venerdì 27 novembre 2015

OMAGGIO A “L’ANELLO INTORNO AL SOLE” DI CLIFFORD SIMAK di Paolo Durando


La terra un secondo avanti.

Avevo battuto la gamba contro una roccia dopo che la trottola mi aveva scagliato da quelle parti, la faccia sull’erba. Ero intontito per le giravolte da cui era scaturito l’uncino mentale che mi aveva riallocato. Pur non essendoci più traccia di piazza Garibaldi, del mio palazzo, riconoscevo qualcosa di familiare negli odori che mi circondavano, nell’energia dell’aria festante. Persino nella fattoria che si stagliava nell’azzurro. Qualcosa che mi ricordava di una volta, certe scampagnate fatte con i miei genitori, l’ossigeno pulito prima dell’avvento delle fabbriche. E della centrale dell’energia elettrica. Non c’era più nulla di tutto questo, neppure – mi rendevo conto – il ricordo. Respirai a pieni polmoni e, arrivato zoppicando alla fattoria, vidi una donna che parlava a una mucca. Mi venne il dubbio atroce di essere precipitato dentro una pubblicità del Mulino Bianco. In fondo, loro sarebbero stati capaci di tutto, anche di una cosa di questo genere. Loro, quanto mai estranei, adesso. Con sollievo, guardandomi intorno, non vidi alcun Mulino e neppure bambini giubilanti. Mi vennero incontro, però, numerose persone dal volto conosciuto. Erano gli amici, i parenti, i colleghi che non avevo mai avuto, che non avrei mai potuto, soprattutto dovuto, conoscere. Mi attorniarono scherzosi, finsero di insultarmi. “Benvenuto, Pirlone!” Alcune ragazze che stendevano delle lenzuola e degli abiti, su un‘altura poco distante, si sbracciarono per salutarmi. Anche loro sapevano chi ero.
Capii subito che ero tornato a casa. Che avrei dovuto presto rimboccarmi le maniche.
Ammiccai alla donna che mi teneva ora aperta la porta dell’ingresso, dopo aver lasciato la mucca a scacciare beata i suoi tafani. Entrando, riconobbi immediatamente il legno, il tavolo, la badia.
L’indomani sarei andato al campo, incontro alla mia fase pastorale. Avrei iniziato, leggero e amorevole, a dissodare i secoli.

 

La terra x secondi avanti.

Furono costruiti i castelli. Sorsero numerosi in valli e picchi quasi inaccessibili, affacciati su un oceano, circondati da colline. Fu la volta di torri e scale a chiocciola, di merlature, ponti levatoi, fossati. Delle dame dal cappello a punta. Dei cavalli lanciati in corsa verso l’ultima festa. E c’erano le lunghe tavolate la sera, al tramonto, nella condivisione di cibo, danze e conversari. A volte, un certo giorno e a una certa ora, un cavaliere abbracciato alla sua castellana, o un contadino levigato dagli inverni, si bloccavano un attimo, un pensiero li coglieva sul limitare di un bosco o a un davanzale. Era la fantasia su un mondo che avrebbe potuto essere diverso, più crudele. Un mondo torbido di guerre e tornei, di giostre, di torture, dove streghe e demoni, bambini sacrificati, donne violate affidavano ai posteri le loro storie. Era solo un barlume. Un ricordo o una fantasia. Come se ai bordi delle loro coscienze premessero le vicende di un altro pianeta, in un altro tempo, con le brutture e le soperchierie che avevano evitato, ribollente crogiolo di favole tristi. Sorridevano allora al proprio divenire, rinfrancati per sempre. Intonavano inni a quella pace che impregnava la luce sotto la sfera del sole, e oltre, fino al Primo Mobile. Abbracciavano tutta la realtà, ravviandosi i capelli, sbattendo gli occhi. La loro vita li richiamava all’amore per l’amore, per i figli e i poeti. All’essere loro stessi nella fioritura degli istanti.

 

La Terra y secondi avanti.

E arrivò la maturità dell’io cogitans. La possanza dell’io sono. Nacque Leonardo da Vinci, nacque Raffaello Sanzio. Ed erano dei santi. Anche Leon Battista Alberti lo era, così come Paracelso. Pitture, statue, enucleazioni furono avamposti di un solare paradiso. Le città d’arte crebbero su se stesse, visioni minuziose e magmatiche ribollivano nelle menti in connessione, nelle corti si discuteva senza mettere in forse la centralità dell’uomo. I carri varcavano le porte delle città carichi di frutta e gioielli, abiti preziosi, gatti e cani promossi allo spirito. Le botteghe rigurgitavano di merci, i mercati di cibo. Le donne si affacciavano alle finestre e apparivano agli usci delle case con un sorriso privo di sospetto. Gli uomini tornavano stanchi, si toglievano i calzari, davano una carezza al bimbo, dedicavano un sorriso ai vecchi. Tolte le forcine ai capelli, mogli e sorelle esibivano flussi di biondo antico. L’armonia era perseguibile oltre il tappeto, le cassapanche, verso la fuga dei campi coltivati. E Luca Pacioli era un santo, e lo era Thomas Müntzer. Tutti lo dicevano nelle chiese, nelle cappelle, lungo le vie dei pellegrinaggi. Come si era arrivati a quel mondo di ascensioni? Solo alcuni non vi si riconoscevano e capitava che, quando meno se lo aspettavano, sparissero nelle pieghe della realtà. Ci furono un filosofo di Arles, una poetessa di Wittenberg che molti cercarono invano. Avevano amato l’ombra, la debolezza dell’insania, le illusioni voraci. Si raccontò che avevano raggiunto un luogo dove non c’erano santi e si predicava l’inferno, un mondo di sopraffazione e di sangue. Di fiero, avventuroso orgoglio. Il loro mondo, che una legge di affinità e di compensazione aveva richiamato a sé, senza rimpianti perché senza memoria.

