mercoledì 17 giugno 2015

SUI FATTI DI ROSETTA E DEL FORESTIERO di Stefano Valente



Si pettinava i lunghi capelli biondi con pigrizia, fra il ronzio delle mosche e l’aria fermentata per la frutta caduta in terra, marcita al sole. Il pomeriggio era un istante di languore morbido, un braccio di bambina di traverso sotto a un cuscino; oppure una lacrima spontanea, indifferente, che rigava un viso vecchio di ricordi, e poi si asciugava alla brezza impercettibile delle tre.
Lo specchio rifletteva uno sguardo interrogativo, distante nell’incertezza degli occhi trasognati. Aveva ragione lo zingaro? Sarebbe venuto dal nord? L’avrebbe vista e, il giorno stesso, chiesta in sposa alla nonna?
Le domande mute della ragazza volarono nell’aria leggera come farfalle, o come frammenti di lettere d’amore che qualcuno andava stracciando vicino alla casa in cui riposano tutti i venti del mondo. Le frasi sfiorarono delicatamente, ma più e più volte, la ragnatela del volto dell’anziana addormentata davanti alla soglia. Finché la destarono. Con passo lento, insicura, s’affrettò in cucina, verso la tazza ancora appoggiata sulla dispensa. I fondi polverosi del caffè scossero ancora una volta quella punta di coltello che la donna aveva cominciato a sentire, da qualche giorno, nel suo stanco addome rigonfio: la tazzina con l’impronta delle labbra della sua piccola disegnava il forestiero alto e caparbio, la sua impazienza virile. E la solitudine imminente, la fine della vita nella rassegnazione della vecchiaia davanti alla crudeltà ignara della giovinezza, nel profumo di fiori della sposa dai capelli dorati.
C’era stata la sarabanda della fiera, il movimento delle anime in subbuglio dietro ai carrozzoni, alle bancarelle, alla musica sconnessa delle trombe del paese. Comunque, prima o poi, qualcuno avrebbe notato la sua Rosetta; presto o tardi si sarebbero accorti della sua fronte di madonna, dei suoi occhi da vitellina da latte, delle sue dita da incanti e magarìe.
 Fu Cosic il Guercio a leggerle la mano. Gliela strappò da sotto il vestito della festa e, prim’ancora che Rosetta aprisse bocca, impose i suoi pronostici. Ché poi pronostici non erano, ma verità sacrosante, come giurava Palmira, la più giovane e bella delle mogli dello zingaro, sputando simbolicamente nell’aria, quasi lo facesse sul serio, sulla testa dei suoi sette figlioletti.
Palmira traduceva la lingua incomprensibile del Guercio, e sorrideva alla timidezza di Rosetta; erano cose belle quelle scritte nelle linee della sua mano, e le avrebbe volute saper leggere lei stessa, ma Cosic-« Un occhio » era uno di quegli zingari che non permetteva alle sue donne di recitare il futuro. Eccezione — rarità forse — fra quelli della sua gente, stirpe girovaga di uomini che lasciavano di buon grado a femmine e bambini la fatica e l’ansia della povertà. Tuttavia il Guercio faceva da solo le sue leggi, e quello di guardare nel domani era affar suo, del monocolo e del suo unico occhio, giallo come quello d’un gatto.

* * *

« È molto tempo che vive qui, professore? », domanda il brigadiere con un’espressione indecifrabile, come di chi si diverta e, allo stesso tempo, s’annoi mortalmente del suo lavoro di routine.
« Da troppo, magari. Forse ci sono anche nato », risponde il vecchio nel cappotto scuro con i gomiti lisi e opachi.
« Vede, Licorsi », riprende il professore, « lei viene dalla capitale, da Roma, che per noi — per la gente di qua, voglio dire — è un nord imprecisato, di leggenda, quasi come quello del “forestiero”...
« Lei, brigadiere », continua dopo una breve pausa, prevenendo il militare che è sul punto di parlare, « immagina che appartenere ad un posto permetta, di conseguenza, di vedere nel suo buio come i gatti, di capire, tutto e subito. Anzi, proprio di sapere, che — me lo conceda — è di gran lunga diverso dal capire, è tutt’altra cosa. »
La mano quadrata e rugosa del vecchio mescola lentamente lo zucchero, facendo attenzione, con meticolosità, a che il cucchiaino non tintinni troppo sulle pareti della tazzina. Il sottufficiale lo imita, e beve un sorso del suo caffè. Poi, sporgendosi dalla scrivania, dice:
« Ma qui non si tratta di sapere. I fatti li conosciamo, per filo e per segno, con tanto di confessioni, prove, arma usata per il delitto... »
« Sì sì. Certo, Licorsi. D’altra parte non le capiterà per molto — forse non le capiterà mai più — un fattaccio del genere finché se ne starà ad appassire quaggiù.
« Se fu per amore, o per egoismo. È questo che vuole sapere, non è così? Ma lei è giovane, brigadiere, e si potrebbe accontentare dei fatti, puri e semplici, invece di rovistare in mezzo al dolore per il suo “movente”, come lo chiama. E poi lo cerca da uno come me! Che ne so, io, d’amore e d’egoismo. Ché non sono la stessa cosa, in fondo? E magari è diversa solo l’intensità, da uomo a donna; a venti, a trenta, a ottant’anni. »

