Il "fuoco francese" è un'infiammazione del cavo orale che porta alla comparsa di dolorose placche che si inspessiscono; il fenomeno interessa soprattutto gli adolescenti. Si accompagna a stati d'ansia e visioni notturne. Nel tardo Medioevo alcuni medici "francesi" credettero di leggere in ogni placca una lettera dell'alfabeto. Ne seguì la vera e propria moda di trarre dalle placche un vaticinio.
Molti
medici francesi vaganti per le campagne avevano la spaventosa abitudine di
recare con sé un ragazzetto infetto (dopo averlo comprato per qualche moneta da
una famiglia ben contenta di sbarazzarsi di una bocca per lo più divenuta del
tutto inutile e maledetta) in maniera da potere arrotondare i miseri compensi
derivanti dall’arte medica con gli incassi dovuti ai vaticini. I ragazzetti
infetti morivano dopo un anno circa, mese più mese meno, semestre più semestre
meno, col sangue irrimediabilmente avvelenato.
Tale
pratica del fuoco francese (e naturalmente l'infezione cui si doveva il morbo
stesso) si dice sia resistita per un secolo circa, per poi scomparire con
gradualità. In realtà se ne trovano tracce e testimonianze anche in età
illuminista.
Il
“fuoco”, che oggi non si chiama più con tale appellativo e che si cura con
pasticche di potassio, almeno in una prima fase dall'esito di solito fausto,
regrediva all’apparenza. Per poi ripresentarsi con placche più robuste di
prima, sulle quali i medici leggevano le lettere immaginarie. Ma la pacchia e
lo sfruttamento non sarebbero durati ad
libitum.
Col
tempo le placche micidiali apparivano anche nelle zone riproduttive della
disgraziata gioventù, finché il soggetto rendeva l’anima tra le febbri che lo
divoravano. Particolarmente richiesti i vaticini in limine mortis, perché del maiale non si butta via nulla. Non si
butta nulla oggi, in tempi di relativa abbondanza, figuriamoci secoli fa... Del
resto, come si immagina, i vaticini in
limine mortis erano considerati quelli più veritieri perché più vicini
all’aldilà. Col perdurare di simili aberrazioni anche nel settecento, il
castello illuminista con tutti i suoi addentellati di illusione e riscatto si sgretolava.
Cosi' come il fondo di benignità originaria di uno stato di natura. Nella
natura lasciata allo stato brado proliferava anche il necessario ingrediente
della morte, di fronte al quale lo sguardo si abbassava, intimorito o sdegnato.
Non restava che rimandare la salvezza della carne, cioe' il qui ed ora, ad un
altro mondo, infinitamente distante. Un po' come avviene oggi, con la cosmesi
infinita che inizia quando il corpo vive ancora - e spera segretamente o fa
finta di niente - e prosegue nella bara esposta, irrisione ultima dopo
un'esistenza trascorsa all'oscuro di tutto. Un po' come avveniva un tempo.
Stato di natura o inganno grande?
Ecco
piuttosto le piccole tristi carovane, o le avresti definite immonde comunità,
condotte dai “medici” dalle palandrane lise con le decorazioni sudicie e
strappate. Medici in babbucce bucate, le unghie dei piedi bluastre e ritorte, o
con i piedi infilati in quelle che erano oramai parodie di scarpini dal tacco
consunto. Medici con tanto di frustino ricavato da un ramo, utile per castigare
e guidare la mandria. Carovane composte di fanciullini mocciosi e
febbricitanti, le labbra riarse, gli occhi lucidi, le ininterrotte flussioni di
muco grigio e rossastro. Fanciullini
che, curiosamente consapevoli della parte loro riservata, mugolavano nenie da
internati e rivolgevano lo sguardo obliquo al cielo. Una preghiera al dio
cattivo e un'implorazione per un avanzo qualsiasi.
Fanciullini
che venivano invitati a spalancare la bocca per offrire lo spettacolo corrotto
e insostenibile di quei cavi orali, di quelle mucose invase dalle placche di
pus. Ogni placca una lettera. “Tornerà mio figlio dalla guerra?”, chiede
l’illusa contadina. “Oui”, legge il medico in bocca al ragazzo ormai esperto.
“I suoi occhi vedono quelli di Cristo crocifisso”, racconta alla contadina il
medico capobranco. E intende sottolineare quanto il vaticino sia veritiero,
totalmente degno di fede, poiché quel fanciullino lì che ha spalancato le
fauci, tutta una piaga, tutto un bruciore, non ha che un mese di vita, due al
massimo, e perciò l’anima sua è più di là che di qua, e dunque da quella bocca
giovane e dilaniata dal fuoco francese non può che uscire la verità. “Ora
pagatemi, donna, o il lieto annuncio può riversarsi nel suo esatto contrario.
Avete capito?”. La contadina non ha compreso proprio tutto, parola per parola,
ma il concetto centrale e la minaccia contenuta nel medesimo le sono più che
chiari. Non ha monete, può offrire solo un paio di polli vivi. “E sia”, sbuffa
il medico. “Ma non basta”, aggiunge. Così la donna dà fondo alla dispensa e
tira fuori una caciotta. L’avido artiglio del medico prende il formaggio e lo
fa scivolare in un sacco dove i polli si dibattono. “Tutto qui?”, sottolinea.
Al che la misera si inginocchia a mani giunte e confessa d’aver finito ogni
scorta. Il medico brontola, le dà le spalle e si allontana coi ragazzi, di cui
tre tenuti al guinzaglio. “Andiamo!”, sibila con voce roca dando uno strattone
alla corda da cui si dipartono tre cappi che circondano il collo degli sventurati
schiavi ammalati. Ammalati e deboli, incapaci di scappare, ma bravi a fare
scena. La truppa si allontana, mentre la contadina resta lì in ginocchio e
prega, prega la vergine che le ridia il figlio maggiore partito a forza per
qualche guerra.
Beh penso che lo scrittore abbia sia una vena letteraria che un notevole senso storico. Spero ne scriva altri che abbiano il gusto e la "leggerezza" di questo assaggio narrativo.
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