sabato 21 giugno 2014

H-DAY di Danilo Concas



L'aria di Novembre è fredda, molto fredda.
Ho portato questi fiori a Stephenson, mio grande amico. Mi inginocchio sulla sua tomba e la mia mano bionica sfiora il suo ologramma dal sorriso perenne. Il mio corpo rimodellato e ringiovanito dall'ingegneria genetica viene scosso da un fremito profondo. E quando le lacrime cominciano a scorrere, sgorgano con esse i ricordi terribili della Guerra Madre sugli avamposti di Charon 9, il gigantesco pianeta sede dell'Inferno.
Quel giorno venne chiamato lo Human-Day, l'ultimo disperato attacco degli Umani agli ipertecnologici Charonii, una sorta di enormi orchi distruttori di razze aliene.
Appena vennero in contatto con noi e provarono a conquistarci, seppero subito che non eravamo come gli altri. Per la prima volta nella loro storia ebbero paura. La guerra durò cinque lunghi anni, con massicce carneficine da ambo le parti, e per poco non presero il sopravvento. Fu allora che venne pianificato l'H-Day: un miliardo e mezzo di Umani su cinquantamila navi da combattimento e sbarco dirette verso Charon 9. O vincevamo noi o vincevano loro, nessuna terza possibilità.
Ricordo la voce metallica del comandante di vascello quando il possente pianeta comparve sugli schermi, l'urlo ritmico delle sirene d'allarme e gli ordini perentori e rabbiosi dei capitani alle loro squadre. La disperazione e la paura scorrevano nelle nostre vene come psicofarmaci, generando la consapevolezza che da quello scontro sarebbe scaturito il destino della nostra razza.
Vidi Stephenson baciare furtivamente la foto della sua ragazza sul comunicatore da polso, e mi si strinse il cuore pensando se avessi mai rivisto la mia. Secondo i piani le prime corazzate avrebbero dovuto tenere impegnate le loro pericolosissime navi in orbita, aprendo la strada alle truppe di terra; ed era evidente che stavano avendo un certo successo perché all'improvviso la nave vibrò: eravamo entrati nell'atmosfera di Charon 9. L'ordine urlato di indossare i respiratori e caricare i disintegratori venne da un arcigno sergente orbo.
Quando la loro contraerea cominciò a colpirci era come essere sbattuti contro un muro da una mano gigantesca. All'interno della nave ci fu un forte scoppio e le fiamme divamparono voraci proprio mentre toccammo il suolo. I grandi portelli cominciarono ad aprirsi e il gas venefico di quel pianeta si riversò all'interno insieme ai primi nuclei laser. Quando furono quasi completamente aperti ci riversammo dritti  in quell'inferno. La testa di Kovalski, il mio vicino polacco, venne cancellata da un nucleo incandescente, mentre altri vennero brutalmente smembrati da quelle palle bianche di energia. Era una corsa in un labirinto di fuoco e cercammo riparo dietro alcune rocce provvidenziali, un attimo di pausa per guardare il cielo nebuloso squarciato dai lampi della battaglia orbitale e popolato dalle altre navi in fase di atterraggio, prima di rispondere al fuoco con i nostri disintegratori. Lanciai una granata Nectron verso la postazione più probabile, giacché era quasi impossibile sporgersi. Approfittando della momentanea copertura avanzammo di un altro po', proprio quando vidi Stephenson esplodere in una nuvola rossa colpito da un obice protonico. Urlai di rabbia e, col viso rigato dalle lacrime, uscii allo scoperto sparando a ventaglio e avanzando. Il gruppo di cecchini che teneva sotto tiro il mio gruppo si volatilizzò al contatto del mio raggio, e subito dopo lanciai un'altra granata. Stavamo ancora avanzando quando si profilarono i loro velivoli rossi che subito dopo cominciarono a cannoneggiare ferocemente. Era un massacro.
Dall'orbita lontana arrivarono una serie di impulsi precisi ad annientare quei diavoli meccanici volanti, e ci consentirono di percorrere un altro bel pezzo di terreno. Ricordo che scivolai malamente su una massa informe, una volta un essere umano, e che ciò mi salvò sicuramente la vita visto che un nucleo mi passò fischiando a pochi centimetri dal viso. Quel pianeta veniva definito l'inferno, ma non era proprio esatto, visto che in quel momento anche i diavoli avrebbero preferito starne ben lontani. Era un continuo assordante di esplosioni, schianti, urla e lamenti. Avevo voglia di togliermi la maschera respiratoria per togliermi il sudore dagli occhi, ma se l'avessi fatto sarei diventato una pozzanghera di tessuti sciolti.
Passarono oltre tre ore terrestri prima di uscire da quell'incubo e raggiungere il Falk da combattimento che ci apriva la strada verso postazioni già conquistate, e fu un immenso sollievo vedere le loro navi orbitali rientrare in fiamme nell'atmosfera e schiantarsi al suolo in gigantesche esplosioni nucleari. Anche molte delle nostre navi, purtroppo, non avrebbero mai più fatto ritorno, ma l'orbita era finalmente nostra. Da quel punto in poi avevamo l'ordine di massacro totale.
Quando feci ritorno sulla Terra, due anni dopo, non avevo più il braccio destro e una parte della mia faccia era un grumo sanguinolento. Il danno peggiore, però, ce l'avevo dentro, nell'anima. È una ben magra consolazione considerare la razza Charonii estinta.
Ogni anno, l'undici di Novembre, mi reco a trovare Stephenson, nell'irrazionale convinzione che possa essere in qualche modo ancora lì con me. E ogni anno gli faccio la stessa identica domanda:
Avevamo altra scelta?


5 commenti:

  1. Bel racconto, quello di Danilo, cui rivolgiamo un saluto molto cordiale.

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  2. Descrizione di una guerra terribile, come sono terribili tutte le guerre...

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  3. Bel racconto di fantascienza militare.
    G:S:

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  4. Un atutentico kolossal fantascientifico concentrato in poche parole. La battaglie viene descritta in modo efficace, con realismo. Uno scenario da guerre stellari con tutte le carte in regola... e rimanda un po' (almeno questa è la mia impressione) alle atmosfere di "Fanteria dello spazio", il celebre romanzo di Heinlein.

    Giuseppe Novellino

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  5. Bravo Danilo, proprio un bel racconto.

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