* * *

Quando arrivò il forestiero il palazzo era allagato, la pioggia battente e la grandine della notte prima avevano divaricato le crepe vecchie, aperto nuove falle nel tetto, infradiciato muri già curvi. Rosetta, a mollo fino alle caviglie, riempiva secchi e bacinelle con leggerezza. Perché la sua mente era persa nel volto e nelle mani dell’uomo che sarebbe venuto, e l’avrebbe portata via. Tutto era ancora da indovinare e, forse proprio per questo, bellissimo. Allora Rosetta, accanto ai ritratti dei defunti, non vedeva più la tristezza delle madonne e dei bambinelli, delle Santa Rita e dei San Rocco che ricoprivano, da sempre, il vaiolo opaco della vernice delle pareti.
La nonna pregava dal suo letto, rivolta all’immagine d’una Vergine sotto una campana di vetro. Era come un triste Mosè a galla sulle acque, afflitta dall’avvenire ineluttabile che l’attendeva. Per un attimo le sembrò perfino che quella Maria del comò, d’azzurro e di bianco, le avesse voltato le spalle, che si fosse girata di schiena. Non ne vedeva più il capo, leggermente reclinato verso il basso, là dove il piede schiacciava il serpe originale. Ma era la penombra della stanza, e il velo delle lacrime.
Per la prima volta il fischio del treno riecheggiò fino alla casa di Rosetta. Si fece strada fra i canneti pencolanti e spezzati, nell’erba alta, attraverso le viti inselvatichite dall’abbandono. Merito dell’alluvione, probabilmente, che aveva lavato ogni cosa, e anche l’aria, e adesso il vento asciugava la terra con soffi freddi e decisi, neanche fosse — questo mondo — un panno steso, o una bandiera di guerre combattute e scordate, tirata fuori da un baule, per il capriccio d’un minuto, da un bambino con la voglia di giocare ai soldati.
Vi fu qualcuno — anzi, c’è ancora — che sostenne che il forestiero non scese da quel treno, addirittura che non vi fosse mai salito. E che non si perse nella campagna in cerca della strada, finendo, fra le pozzanghere, per bussare all’uscio del palazzo in rovina di donna Tresa, la vedova di don Raffaele. Vi fu chi lo vide armeggiare fra gli zingari e i saltimbanchi, già due sere prima, già prim’ancora della fiera. I suoi occhi luccicavano dei riflessi sfrangiati e guizzanti dell’oro, quello degli anelli alle dita nere ed unghiute del Guercio.

* * *

« Oddio, le voci volano. E tanto è più piccolo il paese tanto sono più veloci. Fanno due giri nel tempo di uno, insomma. »
Licorsi lo ascolta in silenzio, gli indici congiunti sulle labbra chiuse. Il professore cambia posizione sulla sedia — sta scomodo —, e continua:
« Io non credo nel futuro. Negli oroscopi e compagnia bella. Mica perché sono stato insegnante di matematica, no. È come se fossi rimasto contadino, come mio padre e mio nonno. Se c’è il secco basta dire “pioverà”, brigadiere, e farsi sentire bene. Se poi piove, la profezia avrà tutti gli onori, altrimenti... Nel frattempo i poveri di spirito, le donnette, non faranno altro che pensare alla predizione. Capisce cosa intendo? »
« Sinceramente non la seguo, professore. »
« Voglio dire che, secondo me — e anche secondo il “forestiero” —, l’oracolo, la chiaroveggenza, in qualche modo finiscono per condizionare l’avvenire, gli eventi. Perché siamo noi stessi ad interpretare o a causare ciò che succede in base a quello che ci è stato profetizzato... »
« In conclusione, lei crede che l’uomo abbia davvero pagato il Cosic in modo che raccontasse quella serie di fandonie alla ragazza, sullo sposo che sarebbe venuto a portarla via, e tutte le altre storie: quello che si dice in giro, quindi... »
« Le confesso, brigadiere: la tesi della suggestione mi piace », dice il vecchio. « Ma quello che so per certo è un’altra cosa. E glielo dirò lo stesso, Licorsi, alla faccia dell’omertà di noi meridionali, perché mi è simpatico. Anche se non capisco perché si ostini così, ad indagine ormai conclusa. »
« Perché, già », sorride affascinato e lontano l’uomo in divisa. « Lo faccia per la mia curiosità, professore, la prego. Solo per questo. Io… vorrei sapere anche perché sono nato, io. »

