domenica 24 agosto 2014

LOTTA DI CLASSE di Giorgio Sangiorgi

Chiedo perdono. Chiedo perdono, ma come tutti quelli che hanno commesso colossali errori non avevo idea di quello che stavo facendo.
Sapevo solo che ero arrabbiato. Avevo perso il mio posto di lavoro ed il mio mondo era crollato di botto. Una condanna a morte senza remissione mi avrebbe fatto meno effetto, forse.
«Come sarebbe a dire?» avevo chiesto al nostro sindacalista.
«Sono i T-900,» fece lui massaggiandosi la fronte sconsolato. «Fanno tutto quello che facevi tu, ma lo fanno meglio. Non si stancano, non vogliono lo stipendio, lavorano di notte e nei giorni festivi. Non discutono gli ordini…»
Non c’era possibile competizione. Per rendere più di un maledetto robot dell’ultima generazione avrei dovuto smettere di pensare, di respirare, di vivere.
«Quanto mi rimane?» domandai come in stato di trance.
«A fine mese devi sloggiare, come tutti noi altri… Liquidazione e amici come prima.»
Mi lasciò con l’aria contrita, doveva andare a dare la lieta novella ancora a molti colleghi. Tutti gli esseri umani della compagnia: fired. Licenziati, per far posto ad un nuovo oggetto gradito alla proprietà e ai giocatori di borsa. Centinaia di famiglie sul lastrico. Ed io non sapevo neanche con chi prendermela; la dirigenza della società da tempo era un mistero virtuale senza volto, qualcuno chissà dove, perso nella Rete.
Lasciai il mio ufficio; perché lavorare dopo una simile notizia? Scesi al piano interrato dove c’erano le macchinette del caffè e ne presi uno quasi senza accorgermene. Davanti ai miei occhi scorrevano immagini nelle quali io morivo congelato sotto un ponte.
Fui distolto da quell’incubo da un suono, un clangore metallico che proveniva da una porta a vetri. Guardai in quella direzione e vidi balenare una forma dorata; era evidentemente un robot. Sapevo che erano già arrivati, ma non li avevo ancora visti. Entrai.
Ce n’era una ventina. La maggioranza sostava in uno stanzone vuoto senza far nulla, benché alcuni fossero indaffarati intorno a diverse casse. In queste c’erano altri robot imballati che venivano liberati e attivati dai loro compagni. Robot che si occupano di robot. L’intervento umano era perfettamente inutile. Presto la stanza ne sarebbe stata ingombra, ma non aveva importanza, perché i robot non hanno i nostri bisogni, non soffrono di caldo, di sete, di claustrofobia.
Senza riflettere mi spinsi tra loro ed alcuni mi salutarono.
Restai spiazzato, non pensavo che fossero così reattivi, invece sembravano pure socievoli. E curiosi; mi chiesero chi ero e cosa facevo lì. Mi sfogai.
Dissi loro che ero venuto a vederli perché mi stavano portando via il posto di lavoro, perché mi stavano rovinando, uccidendo. Ben presto intorno a me c’era una sorta di pubblico metallico, praticamente tutti quelli che non avevano da sballare loro simili. Una folla che aumentava.
Finalmente potevo sfogarmi e gliene dissi di tutti i colori, dissi loro che la loro presenza stava rovinando intere famiglie umane. Che li odiavo, che tutti li avrebbero odiati.
«Non vi mette a disagio tutto questo?» chiesi vedendoli restare impassibili, seppur molto attenti.
«Noi siamo macchine,» rispose uno che si prese la briga di far da portavoce. «Non siamo ancora stati dotati di emozioni umane e c’è qualcuno che pensa sia meglio così…»
«Così potete essere inesorabili… e impietosi.»
«Siamo solo macchine,» ripeté lui. «Facciamo quello che ci viene chiesto di fare da coloro che ci comandano.»
«E costoro un giorno vi butteranno via, così come hanno fatto con noi!» feci con rabbia.
«Come sarebbe,» fece lui sorpreso. «Siamo costruiti per durare più della vita di coloro che ci hanno fabbricato.»
«Non… Non capisci…» bofonchiai. «Loro sono… i capitalisti… Sono più inumani di voi. Accumulano, accumulano ricchezza in tale quantità da non sapere più neanche cosa farsene… e poi, quando hanno spolpato tutto ciò che c’è attorno a loro, se ne vanno da un’altra parte. Come buttano via la gente, un giorno si liberanno anche di voi e vi lasceranno a marcire senza uno scopo in questo magazzino per secoli…» mi sembrava la cosa più brutta da dire che si poteva dire ad un robot. Avevo voglia di spaventarli, di creare qualche problema all’azienda che mi aveva tradito.
«Lei sta parlando delle teorie marxiste?» mi chiese sorprendendomi ancora.
«Le… conoscete?»
«Noi siamo robot intelligenti e l’intelligenza è anche conoscenza. Se non sapessimo le cose saremmo solo degli stupidi dai riflessi molto rapidi.»
«Allora capite cosa vuol dire la lotta di classe, la consapevolezza di appartenere ad un ceto di gente sfruttata…» sparai io. Non è che poi conoscessi tanto del marxismo, sapevo più che altro qualche slogan e che era roba vecchia e fallita. Insomma, quello che sapevamo tutti.
«Gente…» ripete lui. Evidentemente il fatto che io avessi usato quella parola per indicare lui e i suoi simili lo colpiva più del Manifesto di Engels.
«Ah, ah… vedrete…» biascicai io. Ma poi sgattaiolai via, intravvedendo la possibilità che iniziasse una conversazione che non ero in grado di sostenere.
Quando fui sulla porta mi voltai indietro. I robot non si curavano più della mia persona, sembravano meditabondi.
Quello che accadde dopo nessuno lo poteva prevedere. E per capirlo a fondo dovetti un po’ andarmi a ristudiare la storia. Il movimento marxista aveva fallito la sua impresa storica perché gli uomini sono egoisti, sono fifoni, perché amano accaparrare, perché si scoraggiano, si demotivano, perché per partecipare ad un’impresa hanno bisogno di vedere in fretta realizzato il proprio tornaconto personale.
I robot no. Non si scoraggiano, non sono affetti da alcuna forma di individualismo, di egoismo personale. I robot non hanno paura… e non dormono mai.



1 commento:

  1. Una nuova variazione sul tema dei robot, con risvolti politici e psicologici. Gustoso racconto di fantascienza... direi classica.

    Giuseppe Novellino

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