 

La terra z secondi avanti.

E il Vecchio Mondo acquisì, dal suo punto di vista, il Nuovo Mondo. Avvenne l’incontro con popoli con altre mitologie e visioni, che non avevano inventato la ruota ma la cui astronomia aveva portato alla consapevolezza cosmica. Uomini piumati e donne in lana d’alpaca ritenevano che il rispetto per ogni forma di vita fosse fondamentale. Furono lasciati alla loro storia di redenzione, tanto simile a quella dell’altra sponda dell’oceano. Da una parte e dall’altra ci si arrese alla verità che l’uomo era fatto per amare, che la realtà di ognuno e di tutti fosse il rigoglio dell’empatia. Per secoli gli scrittori avevano immaginato la crudeltà di re e principi sullo sfondo di plebi vessate, nonché divinità compiaciute del sangue versato, innamorate del dolore. Avevano inventato universi alternativi dove il male prevaleva sul bene. Fantasticherie che erano servite per rafforzare ulteriormente l’idillio terrestre. Se ne rise a lungo, nel Vecchio e nel Nuovo Mondo. Come avevano potuto, quei visionari, arrivare a tanto? E comunque, onore a tutti loro, agli artisti in genere! La capacità di immaginare realtà parallele, di individuare e mimare il male e farne il protagonista di vicissitudini aliene, era preziosa. Senza quelle opere, chissà, il rischio di far prevalere tentazioni malsane sarebbe stato più concreto. Perché questa è la forza dell’arte in ogni epoca: trattenere gli esseri al di qua del loro buio.

 

 

La Terra j secondi avanti.

Quando le credenze, i miti, si unificarono, nacque un’unica fede nella luce dello spirito. Non per nulla gli storici successivi avrebbero parlato di “Illuminismo”. In tutto i mondo si ricevettero le stesse rivelazioni. La conoscenza della realtà dilagò, si espanse. La luce inondò le chiese romaniche intatte, le facciate gotiche italiane, scorrendo negli anfratti del tempo, rigenerando i giorni, le ore. Si diramò, si frantumò. Indusse allegri cosmopolitismi nei circumnavigatori, per cui si ballò molto sulle navi. Ci si divertì nelle molteplici Versailles dei popoli, nel Vecchio e nel Nuovo Mondo, sulle giostre di Ginevra e nei ristoranti sommersi di Recife. Si degustarono granite lungo i sentieri dell’Atlante e ci si baciò alle pendici dell’Everest. Monili, scodelle e dentature scintillavano senza bisogno del sole e della luna. Tutta questa luce che si srotolava nelle savane, nelle città delle zone temperate, che velava di aspirazioni le facciate dei palazzi, penetrò così profondamente dentro ciascuno, nervi e arterie, che si pensò di aver raggiunto l’apice dell’evoluzione. Non era così. Mancava ancora molto progresso materiale e, soprattutto, l’imprescindibile disamoramento dell’io. E questa consapevolezza, comunicata, bisbigliata da una casa all’altra, da un paese all’altro, nutrì di nuove prospettive i bambini che dovevano crescere, che capirono di dover lavorare e uccidere l’orgoglio, ma non a scapito della forza. E questo fu il massimo.

 

La Terra n secondi avanti.

La Città si estendeva su un terzo del globo. La creatività architettonica si sbizzarriva in ogni zona in accordo con la peculiare natura del clima e del terreno. Grattacieli-fungo, cresciuti come benefici tumori, si alternavano in varie altezze, rendendo lo skyline della Città quanto mai mutevole. I quartieri continuavano ad autocoltivarsi, non per aggiungere abitazioni, ma per perfezionarsi, guarire e dirimere. La Città restava per secoli entro il medesimo perimetro. C’era chi per diporto partiva dal centro per raggiungere le spiagge e le foreste e, spesso, si concedeva alcune settimane di sospensione. Per spostarsi c’erano treni levitanti silenziosi, che traevano la loro energia dall'azoto e dall'ossigeno. La popolazione terrestre, viveva, letteralmente, d’aria. Di quanto, da essa estratto e concentrato, avrebbe potuto, di per sé, muovere un altro intero mondo. E gli organismi umani erano altrettanto evoluti. Sottili, leggeri, avevano bisogno di poco cibo. Gli arti snodati favorivano le danze e le attività sportive. Nelle grandi piazze della Città, durante le manifestazioni collettive, si potevano ammirare i corpi slanciati nei loro intrecci, nel loro azzardo e fulgore. Gli abiti aderenti come una seconda pelle, confezionati da algoritmi generati dalle caratteristiche di ognuno, proponevano felici combinazioni di colore e di forme. I musei erano colmi di bellezze del passato, ma, in fondo, non c’era passato, essendo la Città adagiata in uno stabile presente. Era nata con l’uomo e si sarebbe disgregata con esso. C’era chi diceva che, prima che il sole avesse esaurito le sue scorte, l’umanità avrebbe potuto migrare altrove e avere, su qualche mondo intatto, di nuovo la Città. O forse questo era già avvenuto, sosteneva qualcuno, e non si trovavano più sulla stessa Terra in cui la Città era stata costruita. Uno studioso di fama sostenne di avere le prove di ciò e lo ripeté in conferenze molto seguite. In ogni caso, questo non influiva in alcun modo sulla vita quotidiana degli abitanti. Che ci fosse o no già stato il tempo dell’emigrazione, a loro non importava, perché restavano cittadini della Città ma, prima di tutto, dell’universo.

 

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