La notte trasudava dolcezza
e, sotto le stelle, il vento delle dune danzava alla musica di metallo piegato
delle fontane del suo giardino. Un profumo acerbo e pastoso invadeva i corridoi
del palazzo e muoveva le tende lentamente.
Harun al-Rashid smise quasi
malvolentieri di guardare il cielo e con un sospiro si ritrasse nella stanza.
La luce delle torce illuminava guizzando il suo viso di vecchio, le sue mani.
Pensava… qualcosa di
indefinibile e leggero gli muoveva i pensieri sfuggendogli di continuo, ma
tornando sempre come un tormento inevitabile: non era in quiete, qualcosa
nell’anima gli bruciava, sotterraneo e tenace.
Di colpo, con una smania
incontenibile, si avviò verso il gineceo e pian piano si accorse che i suoi
passi diventavano più frettolosi…era quasi arrivato alla porta… Fu allora che
l’Onnipotente -sia benedetto sempre il Suo nome- lo portò in un sogno, o forse,
ma non avrebbe mai saputo la verità, gli concesse un dono misterioso.
Spostò la pesante tenda.
Solo la flebile luce del cielo notturno illuminava la stanza. Per un attimo
ebbe nel cuore la figura della schiava yemenita che lo aveva portato in grembo,
mentre il suo sguardo si posava a caso su quel buio silenzioso. Come in una storia
immaginaria le sue donne riposavano alla rinfusa e si sorprese che non sapesse
il nome di tutte.
Lì l’etiope e la figlia del
nord confondevano le loro vite e il colore della pelle in un accostamento che
solo il Misericordioso poteva capire. E, in fondo, agli spigoli del buio, gli
sembrò di riconoscere la bambina persiana che gli era stata portata in dono
qualche tempo fa, senza capire la ferocia dell’accostare a un vecchio una
bambina.
Poi il suo sguardo si fece
più attento: alla sua destra c’era lei, la pantera di Granada, lei, terribile e
battagliera come una belva assetata e mai sazia, con la pelle scura di tramonto
come il suo cuore. Non l’aveva domata; quando l’aveva avuta, gli era sempre
capitato di pensare che lei non si fosse concessa, che mente e cuore li avesse
altrove, magari sulle rive del Guadalquivir.
Era stato bello,però,
giocare con lei la finzione di un corpo giovane, mai sazio di passione e di
scoperte… fingere il fuoco di anni dimenticati, fingere anche di darsi, quando
il respiro si spezzava nell’ultima ansia, nel grido più blasfemo…
Si fermò ad osservarla con
uno sguardo leggero, mentre il petto si muoveva con respiri regolari e la luce
delle torce dondolava su quella pelle di notte luminosa.
Strano, si disse, ricordava
sensazioni ma non momenti… forse perché di momenti non ne avevano avuti e le
sensazioni appartenevano solo a lui.
Questa tardiva amarezza lo
scosse e fece per andarsene,ma qualcosa lo fermò.
Lì, rannicchiata in
disparte, c’era lei, Djamina -di questa sì, ricordava il nome-.
Djamina dagli occhi di
cielo, la puledra berbera che amava il silenzio, fuoco di libertà, angolo di
dolcezza, ferita e feritrice come chi è nato per gli spazi e per il vento…
Djamina la prigioniera che forse lo amava o forse lo compativa per la sua prigione
di re più vasta e feroce.
Ricordò con un graspo di
dolcezza la prima volta che si sorprese a carezzarla, dicendole piano forse
parole d’amore… anche se una schiava non si ama, si usa.
Lei però non era schiava di nessuno, perché
nessuno le aveva preso il cuore, nessuno a cui lei non avesse voluto donarlo.
Forse alle sue montagne, o forse al mare che si apriva d’improvviso fra le
dune, o forse a un altro con gli occhi blu cobalto.
Mentre si rimescolavano i suoi pensieri coi ricordi, il grande Harùn sentì dentro di sé come un vocio lontano, che piano cresceva fino a diventare comprensibile. Capì allora il dono del suo dio senza saperne il motivo… capì che quelle voci erano i sogni di quante dormivano nella stanza.
Mentre si rimescolavano i suoi pensieri coi ricordi, il grande Harùn sentì dentro di sé come un vocio lontano, che piano cresceva fino a diventare comprensibile. Capì allora il dono del suo dio senza saperne il motivo… capì che quelle voci erano i sogni di quante dormivano nella stanza.
