Ma subito scosse la testa, probabilmente è
notte... ma le stelle dove sono? Poi pensò ancora, forse da questa
posizione non posso vedere il cielo.
Ed ecco che il
dolore alla gamba prese il sopravvento su tutto e uscì dallo stato latente per
esplodere ed espandersi in tutto il corpo. Solo allora l'uomo si rese conto che
quel dolore c'era sempre stato, sin dall'istante in cui aveva ripreso
conoscenza, ma la gravità della situazione e l'accertarsi che non ci fossero
immediate necessità per la sua sopravvivenza avevano relegato il dolore a
livello inconscio, o meglio l'avevano rimosso per permettergli di fare un primo
lucido esame.
Sentiva il
braccio destro schiacciato dal peso del corpo, la gamba era un ammasso di
dolore. Doveva fare qualcosa. Passò le dita guantate sulla spalla sinistra fino
a raggiungere la tasca porta-attrezzi. Estrasse un sottile cilindro metallico e
lo portò proprio davanti la visiera. Quando premette il pulsante fu come
l'accendersi dell'albero di Natale quand'era bambino. Passò il raggio della
torcia tutt'intorno per rendersi conto del luogo in cui si trovava, poi lo
fermò su quella maledetta gamba. Era rotta, naturalmente. Come la
ricetrasmittente. La tuta invece aveva resistito.
Alle sue spalle
la parete rientrava a tetto verso l'alto in modo che l'ampiezza del crepaccio
al livello della superficie non raggiungeva il mezzo metro e gli impediva di
scorgere il cielo. Si spostò lentamente, e mentre osservava le poche stelle ora
visibili, fu preso da una grande stanchezza. Come una marea crescente, un caldo
torpore gli salì su su fino agli occhi. Affondò nuovamente nell'incoscienza.
La luce era un
po' strana. Dorata, più calda. Ad ogni modo gli piaceva, gli dava un senso di
sicurezza. Con la luce del giorno il crepaccio aveva perduto l'aspetto
misterioso dovuto al buio e alle ingannevoli ombre create dalla torcia. L'uomo
rimase seduto a guardare attraverso la fenditura sopra di lui. Allungando le
braccia avrebbe potuto raggiungere l'orlo della fenditura. E poi i suoi
compagni lo stavano sicuramente cercando. Sorrise. Riuscì a muovere la gamba
ferita e rimase sorpreso dalla facilità con cui sembrava risolto uno dei
problemi più gravi. Un piccolo sforzo e fu in piedi. Anziché dolore lancinante,
migliaia di formiche si misero a correre su e giù per la gamba, «Bene,» disse
l'uomo a voce alta, «Bene.»
Guardò ancora
verso l'alto perché c'era qualcosa in quella luce... e improvvisamente capì: la
luce che scrosciava era la stessa luce dorata del Sole in una splendida
giornata d'estate sulla Terra. Rimase sbigottito, gli occhi ammiccanti.
A questo punto
non restava che cercare il luogo più adatto per uscire sulla superficie e
raggiungere i suoi compagni. Lentamente si mise in cammino. L'ostacolo gli si
presentò improvvisamente dietro una curva a gomito, ma la sua mente razionale
subito lo rifiutò. Scaturiva dalla parete a destra, attraversava tutta
l'ampiezza del crepaccio e si protendeva verso l'alto. Un groviglio di radici e
rami, una vera barriera vegetale.
Con gli occhi
sbarrati, l'uomo rimase immobile, mentre la sua mente registrava cose
impossibili: il colore, il fogliame rigoglioso, la pianta stessa, «Sto
delirando,» concluse l'uomo, «Eppure questa luce, ed ora questa pianta, tutto
ciò è reale!»
