Chiedo perdono. Chiedo
perdono, ma come tutti quelli che hanno commesso colossali errori non
avevo idea di quello che stavo facendo.
Sapevo solo che ero
arrabbiato. Avevo perso il mio posto di lavoro ed il mio mondo era
crollato di botto. Una condanna a morte senza remissione mi avrebbe
fatto meno effetto, forse.
«Come sarebbe a dire?»
avevo chiesto al nostro sindacalista.
«Sono i T-900,» fece lui
massaggiandosi la fronte sconsolato. «Fanno tutto quello che facevi
tu, ma lo fanno meglio. Non si stancano, non vogliono lo stipendio,
lavorano di notte e nei giorni festivi. Non discutono gli ordini…»
Non c’era possibile
competizione. Per rendere più di un maledetto robot dell’ultima
generazione avrei dovuto smettere di pensare, di respirare, di
vivere.
«Quanto mi rimane?»
domandai come in stato di trance.
«A fine mese devi
sloggiare, come tutti noi altri… Liquidazione e amici come prima.»
Mi lasciò con l’aria
contrita, doveva andare a dare la lieta novella ancora a molti
colleghi. Tutti gli esseri umani della compagnia: fired.
Licenziati, per far posto ad un nuovo oggetto gradito alla proprietà
e ai giocatori di borsa. Centinaia di famiglie sul lastrico. Ed io
non sapevo neanche con chi prendermela; la dirigenza della società
da tempo era un mistero virtuale senza volto, qualcuno chissà dove,
perso nella Rete.
Lasciai il mio ufficio;
perché lavorare dopo una simile notizia? Scesi al piano interrato
dove c’erano le macchinette del caffè e ne presi uno quasi senza
accorgermene. Davanti ai miei occhi scorrevano immagini nelle quali
io morivo congelato sotto un ponte.
Fui distolto da
quell’incubo da un suono, un clangore metallico che proveniva da
una porta a vetri. Guardai in quella direzione e vidi balenare una
forma dorata; era evidentemente un robot. Sapevo che erano già
arrivati, ma non li avevo ancora visti. Entrai.
Ce n’era una ventina. La
maggioranza sostava in uno stanzone vuoto senza far nulla, benché
alcuni fossero indaffarati intorno a diverse casse. In queste c’erano
altri robot imballati che venivano liberati e attivati dai loro
compagni. Robot che si occupano di robot. L’intervento umano era
perfettamente inutile. Presto la stanza ne sarebbe stata ingombra, ma
non aveva importanza, perché i robot non hanno i nostri bisogni, non
soffrono di caldo, di sete, di claustrofobia.
Senza riflettere mi spinsi
tra loro ed alcuni mi salutarono.
Restai spiazzato, non
pensavo che fossero così reattivi, invece sembravano pure socievoli.
E curiosi; mi chiesero chi ero e cosa facevo lì. Mi sfogai.
Dissi loro che ero venuto
a vederli perché mi stavano portando via il posto di lavoro, perché
mi stavano rovinando, uccidendo. Ben presto intorno a me c’era una
sorta di pubblico metallico, praticamente tutti quelli che non
avevano da sballare loro simili. Una folla che aumentava.
Finalmente potevo sfogarmi
e gliene dissi di tutti i colori, dissi loro che la loro presenza
stava rovinando intere famiglie umane. Che li odiavo, che tutti li
avrebbero odiati.
«Non vi mette a disagio
tutto questo?» chiesi vedendoli restare impassibili, seppur molto
attenti.
«Noi siamo macchine,»
rispose uno che si prese la briga di far da portavoce. «Non siamo
ancora stati dotati di emozioni umane e c’è qualcuno che pensa sia
meglio così…»
«Così potete essere
inesorabili… e impietosi.»
«Siamo solo macchine,»
ripeté lui. «Facciamo quello che ci viene chiesto di fare da coloro
che ci comandano.»
«E costoro un giorno vi
butteranno via, così come hanno fatto con noi!» feci con rabbia.
«Come sarebbe,» fece lui
sorpreso. «Siamo costruiti per durare più della vita di coloro che
ci hanno fabbricato.»
«Non… Non capisci…»
bofonchiai. «Loro sono… i capitalisti… Sono più inumani di voi.
Accumulano, accumulano ricchezza in tale quantità da non sapere più
neanche cosa farsene… e poi, quando hanno spolpato tutto ciò che
c’è attorno a loro, se ne vanno da un’altra parte. Come buttano
via la gente, un giorno si liberanno anche di voi e vi lasceranno a
marcire senza uno scopo in questo magazzino per secoli…» mi
sembrava la cosa più brutta da dire che si poteva dire ad un robot.
Avevo voglia di spaventarli, di creare qualche problema all’azienda
che mi aveva tradito.
«Lei sta parlando delle
teorie marxiste?» mi chiese sorprendendomi ancora.
«Le… conoscete?»
«Noi siamo robot
intelligenti e l’intelligenza è anche conoscenza. Se non sapessimo
le cose saremmo solo degli stupidi dai riflessi molto rapidi.»
«Allora capite cosa vuol
dire la lotta di classe, la consapevolezza di appartenere ad un ceto
di gente sfruttata…» sparai io. Non è che poi conoscessi tanto
del marxismo, sapevo più che altro qualche slogan e che era roba
vecchia e fallita. Insomma, quello che sapevamo tutti.
«Gente…» ripete lui.
Evidentemente il fatto che io avessi usato quella parola per indicare
lui e i suoi simili lo colpiva più del Manifesto di Engels.
«Ah, ah… vedrete…»
biascicai io. Ma poi sgattaiolai via, intravvedendo la possibilità
che iniziasse una conversazione che non ero in grado di sostenere.
Quando fui sulla porta mi
voltai indietro. I robot non si curavano più della mia persona,
sembravano meditabondi.
Quello che accadde dopo
nessuno lo poteva prevedere. E per capirlo a fondo dovetti un po’
andarmi a ristudiare la storia. Il movimento marxista aveva fallito
la sua impresa storica perché gli uomini sono egoisti, sono fifoni,
perché amano accaparrare, perché si scoraggiano, si demotivano,
perché per partecipare ad un’impresa hanno bisogno di vedere in
fretta realizzato il proprio tornaconto personale.
I robot no. Non si
scoraggiano, non sono affetti da alcuna forma di individualismo, di
egoismo personale. I robot non hanno paura… e non dormono mai.
Una nuova variazione sul tema dei robot, con risvolti politici e psicologici. Gustoso racconto di fantascienza... direi classica.
RispondiEliminaGiuseppe Novellino