Andò quasi inconsapevole
verso Djamina, si accovacciò accanto a lei, silenziosamente. E d’improvviso
sentì il vento sul viso, e ad occhi chiusi vide il mare, ne percepì lo scroscio
salmastro e dondolante, la frescura che oltrepassava le ultime dune, il fremito
di vita del suo linguaggio oceanico ed antico. Si sentì col corpo dilatato come
una vela a raccogliere la spinta, sentì la forza con cui qualcosa lo fendeva
senza ferirlo.
E da dentro raccolse un
sospiro, lungo e quieto.
Poi vide quegli occhi,
anch’essi di mare, su una pelle scura e tesa. Un nome percosse i suoi pensieri:
Amzar…!
Sentì la profondità
feritrice dello sguardo, percepì il fuoco che scatenavano dentro, e provò
pudore di donna, quello strano tormento che ti induce ad abbassare gli occhi e
i pensieri mentre vorresti alzare lo sguardo e sorridere alla gioia che ti
abbraccia… e il vento, e quella linea indaco di marina che tagliava il cielo
dalla terra… il vento sulla pelle, e il salmastro, fra occhi chiusi e pelle di
sabbia…
E sentì una spinta, dentro,
come a voler entrare in un corpo, in una vita…. sentì il desiderio di farsi
stringere da quelle braccia sognate.. e poi la tristezza… a che servono i sogni se poi ti feriscono soltanto, a che serve
desiderare chi non potrai mai avere…?! Anche se quel corpo faceva vibrare,
e quegli occhi, quel colore feritore fino all’anima…
Amzar, desiderato e
impossibile, sogno di libertà, certezza di una vita…!
E questo vecchio Harun, che ti carezza come fossi l’ultima donna, questo
vecchio che finge con te l’unione e la gioia, questo vecchio che ti parla di
viaggi e di filosofi antichi, che ti fa volare ma non sognare…
Sentì,il califfo, una carezza sul viso che veniva dal profondo,
mista di tenerezza e compassione, provò una stretta nel petto…. e poi il vento,
il vento che arcuava le dune e le disfaceva con dolce ferocia e incessante
pazienza… e quel pensiero, quel nome… Amzar, con sul petto quella nuova bocca
aperta dalla spada… Amzar che col suo sangue dissetava di vermiglio la sabbia
del deserto…. Amzar, il mai avuto, il perduto per sempre.
Qualcosa di cupo e
indicibile gli scendeva dentro. Strano, pensò, che un vecchio sapiente non
avesse parole per descriverlo, ma si sentì quieto, con un respiro che sembrava
partirgli dall’anima: ora sì, voleva sapere ancora di quei sogni, voleva sapere
di quel corpo d’uomo che rimescolava il sangue.
O forse no, aveva capito
l’amore silenzioso, la dolcezza feritrice del sogno, l’amaro di ciò che hai
desiderato senza averlo… e per la prima volta desiderò di non sapere, provò
vergogna ad entrare nei sogni di un altro, in un amore che non lo riguardava e
di cui era giusto non sapere.
Ma sentiva la tristezza
profonda di una vita non realizzata, capì
la doppia catena che la stringeva, la donna Djamina, la schiava Djamina.
E in un angolo c’era anche
la compassione per un vecchio che aveva tentato una carezza d’amore, che in un
momento strano aveva poggiato la testa sul suo seno, come un bambino,
affidandole i suoi respiri.
Un vecchio che l’aveva
voluta come un uomo e che invece poteva esserle padre…
Si sentì affranto, il
grande Harun, con un macigno sul cuore.
Con un gesto di fastidio
cercò di scacciare quelle voci e si avvicinò piano alla donna di Granada: sentì
di colpo come un rimescolio nel sangue, e qualcosa dentro che premeva come per
urlare. E sentì il brivido di mani forti, sentì il piacere caldo che lo
inondava e squarciava ogni difesa. Voleva mordere toccare sentirsi toccare,
voleva dare e prendere piacere, mentre qualcosa di irrefrenabile e sinuoso
scendeva verso il suo ventre, si faceva calore, e desiderio, e voglia di
aprirsi.
Si sentì spaventato e
incuriosito mentre desiderava poggiare le sue labbra sulla pelle di un uomo,
stringergli i fianchi, farsi inondare dall’estrema dolcezza. E tremava in tutto
se stesso, qualcosa di incontrollabile gli assopiva i pensieri e l’unica cosa
che voleva era sentire la forza di un maschio che scuotesse il suo corpo, e
ancora, e ancora, ancora…
Poi la quiete, una pace
invadente e totale che assopiva corpo e pensieri, e il respiro affannoso che
scemava piano in uno stagno fatto di sangue e muscoli rilassati.
