domenica 13 luglio 2014

FANTASMI E SOGNI - il corpo sbagliato - di Peppe Murro



La notte trasudava dolcezza e, sotto le stelle, il vento delle dune danzava alla musica di metallo piegato delle fontane del suo giardino. Un profumo acerbo e pastoso invadeva i corridoi del palazzo e muoveva le tende lentamente.
Harun al-Rashid smise quasi malvolentieri di guardare il cielo e con un sospiro si ritrasse nella stanza. La luce delle torce illuminava guizzando il suo viso di vecchio, le sue mani.
Pensava… qualcosa di indefinibile e leggero gli muoveva i pensieri sfuggendogli di continuo, ma tornando sempre come un tormento inevitabile: non era in quiete, qualcosa nell’anima gli bruciava, sotterraneo e tenace.
Di colpo, con una smania incontenibile, si avviò verso il gineceo e pian piano si accorse che i suoi passi diventavano più frettolosi…era quasi arrivato alla porta… Fu allora che l’Onnipotente -sia benedetto sempre il Suo nome- lo portò in un sogno, o forse, ma non avrebbe mai saputo la verità, gli concesse un dono misterioso.
Spostò la pesante tenda. Solo la flebile luce del cielo notturno illuminava la stanza. Per un attimo ebbe nel cuore la figura della schiava yemenita che lo aveva portato in grembo, mentre il suo sguardo si posava a caso su quel buio silenzioso. Come in una storia immaginaria le sue donne riposavano alla rinfusa e si sorprese che non sapesse il nome di tutte.
Lì l’etiope e la figlia del nord confondevano le loro vite e il colore della pelle in un accostamento che solo il Misericordioso poteva capire. E, in fondo, agli spigoli del buio, gli sembrò di riconoscere la bambina persiana che gli era stata portata in dono qualche tempo fa, senza capire la ferocia dell’accostare a un vecchio una bambina.
Poi il suo sguardo si fece più attento: alla sua destra c’era lei, la pantera di Granada, lei, terribile e battagliera come una belva assetata e mai sazia, con la pelle scura di tramonto come il suo cuore. Non l’aveva domata; quando l’aveva avuta, gli era sempre capitato di pensare che lei non si fosse concessa, che mente e cuore li avesse altrove, magari sulle rive del Guadalquivir.
Era stato bello,però, giocare con lei la finzione di un corpo giovane, mai sazio di passione e di scoperte… fingere il fuoco di anni dimenticati, fingere anche di darsi, quando il respiro si spezzava nell’ultima ansia, nel grido più blasfemo…
Si fermò ad osservarla con uno sguardo leggero, mentre il petto si muoveva con respiri regolari e la luce delle torce dondolava su quella pelle di notte luminosa.
Strano, si disse, ricordava sensazioni ma non momenti… forse perché di momenti non ne avevano avuti e le sensazioni appartenevano solo a lui.
Questa tardiva amarezza lo scosse e fece per andarsene,ma qualcosa lo fermò.
Lì, rannicchiata in disparte, c’era lei, Djamina -di questa sì, ricordava il nome-.
Djamina dagli occhi di cielo, la puledra berbera che amava il silenzio, fuoco di libertà, angolo di dolcezza, ferita e feritrice come chi è nato per gli spazi e per il vento… Djamina la prigioniera che forse lo amava o forse lo compativa per la sua prigione di re più vasta e feroce.
Ricordò con un graspo di dolcezza la prima volta che si sorprese a carezzarla, dicendole piano forse parole d’amore… anche se una schiava non si ama, si usa.
 Lei però non era schiava di nessuno, perché nessuno le aveva preso il cuore, nessuno a cui lei non avesse voluto donarlo. Forse alle sue montagne, o forse al mare che si apriva d’improvviso fra le dune, o forse a un altro con gli occhi blu cobalto.
Mentre si rimescolavano i suoi pensieri coi ricordi, il grande Harùn sentì dentro di sé come un vocio lontano, che piano cresceva fino a diventare comprensibile. Capì allora il dono del suo dio senza saperne il motivo… capì  che quelle voci erano i sogni di quante dormivano nella stanza.
Andò quasi inconsapevole verso Djamina, si accovacciò accanto a lei, silenziosamente. E d’improvviso sentì il vento sul viso, e ad occhi chiusi vide il mare, ne percepì lo scroscio salmastro e dondolante, la frescura che oltrepassava le ultime dune, il fremito di vita del suo linguaggio oceanico ed antico. Si sentì col corpo dilatato come una vela a raccogliere la spinta, sentì la forza con cui qualcosa lo fendeva senza ferirlo.