Cominciò ad
avanzare verso il viluppo e più si avvicinava più diminuiva il suo timore per
quella entità così estranea in quel contesto, così illogica. La primitiva
sensazione di estraneità lasciò il posto a un senso di simpatia, come l'aver
trovato un vicino di casa in un paese straniero, e improvvisamente dentro
l'uomo una diga si ruppe e un'onda impetuosa di commozione lo pervase. Grosse
lacrime gli spuntarono. Si inginocchiò singhiozzando davanti a quei rami così
simili a braccia familiari, dolci e carezzevoli, si lasciò cadere sopra quel
manto accogliente, abbandonandosi come su un letto di amante, e le sue braccia
si intrecciarono in un amplesso immenso con altre braccia del tutto nuove
eppure conosciute da sempre, e il suo casco e il suo corpo goffo dentro la tuta
furono accarezzati da petali come dita leggere e baciati da muschi morbidi come
labbra di donna... in una catena lunga di ricordi. L'uomo chiuse gli occhi.
C'era amicizia e amore, però non a misura d'uomo ma a livello cosmico, da
intelligenza vivente a intelligenza vivente, indipendentemente e al di sopra
dei sentimenti umani contaminati e finiti. Nella sua limitatezza doveva infatti
“umanizzare” quelle sensazioni agganciandole a modelli comprensibili.
Sentì la sua
essenza sciogliersi, desiderò espandersi fino a coprire tutto il cosmo in un
unico muto abbraccio ma nello stesso tempo, con umile lucidità, era consapevole
di trovarsi di fronte ai suoi limiti umani, impossibilitato a trasmettere tutto
questo.
Poi il dolore
alla gamba coprì ogni cosa e si ritrovò appoggiato alla parete di fango,
immerso nel buio, urlante.
Sotto la tuta
l'arto si era gonfiato. Attraverso il grosso guanto sentiva il gonfiore che
aveva trasformato la gamba in un ammasso turgido, «Sono fregato,» disse a voce
alta, «Da questa fossa schifosa non mi muovo più, questo è certo.» Succhiò un
po' d'acqua dalla cannuccia interna. L'indicatore di ossigeno dava un flusso
regolare e una riserva per una quindicina d'ore, «Che posso fare in quindici
ore se quelli non mi trovano?» si chiese l'uomo. Sopra di lui il cielo
schiariva. Sta sorgendo, pensò,
e sarà l'ultima volta che vedrò il sole di questo pianeta. Spero
abbia la luce che ho visto nel sogno... sembrava proprio il Sole della Terra.
Vorrei... un'onda di nausea gli arrivò improvvisa e a stento trattenne il
vomito, «Oh, no!» con voce rotta, «Questo no!» Un'altra onda di nausea lo
investì con violenza maggiore e questa volta non fu in grado di trattenersi. I
conati si susseguirono convulsi. Poi l'uomo scivolò lentamente e giacque
sfinito.
Quando si
riprese, un'ora o pochi minuti dopo, gli sembrò che il dolore alla gamba si
fosse un po' attutito, ma ora gl'importava solo dormire e possibilmente
terminare la riserva di ossigeno prima di un altro risveglio.
Non fu così.
Ancora una volta la luce filtrò dal crepaccio traendo l'uomo dal rifugio
dell'incoscienza. E quando la mente gli si snebbiò, finalmente si sentì pronto.
Bastava un piccolo taglio sulla tuta.
Già con il
coltello in mano, fu fermato dall'indicatore dell'ossigeno. Flusso regolare e
riserva per circa ventitré ore. Forse prima non ho visto bene, pensò
l'uomo, era buio e ho letto quindici ore anziché venticinque. Con ventitré
ore di tempo a mia disposizione può ancora succedere qualcosa... ma come posso
essere sicuro che sto vivendo la realtà? Afferrò la gamba all'altezza della
ferita e strinse con tutta la forza che gli era rimasta. Urlò, ma nello stesso
tempo si rese conto che l'urlo era stato un riflesso condizionato perché non
c’era nessuna necessità di urlare.
«E va bene,»
disse l'uomo ad alta voce, «Ora non dovrebbero esserci dubbi.» Succhiò dalle
cannucce interne una buona dose di concentrato vitaminico e alcune sorsate di
acqua piacevolmente fresca, e fu in piedi.