E, piano, pensieri feroci
come un sussurro di belve:
Morirà quel vecchio a cui mi hanno incatenata, quel vecchio che non ha
forze per spegnere il mio fuoco né coraggio per ridarmi la libertà; deve morire
prima che io mi sciupi… voglio corpi forti e giovani, voglio sguardi e mani
possenti,soldati cammellieri ladri…- sentì nella sua testa-, voglio vivere libertà e giovinezza… senza
catene, senza essere schiava di qualcuno … vendicarmi di questa prigione in cui hanno chiuso il mio corpo e
dimenticare quel vecchio cui mi hanno legata… sì, voglio altri finché sono
giovane e seducente… per essere viva, libera…” e quasi un gemito gli uscì
dalle labbra.
Chiuse gli occhi con
tristezza,fece qualche passo, mentre amaramente si diceva che era strano quel
sogno di libertà fatta solo di corpi, e come fosse perdente scommettere sulle
facili vittorie della giovinezza, quando alla fine tutti si diventa vecchi e di
quella scommessa resta solo pelle aggrinzita e qualche emozione piena di rammarico.
Ma erano, si disse, i soliti pensieri dei vecchi, il loro risarcimento per ciò
che non avevano più e poi -pensò con un sottile piacere misto a compassione-
chi era in catene poteva solo sognare di non averne.
Si meravigliò di se stesso,
quasi rimproverandosi situazione e riflessioni; voleva calmarsi, padroneggiare
quella marea di sensazioni che lo aveva colpito.
Respirò con calma, si guardò attorno: il
chiarore della notte e le torce facevano strani giochi di ombre su quei corpi
rovesciati rannicchiati, distesi in una mollezza silenziosa che fluttuava coi
respiri. Qualcuna bisbigliava ai sogni, qualche altra si girava su un fianco.
Ora voleva uscire e per la
prima volta osò un pensiero come una bestemmia…non doveva l’Onnipotente dargli
quel dono notturno, non doveva porlo così nudo di fronte alla sua pochezza ed
all’offesa degli anni.
Ma poi si disse che forse
aveva un senso tutto questo, nell’infinita saggezza di Dio, anche se gli
sfuggiva, anche se gli faceva paura tentare di scoprirlo.
Uscì con forza dalla
stanza, percorse in fretta i corridoi, scese quasi correndo nei giardini…
qualcosa di caldo scendeva dagli occhi e inumidiva la barba bianca, qualcosa
che non erano lacrime ma tristezza di vivere. Ancora.
La tristezza di sapersi
vecchio.
Guardò per attimo il cielo
stellato spudoratamente terso, si guardò le mani.
Gridò pochi ordini precisi,
rientrando.
La guardia si mosse veloce
e in breve tutto il palazzo fu un fermento di voce e di rumori: ora le donne
erano tutte lì, davanti a lui, assonnate, incuriosite, tremanti.
Dettò qualcosa allo
scrivano, pose il suo sigillo su un foglio e lo porse alla donna di Spagna di
cui ancora adesso non ricordava il nome: “Va’ e compra la tua solitudine
futura. Sei libera !”
Non guardò il suo viso, né
l’invidia né lo stupore delle altre, scacciò tutti.
Solo Djamina obbligò a
restare.
Non c’erano più rumori, la
notte era tornata densa di profumi e di silenzio.
Forse aveva capito il
disegno del Misericordioso, forse era destino esserne strumento… , apparire
come la mano crudele dell’uomo per essere la volontà pietosa di dio…
A che servono i sogni se poi ti feriscono soltanto…?
Le aveva voltato le spalle,
ma indovinava il suo volto di donna con l’espressione di chi può solo aspettare
una decisione che la sovrasta. Si voltò per un attimo… era lì, col corpo appena
scoperto dalla penombra. “E’ bella -pensò- è bella come la sua anima”.
Sfiorò le gemme e gli
intarsi d’oro, toccò l’elsa lavorata, in silenzio… A che serve sognare l’impossibile ?
Si avvicinò a lei, le
sfiorò i capelli in una carezza così leggera da apparire goffa e stentata.
Sospirò. Sospirò forte mentre estraeva il pugnale e lo affondava in quel petto
dolcissimo.
“Ora anche tu sei libera”,
mormorò in un singulto strozzato, mentre raccoglieva il suo corpo piegato come
per un’ultima carezza.
(Perché lei, mio Dio,-si
gridò dentro- e non questo vecchio ?)
Harun
al-Rashid, califfo, sapiente, scrittore, raccoglitore spietato di sogni, quella
volta e mai più, pianse di pena.
Senza dubbio un bel racconto, profondo, suggestivo... e scritto molto bene.
RispondiEliminaQuoto il parere di Paolo e aggiungo i miei complimenti a Peppe.
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