* * *

Così il forestiero venne dal nord, con la sua valigia a motivi scozzesi da commesso viaggiatore, accompagnato dal latrato dei cani distanti. Picchiò le nocche tre volte sul legno tarlato del portone. Tre tuffi al cuore per Rosetta. E tre nuovi affondi nel ventre dell’anziana senza più marito, né figli, senza nessuno al mondo se non la piccola Rosetta.
Ora la casa era quasi del tutto asciutta. Rosetta socchiuse l’uscio mostrandosi appena, vergognosa per natura e perché si sentiva brutta, brutta come non mai, non solo per la notte passata a strizzare stracci e vuotare catini d’acqua sporca.
Non è importante come avvenne l’incontro, in realtà. Quali furono le parole — le prime — che l’uomo rivolse a Rosetta. Possiamo immaginare. Un lungo viaggio, solo per lei. Rosetta, la ragazza conosciuta dai sussurri di chissà chi, chissà dove, nel corso dei suoi infiniti andirivieni d’affari. Un’idea, e poi un sogno, che viveva dentro di lui, che era lui. Rosetta restò in silenzio, come al solito. Per non interrompere quell’incantesimo profetizzato con l’ignoranza del suo dialetto, così diverso, e sgraziato, dalla bella parlata del giovane.
E poi l’uomo alto aprì la sua valigia, e c’erano trentatré rose rosse — dicono, quasi in un gioco di parole —, ché quello era il numero dei suoi anni, trascorsi nel deserto senza amore: senza Rosetta. Quel povero Cristo! Le si gettò ai piedi, in lacrime per la gioia. Le baciava il grembiule come una reliquia di santa, chiedendola in moglie. Era come un angelo. Era un’annunciazione nuova ed attesa. Anche Rosetta si inginocchiò, e pianse.
Forse piangeva anche la nonna. O forse no. Ora non avvertiva più la puntura all’addome, ora che, sotto lo scialle nero, accarezzava la lama del lungo, affilato coltello col quale un tempo don Raffaele scannava i maiali.

* * *

« Di certo, so che donna Tresa è una vedova bigotta — una delle tante, quaggiù —, troppo presa a sgranare rosari e a rispettare i precetti. Che non lesse mai il futuro nei fondi del caffè, perché non ha mai saputo, né voluto, farlo. La sua “magia” — chiamiamola così — può arrivare al massimo fino a cento preghiere ad un qualche San Vincenzo, ché conservi il suo tetto dissestato dai fulmini del temporale.
« Il “forestiero” — e questa è una mia convinzione, badi bene — era solo uno di quegli uomini che amano vivere alle spalle delle donne. Un tempo c’erano i cacciatori di dote, ma non vale per i nostri fatti. Forse, quando lo identificherà, scoprirà che aveva già due o tre mogli, che era sul serio un commesso viaggiatore o qualcosa del genere, e che non veniva neanche dal nord, ma che era di un paese della provincia. »
Un tuono fa vibrare il vetro della finestra. Il professore guarda un attimo fuori, poi prosegue in tono calmo:
« Ha visto? La pioggia ha portato il “forestiero”, e adesso se lo riporta via... Magari lui Rosetta l’amava davvero. O se ne innamorò quando le fu davanti, e le vide le occhiaie di bambina, lo sguardo grande e perduto in quel futuro annunciato — vero o falso che fosse — che l’avrebbe soffiata via lontano dall’isolamento, dall’ignoranza, dalla vecchiaia imposta di altri.
« Se vuole sapere come la penso, brigadiere, Rosetta sarebbe diventata la serva del “forestiero”; ché non è strano da queste parti — e nemmeno altrove — incontrare ragazzotti per le campagne in cerca d’una brava domestica, buona per la casa e per il letto, che faccia loro da schiava per la vita. E più ignoranti e disgraziate sono, queste ragazze, meglio è, perché è più facile strapparle alle loro radici.
« Che discorsi, brigadiere? Illazioni da scapolo? Non lo so. Non so se l’abbia fatto per amore o per egoismo. Per la propria felicità o per negare l’infelicità a sua nipote. O per semplice demenza senile, quella che presto o tardi ci tradisce tutti, se non siamo fortunati a morire prima di dimenticarci del nome, della strada di casa, del nostro stesso viso...
« Ma poi sa che le dico, Licorsi? Che in fondo donna Tresa ha fatto bene, e si vede che quella dozzina di coltellate, in un modo o nell’altro, il “forestiero” le avrebbe beccate comunque, da qualcun altro. Da uno zingaro magari, o nel buio dello scompartimento di un treno preso all’ultimo momento, su cui non sarebbe dovuto salire.
« Per me la vecchia l’ha fatto per la sua Rosetta, sì. E così l’ha liberata: liberata due volte. E poi non mi meraviglierei — mi creda — se quell’uomo, quel furbo corruttore di oracoli e indovini, tenesse già tutto scritto, dalla nascita, nel palmo della sua mano. Tutt’e dodici le coltellate della povera Tresa, analfabeta, di anni ottantacinque, che non aveva mai fatto male a una mosca. »

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