Non ci furono
esitazioni nella direzione da prendere. Dietro la curva, nessuna traccia di
piante, naturalmente, solo il fondo accidentato del crepaccio leggermente in
salita. In salita? Le sue condizioni fisiche glielo impedivano, ma dentro di sé
l'uomo fece un balzo di gioia. Lentamente, appoggiandosi alla parete, proseguì
salendo lungo lo stretto camminamento, arrivò a una seconda curva, la superò, e
a quel punto avrebbe dovuto trovarsi sulla superficie.
Ma il sentiero
continuava a salire. La parete a sinistra manteneva un'altezza costante mentre
quella a destra si abbassava gradualmente. A una decina di metri si presentò
un'altra curva, questa volta in direzione opposta. La mente dell'uomo
ricominciò a vacillare. Si fermò ansante, guardandosi intorno, «Ho capito,»
disse, «Malgrado la prova, anche questo è frutto del delirio. Comunque,
cosciente o no, devo proseguire.»
Ciò che vide al
di là dell'ultima curva spazzò come un turbine l'importanza di sapere se stava
vivendo nella realtà o nel labirinto dell'incoscienza. Di colpo una sola cosa
divenne essenziale: essere presente in quella determinata porzione di spazio.
La sua mente fu subito chiara e limpida, senza problemi di sopravvivenza,
l'unica imperiosa necessità era partecipare a quell'accadimento nel modo più
completo possibile. Il fondo del crepaccio non era adesso che una stretta
cengia aperta a picco sul mare, e l'uomo ebbe la sensazione di trovarsi su un
poggiolo sospeso nel cielo. Appoggiato alla parete, sentiva che ogni cosa era
composta solo di colore. Come l'azzurro del cielo, che non si poteva più
confinare entro il valore semantico di azzurro perché il cielo, oltre che essere
– non avere – quel colore, era la conseguenza unica e logica del tutto, e il
ritmo era talmente perfetto che ogni variazione comportava un immediato
cambiamento nell'insieme in modo da mantenere un costante equilibrio cromatico.
E l'uomo non si sentiva estraneo all'insieme perché con la tuta sporca di terra
e il casco lordo di vomito era la tessera insostituibile nell'intero mosaico.
Nient'altro all'infuori della sua presenza fisio-cromatica poteva trovarsi là
in quel frammento spazio-temporale e creare così una simbiosi fino a livello
molecolare con il tutto che lo circondava, ogni molecola del suo corpo vibrava
in risonanza con gli altri miliardi di miliardi di molecole...
Allora comprese
ciò che nessun uomo era arrivato a comprendere così a fondo; ebbe la visione di
ciò che significa bellezza, di ciò che gli artisti avevano cercato da sempre di
tradurre in colore e forma e ritmo, di ciò che gli uomini dall'inizio della
loro comparsa sulla Terra avevano creduto di dire con la musica e la pittura e
la scultura e con le parole e con tutte le altre espressioni d'arte. Apprezzò i
tentativi passati di tradurre ingenuamente la bellezza con il metro delle
possibilità umane, e con simpatia comprese gli errori e soffrì le mancanze.
Avanzò di un
passo. Vibrazioni percorsero lo spazio trasformando l'insieme come in un
caleidoscopio, anche se a occhio umano nulla veniva modificato se non la
posizione spaziale dell'uomo. Ma perché tutto questo solo per il dolore
provocato da una semplice frattura? Si chiese muto.
Cercava di
trovare una risposta, quando la sua nuova sensibilità avvertì all'improvviso un
neo nella perfezione, una nota stonata nel possente ritmo di cui faceva parte,
e subito la individuò: nello spazio tra il sentiero e la superficie del mare
era necessaria la presenza di un segmento blu in sospensione. L'uomo si chiese
perché mai l'estetica fosse stata improvvisamente spezzata provocandogli un
male quasi fisico. La bellezza era svanita nell'attimo in cui si era
manifestata la necessità di quel volume blu sospeso sull'acqua. Ora si trovava
impotente di fronte a una situazione che gli sfuggiva e che gli era
contemporaneamente insopportabile.
