giovedì 7 aprile 2016

SUL PONTE di Teresa Regna

Si svegliò sul ponte. Era nudo, e non aveva motivo di essere nudo, in pieno inverno. Non avvertiva il freddo, però, era come se la sua pelle fosse divenuta insensibile, impenetrabile alle sensazioni provenienti dall’ambiente circostante.
Al di là del ponte non riusciva a scorgere nulla: né il cielo sopra di lui, né colline o alberi che delimitassero l’orizzonte, e nemmeno il fiume che il ponte gli consentiva di attraversare. Il mondo intero era celato da una fitta nebbia, che pareva scaturire dalle viscere del cielo al solo scopo di occultare il paesaggio e annebbiare i sensi dell’uomo.
Persino le sue percezioni erano distorte: il ponte gli appariva ricoperto da un sottile strato di ghiaccio, mentre un attimo prima gli era sembrato composto dal terreno arido e pietroso tipico della sua regione natale, la Persia.
Avrebbe voluto scuotere la polvere impalpabile dell’incertezza dalla sua mente, perforare la nebbia che lo avviluppava con il pensiero logico, ma non ne era capace. Sentiva di non poterlo fare. Mai più.
Il pragmatico guerriero mercenario, al soldo del miglior offerente, che aveva assassinato le persone a centinaia, dato fuoco ai villaggi e saccheggiato le città, depredando senza scrupoli di sorta le case ormai vuote e i cadaveri mutilati, era confuso. Sempre più confuso e incerto. Come un puledro allontanatosi dal branco, come un bambino perso nel buio bosco della vita.
Un piede davanti all’altro, passo dopo passo, avanzava. Quale fosse la meta, non gli era dato sapere. Era costretto ad avanzare da una  forza  sconosciuta,  da  un  misterioso potere che gli imponeva: cammina. Era sottoposto al dominio dell’incomprensibile, invischiato nella nebbia densa come melassa, con l’animo in tumulto. E il ponte diveniva sempre più stretto, come se la mano dispettosa di un gigante lo affettasse ad ogni suo passo.
Un lampo gli percorse la mente. Il ponte aveva un nome: Cinvat. Però non riusciva a ricordare il suo, di nome. Ne aveva avuto uno, ne era certo, ma in quel momento gli sfuggiva. La confusione aumentava con l’assottigliarsi della striscia di terreno su cui poggiava i piedi.
Volse lo sguardo verso il basso, sforzandosi di concentrarsi, di rammentare un qualche particolare, o almeno il suo nome. Non vide più il ponte, bensì una lama affilatissima che minacciava di affettargli le piante dei piedi, se avesse continuato ad avanzare.
Urlò, mentre una consapevolezza improvvisa gli agghiacciava la mente: il ponte era la via che conduceva al luogo dell’eterna delizia; la lama lucente di sangue lo condannava, invece, all’eterna dannazione, al tormento senza fine. Non possedeva più un corpo, ormai, né un nome, né un barlume di speranza: era costretto a gettare la sua anima nel profondo abisso degli inferi.

 

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