sabato 2 gennaio 2016

CUORE DI PIETRA di Teresa Regna

Il fenomeno cominciò con un leggero intorpidimento degli arti inferiori e superiori; il formicolio nato pian piano divenne persistente e oltremodo irritante. La nebbia calò a poco a poco sulla mente dell’uomo, e minuscoli puntini luminosi creati dall’alterata circolazione sanguigna riempirono il casco pressurizzato.
La fine era vicina. Ne era certo. Chiuse gli occhi nel vano tentativo di scacciare i puntini di luce che lo ferivano, preannunciando la morte imminente. La riserva di ossigeno stava per terminare; d’altro canto, gli avevano concesso di portare con sé una sola bombola.
L’astronauta sospirò impercettibilmente. Avrebbe potuto parlare, urlare, imprecare contro la mala sorte fino a quando la voce l’avesse abbandonato, ma sarebbe servito soltanto ad esaurire prima del dovuto l’ossigeno che ancora circolava nella tuta.
La tuta era la sua prigione, e lo spazio infinito la tomba designata. Perché era un assassino che non aveva mostrato il minimo rimorso per il feroce gesto compiuto. Aveva sgozzato il compagno di cabina come si fa con le pecore al macello: senza rimorsi, pentimenti o scrupoli di sorta. Il collega l’aveva insultato, e tanto gli era bastato per recidergli la gola con un filo di ferro procuratosi chissà dove.
L’avevano processato, e condannato alla morte più atroce che un astronauta possa sperimentare. Asfissia, lenta ma inesorabile, nella solitudine del cosmo. L’avevano scaraventato fuori dall’astronave come si fa con i rifiuti, decretando la sua fine inevitabile e dolorosa. La bombola d’ossigeno, che aveva  ottenuto  quando  l’aveva   chiesta,  serviva a prolungare l’agonia, rendendo la condanna ancora più crudele.
Ora andava alla deriva nella sua prigione, senza meta né futuro, maledicendo gli uomini che l’avevano condannato, ma non provando alcun rimorso per l’omicidio commesso. Tirò una cordicella sottile, attorcigliata intorno all’indice della mano destra, e cambiò direzione: aveva intravisto un asteroide vagante. Voleva raggiungerlo prima che le forze residue venissero a mancare, prima che l’avvelenamento da anidride carbonica gli facesse perdere i sensi.
Ci riuscì per una frazione di secondo. Si accasciò sulla superficie butterata del piccolo corpo celeste come un sacco vuoto, riuscendo ad esprimere soltanto un ultimo pensiero prima di svenire.
L’avevano definito cuore di pietra, intendendo insultarlo con questo epiteto. Non sapevano, però, di essere nel giusto. E di non averlo insultato affatto.
Quando la coscienza tornò ad affiorare in lui, l’essere era tornato alla sua forma originaria: un masso oblungo di pietra dura, spigolosa e puntuta.
La sua avventura nel mondo degli uomini era terminata. Ma il suo cuore di pietra avrebbe continuato a battere per molto tempo ancora.

2 commenti:

  1. Bel raccontino di fantascienza classica, come piace a me.
    Per associazione di idee ho pensato a "Il vagabondo dello spazio" di Fredric Brown.

    Giuseppe Novellino

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  2. E' proprio quello a cui mi sono ispirata, grazie.
    Teresa

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