Fu allora che
dalla parte opposta del sentiero apparve l'essere.
Lentamente si
avvicinava all'uomo, la parte anteriore protesa verso l'alto, il resto del
corpo apparentemente senza contatto col suolo per evitare eccessiva
materialità, quasi etereo nella sua consistenza traslucida, elegante
nell'essenzialità delle linee, liscio ma non viscido.
L'essere si
arrestò, ed ecco che nell'uomo si rinnovò impetuoso il sentimento di amicizia e
di amore provato dinanzi la pianta, e subito cercò di avvicinarsi a quel
piccolo essere. Ma la creatura, con un unico plastico movimento, passò oltre il
ciglio del sentiero e precipitò nel baratro sovrastante il mare.
L'uomo urlò,
portandosi le mani guantate davanti la visiera in un incontrollabile gesto di
terrore. Quello era un sacrificio, era un morire! Anche se non conosceva la
natura dell'essere, aveva la certezza che quello non era un gesto normale come
il volare per un uccello bensì un atto del tutto estraneo alle sue
caratteristiche, era un suicidio!
«Perché!» gridò
l'uomo, «Perché!»
La creatura
precipitava verso le onde ma il suo precipitare non era caotico; coerentemente
con la sua struttura, era un veleggiare elegante, dolce e tranquillo, da
esteta. L'uomo si avvicinò all'orlo del sentiero e guardò giù, e allora tutto
fu chiaro. Durante la caduta, la luce colpiva la creatura con un'angolazione
che traeva dal suo corpo una ben determinata tonalità di blu. E poiché il suo
non era un precipitare ma un bellissimo statico rimpicciolirsi, si era venuto a
creare un volume sospeso sull'acqua. L'insieme era ricomposto e l'uomo sentì la
perfezione nuovamente ristabilita. Dentro di lui tornò la completezza.
Ma anche una
grande stanchezza. Aveva trovato un fratello nell'immensità del cosmo e subito
l'aveva perduto. Si sentì nuovamente umano, meschino e limitato, rozzo e
sporco. E con un atroce dolore alla gamba.
Aprì gli occhi.
L'unica cosa che vide intorno fu la solita scura roccia fangosa del crepaccio,
ma non provò delusione né ribellione, rimase con gli occhi fissi sulla parete
di fronte, senza vedere nulla. Più tardi avvertì appena gli ultimi residui di
ossigeno.
Una grande pace
era scesa in lui.
Quando la
creatura gli si avvicinò, la gioia fu completa. Le sorrise, e dentro la sua
mente ci fu un sorriso di risposta. «Grazie,» disse l'uomo. La creatura gli si
fermò accanto. «Sono felice di ritrovarti,» disse ancora l'uomo, «Credevo di
averti perduto. Ho provato tanto dolore. Era da ragazzo che non piangevo...»
La creatura
rispose nella mente dell'uomo: Non mi sono mai allontanato da te.
«Come hai fatto
a manipolare il mio delirio?» chiese l'uomo, «Come hai fatto a ricostruire
nella mia mente le scene della Terra?» e in attesa della risposta chiuse gli
occhi, esausto.
Certe volte la
tua mente era come un quadro su cui potevo vedere e capire il significato del
mondo da dove vieni e ciò che sei oltre la tua materialità. Ma a volte scendeva
un velo che oscurava il quadro e non riuscivo a leggere nulla. Credo che questo
dipendesse dalla tua ferita.
L'uomo rimase
con gli occhi chiusi, ansimando, «Sì,» disse in un soffio, «Ho capito. E quando
non ero cosciente... hai fatto in modo che io conoscessi te...» si volse verso
la creatura al suo fianco e la guardò, «La pianta,» disse, «Era il significato
di com'era il nostro mondo una volta... hai raggiunto lo scopo... ho capito
l'amore e l'amicizia, e poi... il tuo sacrificio sulla rupe per farmi capire la
bellezza e cosa si deve fare per raggiungerla... ho capito. Ma ora dimmi...
cosa posso fare per te?»