E da dentro raccolse un sospiro, lungo e quieto.
Poi vide quegli occhi, anch’essi di mare, su una pelle scura e tesa. Un nome percosse i suoi pensieri: Amzar…!
Sentì la profondità feritrice dello sguardo, percepì il fuoco che scatenavano dentro, e provò pudore di donna, quello strano tormento che ti induce ad abbassare gli occhi e i pensieri mentre vorresti alzare lo sguardo e sorridere alla gioia che ti abbraccia… e il vento, e quella linea indaco di marina che tagliava il cielo dalla terra… il vento sulla pelle, e il salmastro, fra occhi chiusi e pelle di sabbia…
E sentì una spinta, dentro, come a voler entrare in un corpo, in una vita…. sentì il desiderio di farsi stringere da quelle braccia sognate.. e poi la tristezza… a che servono i sogni se poi ti feriscono soltanto, a che serve desiderare chi non potrai mai avere…?! Anche se quel corpo faceva vibrare, e quegli occhi, quel colore feritore fino all’anima…
Amzar, desiderato e impossibile, sogno di libertà, certezza di una vita…!
E questo vecchio Harun, che ti carezza come fossi l’ultima donna, questo vecchio che finge con te l’unione e la gioia, questo vecchio che ti parla di viaggi e di filosofi antichi, che ti fa volare ma non sognare… 
Sentì,il califfo,  una carezza sul viso che veniva dal profondo, mista di tenerezza e compassione, provò una stretta nel petto…. e poi il vento, il vento che arcuava le dune e le disfaceva con dolce ferocia e incessante pazienza… e quel pensiero, quel nome… Amzar, con sul petto quella nuova bocca aperta dalla spada… Amzar che col suo sangue dissetava di vermiglio la sabbia del deserto…. Amzar, il mai avuto, il perduto per sempre.
Qualcosa di cupo e indicibile gli scendeva dentro. Strano, pensò, che un vecchio sapiente non avesse parole per descriverlo, ma si sentì quieto, con un respiro che sembrava partirgli dall’anima: ora sì, voleva sapere ancora di quei sogni, voleva sapere di quel corpo d’uomo che rimescolava il sangue.
O forse no, aveva capito l’amore silenzioso, la dolcezza feritrice del sogno, l’amaro di ciò che hai desiderato senza averlo… e per la prima volta desiderò di non sapere, provò vergogna ad entrare nei sogni di un altro, in un amore che non lo riguardava e di cui era giusto non sapere.
Ma sentiva la tristezza profonda di una vita non realizzata, capì  la doppia catena che la stringeva, la donna Djamina, la schiava Djamina.
E in un angolo c’era anche la compassione per un vecchio che aveva tentato una carezza d’amore, che in un momento strano aveva poggiato la testa sul suo seno, come un bambino, affidandole i suoi respiri.
Un vecchio che l’aveva voluta come un uomo e che invece poteva esserle padre…
Si sentì affranto, il grande Harun, con un macigno sul cuore.
Con un gesto di fastidio cercò di scacciare quelle voci e si avvicinò piano alla donna di Granada: sentì di colpo come un rimescolio nel sangue, e qualcosa dentro che premeva come per urlare. E sentì il brivido di mani forti, sentì il piacere caldo che lo inondava e squarciava ogni difesa. Voleva mordere toccare sentirsi toccare, voleva dare e prendere piacere, mentre qualcosa di irrefrenabile e sinuoso scendeva verso il suo ventre, si faceva calore, e desiderio, e voglia di aprirsi.
Si sentì spaventato e incuriosito mentre desiderava poggiare le sue labbra sulla pelle di un uomo, stringergli i fianchi, farsi inondare dall’estrema dolcezza. E tremava in tutto se stesso, qualcosa di incontrollabile gli assopiva i pensieri e l’unica cosa che voleva era sentire la forza di un maschio che scuotesse il suo corpo, e ancora, e ancora, ancora…
Poi la quiete, una pace invadente e totale che assopiva corpo e pensieri, e il respiro affannoso che scemava piano in uno stagno fatto di sangue e muscoli rilassati.
E, piano, pensieri feroci come un sussurro di belve:
Morirà quel vecchio a cui mi hanno incatenata, quel vecchio che non ha forze per spegnere il mio fuoco né coraggio per ridarmi la libertà; deve morire prima che io mi sciupi… voglio corpi forti e giovani, voglio sguardi e mani possenti,soldati cammellieri ladri…- sentì nella sua testa-, voglio vivere libertà e giovinezza… senza catene, senza essere schiava di qualcuno … vendicarmi di questa prigione in cui hanno chiuso il mio corpo e dimenticare quel vecchio cui mi hanno legata… sì, voglio altri finché sono giovane e seducente… per essere viva, libera…” e quasi un gemito gli uscì dalle labbra.
Chiuse gli occhi con tristezza,fece qualche passo, mentre amaramente si diceva che era strano quel sogno di libertà fatta solo di corpi, e come fosse perdente scommettere sulle facili vittorie della giovinezza, quando alla fine tutti si diventa vecchi e di quella scommessa resta solo pelle aggrinzita e qualche emozione piena di rammarico. Ma erano, si disse, i soliti pensieri dei vecchi, il loro risarcimento per ciò che non avevano più e poi -pensò con un sottile piacere misto a compassione- chi era in catene poteva solo sognare di non averne.
Si meravigliò di se stesso, quasi rimproverandosi situazione e riflessioni; voleva calmarsi, padroneggiare quella marea di sensazioni che lo aveva colpito.
 Respirò con calma, si guardò attorno: il chiarore della notte e le torce facevano strani giochi di ombre su quei corpi rovesciati rannicchiati, distesi in una mollezza silenziosa che fluttuava coi respiri. Qualcuna bisbigliava ai sogni, qualche altra si girava su un fianco.
Ora voleva uscire e per la prima volta osò un pensiero come una bestemmia…non doveva l’Onnipotente dargli quel dono notturno, non doveva porlo così nudo di fronte alla sua pochezza ed all’offesa degli anni.
Ma poi si disse che forse aveva un senso tutto questo, nell’infinita saggezza di Dio, anche se gli sfuggiva, anche se gli faceva paura tentare di scoprirlo.
Uscì con forza dalla stanza, percorse in fretta i corridoi, scese quasi correndo nei giardini… qualcosa di caldo scendeva dagli occhi e inumidiva la barba bianca, qualcosa che non erano lacrime ma tristezza di vivere. Ancora.
La tristezza di sapersi vecchio.
Guardò per attimo il cielo stellato spudoratamente terso, si guardò le mani.
Gridò pochi ordini precisi, rientrando.
La guardia si mosse veloce e in breve tutto il palazzo fu un fermento di voce e di rumori: ora le donne erano tutte lì, davanti a lui, assonnate, incuriosite, tremanti.
Dettò qualcosa allo scrivano, pose il suo sigillo su un foglio e lo porse alla donna di Spagna di cui ancora adesso non ricordava il nome: “Va’ e compra la tua solitudine futura. Sei libera !”
Non guardò il suo viso, né l’invidia né lo stupore delle altre, scacciò tutti.
Solo Djamina obbligò a restare.
Non c’erano più rumori, la notte era tornata densa di profumi e di silenzio.
Forse aveva capito il disegno del Misericordioso, forse era destino esserne strumento… , apparire come la mano crudele dell’uomo per essere la volontà pietosa di dio…
A che servono i sogni se poi ti feriscono soltanto…?
Le aveva voltato le spalle, ma indovinava il suo volto di donna con l’espressione di chi può solo aspettare una decisione che la sovrasta. Si voltò per un attimo… era lì, col corpo appena scoperto dalla penombra. “E’ bella -pensò- è bella come la sua anima”.
Sfiorò le gemme e gli intarsi d’oro, toccò l’elsa lavorata, in silenzio… A che serve sognare l’impossibile ?
Si avvicinò a lei, le sfiorò i capelli in una carezza così leggera da apparire goffa e stentata. Sospirò. Sospirò forte mentre estraeva il pugnale e lo affondava in quel petto dolcissimo.
“Ora anche tu sei libera”, mormorò in un singulto strozzato, mentre raccoglieva il suo corpo piegato come per un’ultima carezza.
(Perché lei, mio Dio,-si gridò dentro- e non questo vecchio ?)
Harun al-Rashid, califfo, sapiente, scrittore, raccoglitore spietato di sogni, quella volta e mai più, pianse di pena.

2 commenti:

  1. Senza dubbio un bel racconto, profondo, suggestivo... e scritto molto bene.

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  2. Quoto il parere di Paolo e aggiungo i miei complimenti a Peppe.

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