La creatura era
immobile, Hai già fatto abbastanza incontrandomi.
«Ma io non ho
fatto niente,» disse l'uomo con quanta forza gli rimaneva, «Io sono
semplicemente caduto.»
Potevi non
rispondermi, non accettare la mia presenza fisica.
Ci fu un lungo
silenzio mentre le due creature rimanevano immobili, una vicina all'altra
nell'immenso silenzio del pianeta. Poi la creatura continuò: Qui ci sono
stati esseri di altri mondi. A tutti ho fatto la mia offerta, ma nessuno l'ha
capita. Anche i tuoi simili lassù in superficie non sono riusciti a
comprendermi, e nei periodi in cui la loro mente si schiariva e io potevo
leggere, li ho chiamati e li ho invitati a un incontro... ma nessuno ha
risposto.
L'uomo non
riuscì a ricevere le ultime parole della creatura. Il casco reclinò
impercettibilmente da un lato. Ci fu come un grido, e per un attimo ancora
l'uomo riprese lucidità. Aspettami! Gridò la creatura nella sua mente, quando
la tua nave scese, il fuoco che la sosteneva era troppo vicino a me. Esiste
anche per noi una morte fisica... e ora sto morendo anch'io. Vorrei esserti più
vicino…
L'uomo guardò
la creatura attraverso un velo sempre più spesso e sorrise. Stese un braccio ma
non poté raggiungerla. E allora qualcosa si mosse nel corpo della creatura, si
allungò in un commovente tentativo di braccio umano, e all'estremità ci fu un
lento scindersi in cinque piccole dita fino a raggiungere le sembianze di una
mano umana.
Quando le due
mani poterono toccarsi, si strinsero. E rimasero immobili.
***
Il suolo
tremava sotto il procedere del cingolato. Poi il grosso veicolo si fermò, due
uomini scesero e avanzarono cautamente verso il ciglio del crepaccio.
Improvvisamente una voce irruppe negli auricolari: «L'ho trovato! È laggiù, è
laggiù!» un'imprecazione strozzata e poi gli auricolari furono nuovamente
riempiti da un sovrapporsi disordinato di parole: «C'è qualcosa con lui!
Sembra... sembra qualcosa di vivo. Ehi, tu, presto! Vieni qui. La vedi anche tu
quella schifezza? Ho l'impressione che ce l'abbia ammazzato, maledetto mostro
schifoso! Ora...»
«Aspetta!»
gridò l'altro uomo. Ma già l'arma aveva sparato con precisione e il bersaglio
era stato raggiunto.
«Beh?» disse
l'uomo al suo compagno, rimasto silenzioso da quando il cingolato aveva ripreso
la via del ritorno, «Sembra quasi che ce l'abbia con me perché ho spiaccicato
quel lerciume. Dovevo lasciarlo fare, secondo te?»
«Era già
morto,» disse piattamente l'altro, «Tutti e due erano già morti.»
«E tu come lo
sai? Tu ci abiti in questo schifo di pianeta? Chi era quell'ammasso di merda,
eh? tuo fratello?»
L'altro non
rispose e guardò fuori dal finestrino. Ancora qualche centinaio di metri e
avrebbero raggiunto l'astronave. «Forse hai ragione,» disse, «Eppure... quella
specie di tentacolo che Den teneva così stretto con la mano, sorridendo...
sembrava quasi... mah, non so.»
Iniziamo il 2015 con un bel racconto di Renato Pestriniero - maestro indiscusso della fantascienza italiana – che accogliamo calorosamente e con stima sulle pagine di Pegasus.
RispondiEliminaA Renato, a tutti gli autori e ai lettori di Pegasus auguriamo un FELICE ANNO NUOVO, specialmente all'amico Pierre Jean.
Davvero un bel racconto di sf classica.
RispondiEliminaG.S.